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L’introduzione commerciale dei farmaci mirati alla terapia genica: promesse terapeutiche e risvolti bioetici

di Mario Ganau, Lara Prisco e Laura Ganau

Fra qualche anno in Europa la vicenda di Glybera, primo farmaco sperimentale (prodotto da uniQure, un’innovativa azienda biotech olandese) approvato per la terapia genica di pazienti con deficit ereditario di lipoproteina lipasi (LPL), verrà ricordata come il primo, coraggioso e significativo passo verso l’introduzione e la regolamentazione di tale classe farmacologica nel vecchio continente. L’LPL altro non è che un enzima pancreatico coinvolto nella lisi dei chilomicroni, biomolecole caratterizzate da bassa densità (0,90 g/ml) ed elevato diametro (tra i 75 e 1200 nm) che, prodotte a livello dell’intestino tenue, sono deputate al trasporto postprandiale di lipidi, quali trigliceridi e colesterolo, introdotti con l’alimentazione. Nel caso specifico, la carenza di LPL obbliga gli individui affetti ad una dieta rigidissima e mirata alla quasi totale eliminazione dei grassi dall’alimentazione, pena non solo la maggior predisposizione alle patologie aterosclerotiche ma soprattutto l’elevatissimo rischio di infezioni pancreatiche croniche e latenti o nei casi peggiori di temutissime pancreatiti acute. Il deficit di LPL è generalmente ereditario, colpisce circa 1-2 persone/milione ed è determinato da un’alterazione al braccio corto del cromosoma 8 dove appunto si trova il gene deputato alla sua trascrizione. Oltre 100 tipi diversi di alterazioni (mutazioni, traslocazioni, delezioni, etc) possono contribuire alla sua mancata produzione o funzionalità: si tratta pertanto di una cosiddetta “malattia orfana”. Tale termine, introdotto a partire dagli anni ’80, viene attribuito alle condizioni morbose più rare, che per definizione sono poco conosciute, ma anche poco studiate e spesso mancanti di una terapia adeguata. Purtroppo tale vuoto terapeutico è spesso secondario non tanto alla loro complessità fisio-patologica quanto alla loro bassa incidenza, cosa che le rende poco appetibili per l’avvio di ricerche sperimentali e cliniche da parte delle grandi aziende farmaceutiche. I progressi in ambito nanotecnologico e d’ingegneria genetica, cui assistiamo dall’inizio dello scorso decennio, stanno però rapidamente aprendo nuove ed interessanti opportunità terapeutiche per molte “malattie orfane”, di tipo metabolico e di origine ereditaria, per le quali fino a pochi anni fa l’unica arma disponibile era la consulenza genetica prenatale. Il problema delle malattie rare, di cui solo recentemente si è cominciato a trattare in maniera sostanziale, sia in sede scientifica che di opinione pubblica, è più vasto di quanto si possa pensare: il possibile bacino di patologie per le quali è auspicabile tale svolta ammonta infatti a circa 3000 disfunzioni geneticamente determinate che segnano drammaticamente la vita di migliaia di individui in tutto il mondo. La vicenda dell’alipogene tiparvovec, la variante del gene umano della LPL approvata appunto per l’uso clinico in Europa è in tal senso esemplificativa di come la storia di patologie rare e complesse possa essere riscritta dall’impiego di multiple competenze e tecnologie innovative che hanno finalmente permesso di sviluppare degli approcci terapeutici inimmaginabili fino a pochi anni fa. Il meccanismo di azione di tale farmaco si basa sulla possibilità di veicolare all’interno del nostro organismo l’informazione genica di interesse (ossia il gene specifico funzionante) fino a raggiungere il nucleo delle cellule e inserirla nel loro codice genetico mediante l’impiego di un vettore, di solito di origine virale. I virus, infatti, hanno sviluppato nel corso dei millenni la capacità di trasportare all’interno delle cellule umane le loro informazioni geniche sotto forma di DNA o RNA e avviare così la produzione di specifiche proteine virali che poi è alla base della loro alta infettività. Tuttavia se opportunamente modificati, o meglio ingegnerizzati, al fine di rimuovere i loro geni patogeni e sostituirli con geni terapeutici, e regolare “a priori” la loro capacità di trasporto al fine di ponderare minuziosamente la loro infettività in senso terapeutico, alcuni virus sono divenuti i nostri migliori alleati. Nel caso del deficit di LPL i ricercatori della suddetta casa farmaceutica olandese hanno funzionalizzato tali vettori virali, nella fattispecie degli Adenovirus solitamente responsabili di gastroenteriti o polmoniti, affinchè le loro cellule bersaglio atte alla produzione dell’enzima mancante divenissero i miociti, ossia le cellule muscolari, ben più gestibili rispetto al tessuto cellulare pancreatico sia in termini di efficacia che di sicurezza terapeutica. Il percorso che ha infine portato l’European Medical Agency ad approvarne la commercializzazione in Europa è stato forse ancora più complesso: la rigorosa valutazione dei risultati ottenuti nei tre studi sperimentali clinici avviati in Europa e Nord America su un totale di appena 27 pazienti affetti da deficit di LPL ha infatti avuto l’arduo scopo di confermare su un campione così esiguo che i benefici clinici, ossia la possibilità di determinare una produzione costante ed efficace dell’enzima con una sola somministrazione, fossero superiori ai rischi terapeutici. Sebbene oggi la terapia genica viva un momento importante non è lecito dimenticarne gli albori caratterizzati da cocenti delusioni e profonde tragedie come la morte dell’allora diciottenne Jesse Gelsinger sottoposto nel 1999 presso l’Università della Pennsylvania a un trial di terapia genica che lo condusse a morte solo 4 giorni dopo l’avvio della sperimentazione. La storia di Glybera quindi conferma che gli studi di efficacia terapeutica e farmacovigilanza, relativi all’impiego di farmaci mirati alla terapia genica, sono la struttura portante di un difficile e lungo processo di approvazione e commercializzazione, la cui anima non può non risiedere nei risvolti bioetici che la caratterizzano sul piano epistemologico, della prassi, del diritto internazionale e della deontologia professionale. In tal senso, la Dichiarazione di Helsinki del 2000, sviluppata dalla World Medical Association come la summa dei principi etici, riguardanti tutta la comunità medica per ciò che concerne la sperimentazione umana, è tuttora il principale faro che regola questo territorio di frontiera della ricerca farmacologica. La terapia genica ha di certo tutto il potenziale per rappresentare una delle più potenti e significative svolte nella storia della medicina, è bene però capire che anche questo prodigio della scienza non è scevro da un terribile lato oscuro. Affianco alle speranze terapeutiche si cominciano già a delineare le ombre di possibili usi impropri: il mondo scientifico sempre più globalizzato e purtroppo in alcuni casi anche deregolamentato mostra ora delle falle in cui l’uso di vettori virali e la possibilità di inoculare trans-geni mirati a potenziare le capacità sportive di atleti olimpici sta forse già facendo il proprio ingresso nell’arena del doping. L’impossibilità di verificare tali usi impropri della scienza medica rappresenta solo l’ultimo dei problemi, il principale infatti è che questo pericoloso passo rappresenta il primo esempio di come l’impiego prematuro, non controllato e probabilmente difficilmente gestibile sul piano medico di tali terapie possa presto essere foriero di insidie ancora più grandi e alle quali la comunità scientifica non è ancora preparata. Pertanto, poiché il bene dell’umanità è il bene primario, scienza e bioetica non possono che procedere di pari passo per garantirlo.
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