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Accesso ai media sulle due sponde dell Atlantico

di Andrea Stazi   Accesso ai media sulle due sponde dell’Atlantico. La centralità della tematica dell’accesso nella società e nell’economia odierne. All’inizio degli anni duemila, il sociologo statunitense Jeremy Rifkin ha posto in evidenza un mutamento epocale al quale stiamo assistendo e partecipando quotidianamente. Al giorno d’oggi, i mercati stanno cedendo il passo alle reti, i beni ai servizi, ed il concetto di proprietà è sempre più sostituito da quello di accesso. Le imprese ed i consumatori tendono sempre più ad abbandonare la tipologia di rapporto che sinora ha costituito il fulcro dell’economia moderna, ovvero lo scambio su un mercato di titoli di proprietà fra un venditore e un acquirente, a favore di un rapporto che si svolge nell’ambito di una rete e si basa sull’accesso e l’utilizzo temporaneo di una risorsa [1]. Nella visione economica tradizionale di Adam Smith, il gioco del mercato si fonda sulla capacità di acquisire ed essere titolari di diritti di proprietà sui beni, escludendone i terzi [2]. In una economia delle reti, è piuttosto l’integrazione dell’attività economica di ciascuno in un reticolo di relazioni reciproche volto ad ottimizzare lo sforzo collettivo, che favorisce il successo di un’impresa, attraverso una strategia “win-win”. La contrazione dei processi produttivi e l’abbreviazione del ciclo di vita dei prodotti, il costo crescente delle attività di ricerca e sviluppo, unitamente ai necessari costi di marketing, spingono numerose aziende ad unirsi in consorzi e alleanze strategiche, quando non in vere e proprie compagini societarie poliedriche a più livelli [3], per condividere informazioni, utilizzare risorse in comune e ripartire i costi, al duplice fine di avere a disposizione le risorse necessarie per competere sul mercato e assicurarsi contro le perdite, nel contesto sempre più rapido e volatile del nuovo scenario economico. L’economia globale basata sulle reti è guidata – guidandola, al contempo – dalla repentina ed incessante accelerazione del processo d’innovazione tecnologica. Da ciò consegue che, in un ambiente mediato elettronicamente, i processi di produzione, le attrezzature, i beni e i servizi risultano obsoleti con notevole rapidità, per cui l’accesso di breve periodo agli stessi diviene una soluzione adottata sempre più di frequente [4]. Nel nuovo scenario, in sostanza, accanto alle tradizionali economie di scala, stanno acquisendo un ruolo sempre più rilevante le economie di velocità [5]. Essere per prima sul mercato consente ad un’impresa di imporre un prezzo più elevato e godere di margini di profitto più ampi; anche pochi mesi di anticipo sui concorrenti possono risultare determinanti, al fine di realizzare un profitto prima che il prodotto diventi obsoleto o diffuso attraverso un numero tale di reti e supporti alternativi – magari con lievi variazioni che impediscano la violazione di diritti di proprietà intellettuale – da perdere, o dover condividere con i concorrenti, gran parte dell’utilità economica da esso generata per l’impresa. La velocità di arrivo su un mercato, d’altronde, può consentire altresì ad un’impresa di precludere, da un lato, l’accesso ad altri operatori, dall’altro, a monte, la stessa nascita del mercato, con un’azione che potrebbe definirsi di “pre-accesso distruttivo”. Alla riduzione del ciclo di vita dei prodotti, inoltre, si accompagna un’attenzione sempre più labile da parte dei consumatori. Di fronte a migliaia di nuovi prodotti e servizi offerti sul mercato a ritmo incessante, l’intervallo fra desiderio e gratificazione si sta avvicinando alla simultaneità, ed i consumatori si attendono un ricambio dei prodotti e loro versioni più evolute a frequenza assai elevata. Sono queste le giustificazioni economiche più evidenti che conducono spesso i nuovi entranti su un mercato ad evitare il più possibile investimenti in costi fissi o irrecuperabili, in quanto appunto sussiste il serio rischio che tali investimenti non siano recuperati affatto, dati la rapidità dell’innovazione ed il continuo ricambio dei prodotti. Nella nuova fase economica in cui ci troviamo, pertanto, il fornitore per lo più conserva la proprietà dei beni, che noleggia, affitta o cede in uso temporaneo a fronte