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Web, diritti e tutela della concorrenza. L’opinione di Romano Prodi

(Via L’Espresso)

Si chiama world wide web, eppure la ragnatela di internet è tutt’altro che globale. Infatti il 40 per cento della popolazione mondiale non ha accesso al web, mentre il restante 60 lamenta lo strapotere di Amazon, Facebook, Google, monopolisti del digitale. Dalla fame d’informazione online al diritto alla connettività, L’Espresso dialoga con Romano Prodi, fondatore e presidente della Foundation for World Wide Cooperation, l’associazione che sta facendo un’azione di lobby per convincere l’Onu ad inserire la connettività fra i diritti dell’uomo, al pari della libertà e dell’istruzione.

Quanto è ancora locale la rete che s’atteggia a globale?
«Inizialmente pensavo che la disomogenea diffusione del web fosse una questione risolvibile in breve tempo, invece il percorso è lento e accidentato. Le sfilacciature della rete digitale impediscono ancora oggi a tre miliardi di persone, cioè al 40 per cento degli abitanti della terra, di essere online, di comunicare con il resto del mondo, di sapere che succede nel proprio paese e di aver accesso a un corso di formazione che, per esempio, può insegnare un metodo per rendere più fertile la terra».

Chi dovrebbe farsi carico della realizzazione delle infrastrutture digitali?
«Premesso che il riconoscimento del diritto non costa nulla a nessuno, nel medio periodo sarebbero le imprese che ritengono economicamente profittevole un investimento in quelle aree a farsi carico dei progetti. Sino ad oggi quelle che hanno sostenuto lo sviluppo dell’infrastruttura digitale nei paesi in via di sviluppo, specie in Africa, hanno guadagnato dall’implementazione di sistemi tecnologici avanzati. Ad esempio, abbiamo osservato lo sviluppo esponenziale di due banche africane che performano meglio e più velocemente rispetto a quelle dei paesi sviluppati, perché sono partite senza alcuna zavorra pre-digitale. Concretamente, se da un lato esistono imprese a sostegno dell’investimento e dello sviluppo, dall’altro ci sono spinte contrarie di paesi che non hanno alcun interesse a favorire una crescita culturale e civile di queste aree. Mi riferisco, per esempio, alla Cina, che si sta impegnando nello sviluppo hardware dell’Africa, costruendo strade e dighe, ma non in quello software delle infrastrutture digitali. Mentre gli Stati Uniti non hanno alcun motivo per investire in quell’area, specialmente da quando hanno avviato una politica di sostanziale autosufficienza energetica».

Perché l’Europa ha così tante remore a sostenere la connettività quale diritto universale, ad estenderlo a paesi poveri, come quelli africani?
«Centinaia d’anni di colonialismo non si cancellano in poco tempo e il peso degli ex paesi coloniali è ancora molto forte. Nonostante lo spazio di manovra della Commissione Europea stia crescendo, l’influenza di Francia e Gran Bretagna è ancora molto forte e questo rende tutto più difficile. Il risultato è l’assenza di una chiara e decisa presa di posizione comune. Sarebbe però moralmente doveroso e politicamente indispensabile approvare questo piano, perché nonostante l’Europa sostenga l’Africa con progetti di aiuto, non ha mai fatto il grande salto, affermando un progetto di sviluppo collettivo per il continente. Si potrebbe partire proprio da questo diritto alla connettività, che è fondamentale per garantire l’inclusione sociale, per promuovere l’innovazione nei diversi settori economici, dall’agricoltura alla sanità, dalla tutela dell’ambiente al mondo del lavoro, dall’uguaglianza di genere alla tolleranza. L’accesso a internet consentirebbe a milioni di bambini di accedere all’educazione scolastica di base. Se l’Europa e la Cina andassero al di là degli interessi politici, allora qualcosa potrebbe davvero cambiare. Certo, lo so, è utopia».

Dall’altra parte dello spettro, c’è un sistema monopolistico che ha conquistato il controllo del digitale. Se oggi gli africani dovessero diventare cittadini del web, dovrebbero immediatamente fare i conti con Google, Amazon e Facebook, padroni assoluti della rete. Le big company del web crescono acquisendo ogni neonata e interessante start up anche per evitare che, in futuro, possa competere con loro, negando dunque ogni possibile concorrenza. E il sistema di indicizzazione delle ricerche Google, ad esempio, è gestito da un algoritmo i cui parametri non sono noti.
«È una questione molto importante e bisognerà pure che un giorno o l’altro l’antitrust torni a fare il proprio mestiere. Di regolamentazione del mercato mi sono occupato per lunghissimo tempo (prima interessandosi alla questione dei monopoli durante i propri studi economici, successivamente gestendo la ristrutturazione dell’Iri e dando il via al piano di privatizzazione nazionale, poi alla presidenza della Commissione europea, ndr). Era un periodo in cui il lavoro dell’antitrust era vivace, contrastava lo strapotere dei grandi monopolisti, come i Rockefeller, padroni delle ferrovie e dell’energia, per nulla amati dalla popolazione, perché avevano il potere di alzare i prezzi a proprio piacimento restringendo l’offerta. Oggi, invece, non c’è battaglia: sembra che per i politici sia difficile contrastare Google e Facebook, se non altro perché il costo di queste piattaforme è supportato dalla pubblicità e non grava direttamente sulle tasche dei consumatori. Quando utilizziamo Google Maps ne percepiamo solo il vantaggio di poterci muovere facilmente in un luogo sconosciuto, mentre non capiamo che quel servizio viene pagato rinunciando a un po’ di privacy. I cittadini non ne sentono direttamente il peso, ma c’è ed è gravoso. La svolta arriverà non appena la popolazione percepirà la privacy come un diritto indispensabile e inviolabile e allora capiranno che questo è un monopolio, che limita la concorrenza. Perché il web non è una gentile concessione, ma è un diritto».

Il punto di contatto fra chi non ha accesso al web e chi può sfruttarlo solo cedendo informazioni a Google e Facebook, sta proprio qui. Risolvere un problema significa affrontare anche l’altro.
«Se il web venisse considerato come un diritto per l’uomo, come un’infrastruttura di pubblica utilità, al pari di una strada, di un aeroporto, di un acquedotto, allora saremmo meno disposti ad accettare che una manciata di big company controllino questo bene prezioso che è l’informazione e la comunicazione digitale, che è la porta d’accesso per diventare cittadini del mondo. Credo che questi due obiettivi, il diritto alla connettività e l’affrancamento dai monopoli, vadano di pari passo e la conquista dell’uno sia strettamente legata all’altra. Ma per raggiungerli serve interesse, consapevolezza, serve un’ondata di interesse popolare».

Leggi l’intervista completa su L’Espresso.

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