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Legge e tecnologia, come cambia il corso di laurea in Giurisprudenza

Intelligenza Artificiale

Di Claudia Morelli

Il digitale?

“Azzera millenni di scienza del diritto romano, che da Gaio in poi si è basata sulla distinzione tra le cose (le res) corporali e quelle incorporali, dando valore alle prime. Cambiano gli ordini di grandezza, prima misurati in rapporto alla dimensione umana del tempo e dello spazio. Per millenni abbiamo misurato lo spazio intorno all’uomo in piedi, palmi, pollici”.

Non potevo che iniziare questo articolo dedicato alle necessarie ( e realisticamente perseguibili) modifiche al ciclo di laura in Giurisprudenza per la formazione del “nuovo” giurista in una dimensione digitale, con la riflessione di Oliviero Diliberto, preside della Facoltà di Giurisprudenza de La Sapienza di Roma, che al diritto romano ha dedicato la ricerca accademica.

Diritto romano vs diritto digitale?

Nel discorrere di questi temi con i miei interlocutori è venuto fuori (leggerete) anche “l’insostenibile peso della tradizione”. È un tema denso e sfidante e che mi trova tra coloro che non amano contrapporre le categorie del diritto “tradizionali” a quelle “innovative”.

Ho dovuto fare questa premessa anche per fornire un ulteriore chiave interpretativa per la lettura delle interviste che seguono.

“Gaio spiegava ai suoi studenti che le cose corporali sono quelle che “possono essere toccate” (quae tangi possunt); le altre, le cose incorporali, sono residuali e – dal punto di vista del diritto romano e, sino a pochi decenni fa, anche dei diritti contemporanei – assai meno rilevanti rispetto alle prime. Con l’irruzione del web è cambiato tutto, perché ormai quasi tutto è incorporale, immateriale. Ma è anche infinitamente più importante economicamente”, ammette Diliberto.

Per Diliberto, la contrapposizione è mal posta, mentre obiettivo perseguibile dovrebbe essere una buona sintesi tra tradizione e innovazione: “In Cina, dove stanno studiando i sistemi di civil law, hanno inserito negli studi la storia del diritto romano (la Cina è tra i main partner tecnologici mondiali, ndr). Nei sistemi giuridici più vicini, il digitale impone una rinnovata ricerca giuridica, una nuova filosofia del diritto. L’accademia è chiamata ad abolire ogni forma di pigrizia intellettuale. Nei secoli è già successo. Sta succedendo anche oggi, se pur con tempistiche che appaiono discroniche. In tanti dipartimenti si stanno studiando nuove categorie; tanti giuristi più giovani stanno lavorando”.

Ma nel frattempo – chiedo – cosa si studierà all’università? Il ciclo di studi attuale appare spesso anacronistico rispetto alla pressione della digital transformation, che chiede nuove competenze, multidisciplinarità, managerialità. “Come prima cosa occorre spostare gli insegnamenti curriculari per fare spazio al diritto del digitale. Oggi l’informatica giuridica (l’antesignana del diritto digitale, ndr) non è obbligatoria”. Ma la Sapienza si sta organizzando (come anche altre Università… vedi Legal innovation: la law school di domani prende forma e infra), riferisce Diliberto, e dal prossimo anno accademico materie espressamente dedicate all’intelligenza artificiale applicata al diritto diventeranno curriculari”.

Amedeo Santosuosso, professore di diritto, scienza e tecnologia all’Università di Pavia, dedica ormai da tempo le energie a progetti universitari che colleghino il diritto alle nuove tecnologie e nonostante ammetta che è impraticabile, allo stato attuale, un intervento nel ciclo quinquennale, non è neanche disposto a “disfarsi” degli studi “più umanistici”. Suggerisce piuttosto una revisione della distribuzione delle materie nell’arco del quinquennio più consono al mondo che viviamo. “Lo studio del diritto comunitario, che è fonte di diritto interno in percentuale sempre maggiore, dovrebbe essere anticipato al primo anno; il diritto romano andrebbe posticipato al terzo”, specifica. Ma come, oggi che molti ne chiedono l’abbandono? “Lo studio romano è di una importanza straordinaria come modello di diritto della globalizzazione. Nato come diritto agricolo, si è espanso fino ad essere il primo diritto globalizzato. Lo studio dei suoi meccanismi di espansione è fonte di vision, più che di messa a disposizione di una cassetta degli attrezzi, come è stato inteso finora”.

Intoccabile il ciclo di Giurisprudenza, ma qualcosa si può fare

Per la generazione di accademici più giovani che cercano un ponte con il mondo della impresa, occorrerebbe avere un coraggio disruptive. “La laura magistrale in Giurisprudenza andrebbe rivista per inserire elasticità e flessibilità. Per chi non voglia fare ricerca, per esempio, si potrebbe disegnare un percorso più orientato all’impresa sin dai primi tre anni; e poi nei successivi due accedere a percorsi più specializzanti nel settore delle nuove tecnologie: Intellectual Property; Internet of Things, Blockchain, Intelligenza artificiale, per affrontarle sotto il profilo giuridico e tecnico, insieme”, immagina Claudia Sandei, professore associato di diritto commerciale a Padova. “Sarebbe ideale abbinare i due approcci, anche se non credo che si possa accedere a corsi di coding approfonditi nei cinque anni. Piuttosto, promuoverei le cliniche, non limitandole alla dimensione puramente legale/giuridica, ma nel segno della multidisciplinarietà”. Sandei è consapevole che “solo sporcandosi le mani con la tecnologia, anche il giurista può comprendere il meccanismo del motore per governare la macchina. Mi piacerebbe avere dei Legal Tech Camp, creare ponti di collegamento tra il mondo delle start up legal tech e il mondo universitario: in fondo sono molto vicini. Credo che l’apporto che il mondo universitario può dare al settore delle start up è molto sottovalutato”.

C’è poi il tema del collegamento con il mondo produttivo: life scienze, biotecnologie, media law, data protection, antitrust digital sono settori che si imporrano; ma  la domanda è “quali giuristi troveranno pronti”?

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