del pagamento di una tariffa, un abbonamento, etc. La cessione della titolarità del bene lascia il passo ad un accesso temporaneo agli stessi, o più di frequente ai servizi, che viene negoziato fra server e client in una relazione di rete. In questo modo, nel processo economico la proprietà del capitale fisico, in precedenza fondamento della civiltà industriale, diviene assai meno rilevante. Viceversa, in una economia basata sulle reti essa è considerata sempre più spesso dalle aziende un mero costo operativo, più che un patrimonio; si preferisce “prendere in prestito” il capitale fisico, piuttosto che possederlo [6]. Anche il capitale intellettuale, d’altronde, del quale Rifkin ha posto in evidenza la centralità e la maggiore appetibilità nel nuovo sistema, risulta coinvolto in tale processo di “deviazione” verso uno scambio basato sull’accesso e sull’uso temporaneo [7]. Esso viene scambiato raramente, restando piuttosto un possesso del fornitore, il quale lo noleggia o ne autorizza un uso limitato da parte di terzi. Le imprese hanno già percorso molta strada, nel percorso di transizione dalla proprietà all’accesso, cedendo immobili, riducendo scorte, noleggiando attrezzature, devolvendo in outsourcing rami della propria attività, in una lotta per la sopravvivenza che tende all’abbandono di ogni proprietà e costo fisso superflui. Il possesso di molte cose è considerato obsoleto e inadatto ad una economia come quella odierna, caratterizzata dalla velocità e dalla volatilità. Mentre nell’economia di mercato si parlava di venditori e acquirenti, oggi si tende a parlare di fornitori e utenti. In un contesto simile, le transazioni cedono il passo alle alleanze strategiche, ad esempio sotto forma di accordi per mettere in comune risorse o condividere ricavi, creando reti allargate per cogestire le rispettive attività. In una economia fondata sull’accesso, del resto, il buon andamento dell’impresa dipende meno dal singolo scambio di beni e più dalla capacità di creare un rapporto commerciale a lungo termine con i clienti. Basti pensare che oggi spesso le imprese sono disposte ad offrire gratuitamente i propri prodotti, al fine di instaurare un simile rapporto e “fidelizzare” la clientela. Il passaggio dal regime di proprietà – fondato sul concetto della cessione della titolarità dei beni – al regime di accesso – basato sulla garanzia della disponibilità temporanea di beni o servizi (controllati per lo più da reti di fornitori) – muta radicalmente la nozione stessa di potere economico. In questo senso, come ha evidenziato Rifkin il potere maggiore, già al momento attuale e sempre più negli anni a venire, sembra destinato a confluire nelle mani di quei soggetti che si pongono quali “gatekeepers”, “guardiani” rispetto all’accesso alle reti ovvero ai beni o servizi scambiati attraverso di esse. Questi fenomeni, ha rilevato il sociologo statunitense, avvengono nel contesto di una trasformazione più ampia che riguarda l’essenza stessa del sistema capitalistico, interessato da uno spostamento di lungo periodo dalla produzione industriale a quella culturale. Nel futuro, una quota sempre crescente di scambi economici dovrebbe riferirsi alla commercializzazione, più che di beni e servizi prodotti industrialmente, di una vasta gamma di esperienze culturali, fruite tramite i diversi mezzi d’intrattenimento esistenti sul mercato e moltiplicati esponenzialmente dal progresso tecnologico. In questo nuovo scenario economico, la garanzia di accesso alle esperienze e risorse culturali, nonché alle reti polifunzionali che le diffondono, acquisisce una rilevanza analoga a quella della proprietà sui beni materiali [8]. Le reti elettroniche sulle quali si basano oramai la maggior parte delle nostre esperienze quotidiane, del resto, sono controllate da un numero limitato di operatori sempre più multinazionali. Questi possiedono le infrastrutture attraverso le quali le persone comunicano fra loro, e controllano una parte determinante dei contenuti culturali e d’intrattenimento che costituiscono “l’esperienza a pagamento” del mondo odierno [9]. Le grandi imprese che gestiscono le reti di comunicazione ed i loro fornitori di contenuti rappresentano quindi i gatekeeper, i guardiani che determinano le condizioni in base alle quali, da un lato, le imprese concorrenti e, dall’altro, l’universo dei consumatori/utenti possono avere accesso alle relazioni sociali ed economiche a livello globale. Siamo di fronte, come ha ben evidenziato ancora Rifkin, ad una “nuova forma di monopolio commerciale”[10]: un monopolio esercitato sull’esperienza vissuta – o in fieri, deve aggiungersi con un rilievo ancora maggiore – da parte di una notevole quota della popolazione mondiale. In questo senso, la sfida principale nell’”era dell’accesso” appare dunque quella relativa al ripristino di un equilibrio adeguato fra il dominio della cultura e quello dell’economia. Le risorse culturali e relazionali offerte dall’evoluzione tecnologica – nuovo “patrimonio dell’umanità” al pari delle risorse naturali nell’era industriale – rischiano di essere sfruttate, ed eventualmente depauperate, sotto il controllo di una cerchia ristretta di soggetti, ai quali si è fatto riferimento come “guardiani”, che detengono il controllo delle risorse essenziali sotto il profilo delle infrastrutture e dei contenuti da queste veicolati, con relativa minaccia non soltanto della libertà di concorrenza ma altresì della libertà di espressione, e quindi in ultima analisi della essenza stessa dell’individuo nelle sue manifestazioni sociali ed economiche più caratteristiche. Per quanto riguarda poi specificamente l’industria dell’intrattenimento, questa deve gestire il rischio che deriva da prodotti con un ciclo di vita brevissimo; ciò rende l’approccio reticolare a quest’attività economica una necessità. Il sistema di produzione a rete è stato introdotto dapprima nell’industria cinematografica hollywoodiana negli anni cinquanta del secolo scorso, in risposta al bisogno di disporre di professionalità diverse per ciascun progetto e di ripartire il rischio in caso di suo fallimento. In tal modo hanno iniziato a diffondersi case di produzione indipendenti, delle quali i grandi studios si avvalgono agendo da investitori, fornendo ai produttori indipendenti le risorse finanziarie necessarie in cambio, oltre che del controllo sul processo di produzione, dei diritti di distribuzione del prodotto finale [11]. Questo modello, in linea generale, è ripreso oggi anche dall’industria audiovisiva, ed in particolare televisiva, del nostro Paese, con le emittenti che rivestono il ruolo di coordinatrici e distributrici in luogo degli studios. Ciò, evidentemente, dà luogo alla possibilità che queste, in relazione ai contenuti prodotti di propria iniziativa – ma parimenti d’altronde a quelli acquisiti da terzi, ovvero a quelli che questi ultimi vorrebbero trasmettere mediante le reti delle emittenti stesse – possano rivestire quel ruolo di gatekeeper al quale si faceva cenno in precedenza, riducendo la quantità e le possibilità di fruizione dei contenuti ovvero selezionandone la provenienza. Dal punto di vista del consumatore/utente, la produzione d’intrattenimento “multi-piattaforma” e “multi-canale” è oramai una realtà nella vita quotidiana, con relativo spostamento degli interessi e dei consumi dai prodotti industriali a quelli lato sensu culturali. Ottenere l’accesso ai media e ai servizi o contenuti più graditi da ciascuno è divenuto uno degli elementi essenziali dello stile di vita contemporaneo [12]. L’approccio reticolare all’organizzazione produttiva, che sul modello hollywoodiano si è in seguito diffuso a macchia d’olio nei principali settori dell’economia odierna [13], dà ad un ampio numero di imprese la possibilità di liberarsi di impianti, attrezzature e personale, creando relazioni strategiche con i fornitori per la produzione dei contenuti. In uno scenario di concorrenza crescente e senza confini, di beni e servizi sempre più diversificati e di cicli di vita dei prodotti sempre più brevi, le imprese conservano le loro posizioni di leadership attraverso il controllo dei canali di finanziamento e distribuzione ed il trasferimento a soggetti economici più piccoli o esterni del peso della proprietà e della gestione del capitale fisico. D’altro canto a fronte di tutto ciò le imprese, maggiori e minori, tentano incessantemente di entrare a far parte delle reti commerciali in espansione o in formazione. In un’era basata sull’accesso, il problema maggiore, la necessità più impellente per un’impresa è quella di essere inclusa nelle reti e nei rapporti che consentono di svolgere la propria attività economica. In conseguenza della vera e propria rivoluzione di cui si è tentato di porre in evidenza alcuni tratti essenziali, come ha evidenziato ancora Rifkin, al giorno d’oggi il termine “accesso” è uno fra quelli più diffusi e rilevanti nella nostra vita quotidiana: “Esso è diventato il titolo necessario per accedere al progresso e alla soddisfazione personale e possiede una potenza evocativa pari a quella che, per le passate generazioni, ha avuto la visione democratica”. Da tale fenomeno, in particolare, secondo il sociologo statunitense discende il rischio che: “Nell’era prossima ventura, il potere apparterrà ai cosiddetti gatekeepers (guardiani): coloro che controllano l’accesso sia alla cultura popolare sia alle reti geografiche e ciberspaziali, che espropriano, confezionano e mercificano la cultura in forma di intrattenimento ed esperienze personali a pagamento” [14]. In un sistema basato sull’accesso, la differenza è fra chi è connesso e chi non lo è, fra inclusi ed esclusi, ed in questo ambito chi possiede i canali di comunicazione e controlla gli ingressi alle reti stabilisce chi opera nel sistema e chi ne resta fuori. È per questa ragione che, ad esempio, le principali società d’intrattenimento, software e telecomunicazioni, consapevoli del ruolo essenziale dei gatekeeper, stanno acquisendo i fornitori di servizi e contenuti di maggiore successo: le multinazionali dei media sono impegnate in una lotta incessante per il controllo dei canali di comunicazione e delle risorse culturali, al fine di poter espandere il proprio potere di controllo del mercato delle esperienze e dell’intrattenimento. In generale, con la riorganizzazione della società e dell’economia come fondate sulle reti, la funzione dei “guardiani” diviene determinante, in quanto come accennato essi definiscono i termini di accesso alle reti stesse, nonché ai servizi o contenuti su queste veicolati. La possibilità di svolgere il ruolo del gatekeeper, in sostanza, consente di controllare porzioni strategiche di una rete e/o un canale trasmissivo, in cui confluiscano beni, servizi o contenuti, in modo da poter decidere se la risorsa che vi si sta diffondendo possa essere ammessa o no [15]. La funzione di sorveglianza, o gatekeeping, come è stato rilevato, può essere ritenuta un fattore importante per la comprensione delle dinamiche dell’accesso quanto la “mano invisibile del mercato” lo è stata nella visione sinora dominante per la comprensione delle regole che disciplinano la proprietà e lo scambio dei beni [16]. Sotto il profilo giuridico-normativo, le considerazioni sopra accennate sembrerebbero poter dare luogo a una rivisitazione della teoria dei diritti soggettivi, e in particolare dei diritti reali, in quanto il nuovo “diritto individuale di non essere escluso dall’uso o dal godimento delle risorse produttive accumulate dalla società nel suo complesso” [17] potrebbe condurre a una declinazione di tale diritto di non esclusione dall’accesso nell’ambito dell’ordinamento giuridico. In un mondo sempre più incentrato sulle reti sociali ed economiche, per lo più mediate elettronicamente, il diritto all’accesso acquisisce un’importanza crescente. Nell’economia delle reti, in particolare, il concetto di libertà dell’individuo si basa sugli indici dell’accesso e dell’inclusione, piuttosto che sui precedenti dell’autonomia e del possesso. In questo nuovo contesto, si afferma, il ruolo dello Stato sarebbe quello di garantire a ciascuno il diritto di accedere alla infinite reti attraverso le quali gli individui interagiscono, comunicano, gestiscono le attività economiche e creano cultura [18]. Prendendo avvio dalle riflessioni sin qui accennate riguardo all’odierno scenario socio-economico e tecnologico, la presente ricerca – attraverso un’analisi comparatistica delle disposizioni vigenti nell’ordinamento statunitense ed in quello comunitario, e in specie in quello italiano – è volta a indagare se nel nostro ordinamento possa ritenersi configurabile, de iure condito, un “diritto di accesso” alle risorse produttive [19], che sia dotato di piena dignità giuridica e fondato su una base normativa di effettiva valenza cogente. In particolare, la questione relativa ad un simile diritto d’accesso – che come accennato risulta di rilievo in generale, sia pure con peculiarità differenti nelle singole fattispecie, per le diverse industrie a rete [20] – sarà affrontata contestualizzandola nell’ambito in cui più ampiamente è stata presa in considerazione, e al contempo presenta profili di maggiore complessità per l’intersezione cui dà luogo fra la libertà di manifestazione del pensiero tutelata dall’art. 21 della Costituzione [21] e la libertà d’iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost. [22], ossia nell’ambito in precedenza televisivo e che oggi, a seguito dell’evoluzione tecnologica, pare opportuno definire come del “mercato integrato dell’audiovisivo” [23]. II. Le industrie a rete, la convergenza tecnologica e l’accesso ai media. In generale, le industrie a rete sono organizzate secondo modalità diverse, ognuna delle quali pone differenti questioni, sfide ed implicazioni per la policy dell’accesso alla rete. Un primo modello è quello di una industria verticalmente integrata con un “collo di bottiglia” (“bottleneck”) centrale e mercati complementari concorrenti a monte e/o a valle della rete. Ipotesi simili sono quasi sempre suscettibili di dare luogo a danni notevoli per i consumatori, se la questione dell’accesso viene tralasciata. I concorrenti nei mercati complementari, per essere raggiungibili, devono ottenere l’accesso alla infrastruttura “collo di bottiglia”, e pertanto questa è tipicamente regolata affinché vi sia garantita una eguaglianza di accesso a tutti i concorrenti a condizioni ragionevoli. E’ il caso, ad esempio, della rete telefonica commutata, con la centrale locale in genere vista come bottleneck e la porzione di lunga distanza come concorrenziale [24]. Un secondo modello è quello di reti end-to-end multiple concorrenti, come ad esempio le reti ATM [25], i servizi turistici e la musica on-line [26]. La rivalità fra reti concorrenti può stimolare l’innovazione tecnologica, ma i notevoli effetti di rete presenti nelle relative industrie possono anche fornire diverse opportunità per comportamenti strategici [27]. Le industrie che rientrano in questo modello solitamente non sono soggette a regolamentazione riguardo ai profitti, al prezzo o all’accesso. Piuttosto, risultati socialmente desiderabili, fra i quali il massimo benessere del consumatore, sono assicurati mediante l’applicazione della normativa a tutela della concorrenza. Un terzo modello organizzativo è quello proprio di numerose reti complesse odierne, molte delle quali hanno certi elementi che sono costosi da riprodurre e per i quali esistono alternative limitate. In questi casi, porzioni della rete possono essere pienamente regolate [28], altre porzioni sono regolate attraverso metodi indiretti quali le licenze o l’autodisciplina, ed altre ancora sono lasciate alla concorrenza e alle sue regole. Un modello simile aggiorna pertanto la tradizionale classificazione “binaria” dei mercati dell’accesso alle reti, evidenziando la natura assai variegata delle medesime. Piuttosto che reti monopolizzate o, al contrario, reti end-to-end in concorrenza, deve rilevarsi come la maggior parte dei mercati a rete includano un misto di attributi quali componenti di rete fisiche e virtuali e caratteristiche concorrenziali e non concorrenziali [29]. Per quanto concerne specificamente l’industria delle comunicazioni, lo sviluppo del linguaggio numerico binario quale mezzo di elaborazione delle informazioni, e quindi della tecnologia digitale per la trasmissione delle stesse, hanno dato avvio al processo della cosiddetta “convergenza tecnologica” fra i comparti industriali dell’informatica, delle telecomunicazioni e della radiotelevisione. Tale accezione esprime, da un lato, la capacità di differenti piattaforme di rete di gestire servizi di tipo fondamentalmente simile; dall’altro, l’unificazione del funzionamento e della fruibilità di apparecchiature di largo consumo tradizionalmente non compatibili [30]. Il fenomeno della convergenza consente di rendere omogenei, e quindi veicolabili sugli stessi canali e tramite i diversi apparecchi presenti sul mercato, servizi o contenuti storicamente appartenenti ai tre diversi settori sopra menzionati. Di conseguenza, risulta possibile per un insieme sempre più ampio di persone a livello globale, attraverso infrastrutture comuni informatiche, di telecomunicazioni o radiotelevisive, accedere a servizi ed applicazioni di informazione e/o comunicazione sempre più avanzati, multimediali – ovvero caratterizzati dalla “neutralità” del mezzo rispetto al contenuto veicolato – ed interattivi, ossia in grado di consentire all’utente appunto d’interagire con la risorsa, indirizzando il sistema affinché possa adattarsi alle sue specifiche esigenze [31]. Sul versante delle imprese coinvolte nel nuovo processo di sviluppo, la convergenza implica conseguenze altrettanto radicali, “ri-delineando” i modelli di business e, quindi, i profili organizzativi [32]. Le modifiche nelle strategie delle imprese derivanti appunto dalle innovazioni tecnologiche sopra evidenziate, ed in specie la estensione, da parte delle stesse, del proprio perimetro di operatività in settori contigui a quello nel quale si sono impegnate in origine, investono sia la produzione, sia l’organizzazione dell’impresa, sia come detto, riguardo al risultato del processo produttivo, le modalità di fruizione degli output da parte dei consumatori/utenti [33]. Tale complesso percorso conduce alla definizione di nuovi confini all’interno della filiera dell’industria delle comunicazioni, con l’ingresso di operatori ulteriori nei mercati interessati e conseguenti nuovi equilibri e posizionamenti sulla catena del valore dei diversi comparti. In conseguenza del processo al quale si è fatto riferimento, in particolare, il settore dei media italiano ed internazionale sta attraversando da alcuni anni un periodo di incessanti mutamenti, dovuti sia alla progressiva sostituzione della piattaforma digitale terrestre all’attuale piattaforma analogica, sia all’emergere di piattaforme nuove, attraverso le quali è possibile veicolare la medesima offerta di contenuti e servizi [34]. In particolare, attualmente risulta possibile distribuire contenuti e servizi audiovisivi mediante cinque diverse piattaforme fondamentali: analogica e digitale terrestre, satellite, banda larga con tecnologie xDSL o fibra ottica, mobile. In specie a seguito dell’avvento del digitale terrestre [35], la sempre più evidente convergenza fra piattaforme in precedenza alla base di mercati diversi, e la conseguente necessità di conquistare e consolidare rapidamente quote di quello che può definirsi come il nuovo ‘‘mercato integrato dell’audiovisivo’’, hanno dato luogo, negli ultimi tempi, a mutamenti notevoli nella catena del valore a monte ed a valle del mercato delle trasmissioni di contenuti, audiovisivi appunto, oramai sempre più multimediali. Di conseguenza, oggi la catena del valore del settore dei media risulta caratterizzata, essenzialmente, da quattro attività fondamentali, le quali possono essere svolte dallo stesso soggetto o da soggetti diversi, ovvero: a) la produzione di contenuti, svolta dall’emittente stessa o da società indipendenti; b) la creazione di palinsesti, curata dall’emittente, attività che individua la figura del fornitore di contenuti); c) la gestione della rete, ossia delle frequenze e delle infrastrutture di rete; d) la gestione delle risorse correlate, ossia la gestione dei servizi di accesso condizionato [36], d’interfaccia applicativa dei programmi [37] e di guida elettronica dei programmi [38], curati dal fornitore di servizi. In un simile scenario, caratterizzato appunto dalla progressiva affermazione di piattaforme trasmissive ulteriori nonché dalla entrata sul mercato di nuovi soggetti, gli operatori televisivi commerciali ‘‘tradizionali’’ stanno procedendo con decisione verso l’introduzione della televisione digitale, tramite nuove reti gestite direttamente o canali tematici affidati a piattaforme di terzi, nonché verso la sperimentazione delle opportunità offerte dalla convergenza, in particolare riguardo ai cosiddetti servizi a valore aggiunto [39]. In tale contesto, una questione rilevante riguarda la possibilità per i fornitori di contenuti indipendenti dai broadcasters di accedere alle infrastrutture trasmissive installate da questi per diffondervi i propri programmi. Per quanto concerne i contenuti, risulta evidente come gli stessi, specie nel caso di contenuti cosiddetti premium [40], in grado di attirare notevoli masse di utenti, siano oramai sempre più centrali e contesi per la competizione sia “intra-piattaforma” che “inter-piattaforma”, ponendo anche in questo caso dubbi e questioni in merito ai rapporti fra diritti di esclusiva ed accessibilità ai contenuti più rilevanti da parte dei concorrenti e dei consumatori/utenti finali. Sotto il profilo della domanda, il consumatore/utente ha potuto beneficiare, da un lato, di una maggiore offerta — in particolare, nel mercato italiano, in virtù dell’affermazione della pay-tv via satellite, nonché del rapido sviluppo del digitale terrestre [41 — dall’altro, di una contemporanea diminuzione dei prezzi dei servizi, sia tradizionali, sia premium, dovuta alle strategie di acquisizione dei diritti adottate dai diversi operatori sul mercato. In conseguenza delle suddette evoluzioni, quindi, attualmente i consumatori/utenti televisivi sono in grado di ricevere contenuti attraverso reti e piattaforme diversificate — l’etere analogico o digitale, il satellite, il cavo, la rete telefonica fissa e mobile — tra le quali hanno la possibilità di optare sulla base delle caratteristiche, dei costi, del livello di aggregazione dei servizi offerti e della disponibilità degli stessi. Nell’ambito del settore dei media, la rilevanza dell’accesso è spesso ricondotta a concetti già noti nell’ambito della teoria della democrazia, quali i pericoli derivanti da un monopolio sui mezzi di comunicazione di massa e le implicazioni degli squilibri sostanziali nell’accesso a strumenti d’influenza sull’opinione pubblica. Il concetto di accesso, peraltro, come detto svolge un ruolo primario nell’economia odierna, caratterizzata dalla dematerializzazione della proprietà. In questo senso, la rilevanza dell’accesso rispetto ai media è duplice. Da un lato, l’accesso stesso diviene oggetto di quelle relazioni economiche e commerciali, solitamente incentrate sui servizi, che sono fondate sull’esistenza di reti e consistono appunto nella fornitura di accesso agli utenti finali. Pertanto l’accesso, in forma non fisica ma elettronica, acquista un valore economico e una funzione centrale, nell’ambito dell’economia della conoscenza. L’accesso e l’interconnessione, inoltre, nelle industrie a rete in genere, costituiscono strumenti essenziali per stimolare la concorrenza tra fornitori di servizi [42]. Ciò, in quanto l’accesso e l’interconnessione riducono le barriere all’entrata create dai costi d’installazione delle reti, riducendo l’ambito delle esternalità di rete e minando così due delle principali giusitificazioni economiche di una struttura monopolistica [43]. Il concetto di accesso risulta fortemente evocativo della servitù di derivazione romanistica, ossia della facoltà di un soggetto di attraversare la proprietà di un’altro, oppure, nel diritto internazionale, del diritto di una nazione priva di sbocco al mare di accedervi. In sostanza, il concetto implica per lo più un diritto straordinario, una situazione in cui la proprietà coinvolta è nel controllo di un soggetto diverso, ma le circostanze richiedono che le prerogative della proprietà siano modificate per una ragione specifica. Le idee dell’accesso sono vaghe, ma spesso fondamentali ai fini dell’individuazione di un modello definitorio o architetturale riguardo all’infrastruttura rilevante per la policy in materia. Il concetto di “accesso ai media” può essere definito, in generale, come un diritto di un individuo o di una organizzazione di utilizzare un particolare medium – un giornale o un canale radio o televisivo, ovvero un altro mezzo offerto oggi dall’evoluzione tecnologica (Internet, etc.) – per diffondere un’opinione sotto forma di articolo, programma o contenuto [44]. Nella sua forma “romantica”, l’accesso suggerisce una ricerca di replicare le condizioni del villaggio mediante l’utilizzo della tecnologia, il desiderio di trovare un mezzo per mettere in contatto le persone. L’accesso, in questo senso, contribuisce alla trasformazione dei mass media da mezzi di comunicazione da uno a molti a mezzi di comunicazione di molti con molti. Inoltre, il concetto di accesso si riferisce anche alla garanzia da parte del governo di una rappresentazione corretta delle opinioni, della inclusione dei cittadini nella sfera pubblica, del contrasto ai monopoli dell’informazione. Dal punto di vista politico, il concetto può significare esprimere il riconoscimento a coloro i quali, per una varietà di ragioni, sono esclusi dal dialogo pubblico, della possibilità di parteciparvi. Ancora, fornire accesso può significare creare “cancelli” alle fonti d’informazione per coloro i quali siano stati privati di tali fonti in precedenza, ovvero fornire a tali soggetti accesso ad un pubblico che è stato loro precluso [45]. Ad ogni modo, vi è palesemente una relazione assai stretta fra l’accesso ai mezzi di comunicazione di massa, il pluralismo delle idee, la libertà di espressione e, più in generale, la democrazia. Dal punto di vista sociale, i media consentono all’individuo di uscire dalla propria sfera individuale e partecipare, contribuire alla creazione di un dialogo pubblico e di una società democratica [46]. In concreto, se l’accesso è controllato da una molteplicità di soggetti o da un insieme di regole neutrali, e non è strutturato in un modo che renda l’attività di alcuni gruppi o emittenti più complessa che per altri, allora si avrà libertà di espressione [47]. D’altro canto, deve evidenziarsi come le modalità concrete della fornitura dell’accesso presentino una serie di questioni di notevole rilevanza. In primo luogo, evidentemente, la libertà di accesso ai media ha scarso significato là dove non esista un pubblico effettivamente in grado di ricevere i contenuti trasmessi (e disponibile a farlo). Inoltre, più specificamente, il costo dell’accesso in un sistema privato può difficilmente essere pari a zero, in virtù del costo di trasmissione. Ciò comporta che le persone con una limitata disponibilità economica rischiano di vedersi negata la libertà di espressione, così come è ad essi negato un certo grado di libertà in altre attività. Analogamente, se il numero dei canali è limitato, devono essere impiegati strumenti come il prezzo o le “code”, e l’individuazione degli strumenti corretti risulta complessa. Infine, il comportamento economicamente efficiente dei consumatori conduce alla selezione da parte loro degli editori o dei servizi editoriali che vagliano in anticipo i programmi e messaggi indesiderati. L’accesso, piuttosto che limitarsi a raccolte editate di programmi e messaggi, dovrebbe significare l’opportunità di utilizzare il medium per la trasmissione dei propri contenuti. Il grado di accesso, peraltro, è determinato dalle condizioni economiche ed istituzionali nelle quali avvengono le transazioni fra soggetto richiedente e soggetto concedente l’accesso. D’altronde, in generale l’accesso ai media non può comportare la possibilità di inserire messaggi all’interno del processo editoriale di altri. Né l’accesso può essere gratuito, a prezzo zero, in quanto ciò avrebbe conseguenze intollerabili: da un lato, una domanda di capacità trasmissiva che non potrebbe essere soddisfatta senza sussidi pubblici, sussidi tradizionalmente accompagnati da interventi; dall’altro, vi sarebbe un “overload” (sovraccarico) di consumo di capacità, per cui si ridurrebbe il numero dei messaggi effettivamente trasmissibili e ricevibili. Il costo per i consumatori nell’esercitare le proprie scelte sarebbe così innalzato al punto che soltanto poche scelte avrebbero un valore tale da meritare di essere compiute [48]. L’accesso al mezzo televisivo, in particolare, può avvenire attraverso diversi sistemi. Ad esempio, può essere instaurato un mercato privato dello spettro frequenziale – direzione nella quale pare stiano muovendosi le più recenti iniziative in materia della Commissione europea [49] – in modo che ciascuno, in teoria, possa avviare una nuova emittente [50]; lo stesso vale, evidentemente (ma qui la possibilità – almeno sotto il profilo delle regole – già esiste), per le ulteriori piattaforme offerte dall’attuale quadro tecnologico. Inoltre, può essere previsto un diritto di accesso ai canali esistenti dietro pagamento di un corrispettivo, o perfino attraverso modificazioni di una struttura concentrata di controllo societario, ai sensi della disciplina regolatoria del settore o di quella generale a tutela della concorrenza (antitrust). Ad ogni modo, una difficoltà essenziale legata all’accesso resta quella per cui il suo prezzo non dovrebbe essere pari a zero. Ciò comporta, d’altronde, che alcuni programmi e messaggi siano esclusi. In particolare, lo saranno quelli che i consumatori valuterebbero meno del loro costo di creazione e trasmissione, e che nessun soggetto o gruppo avrebbe intenzione o sarebbe in grado di sussidiare. Inoltre, saranno esclusi altresì i messaggi che i consumatori valuterebbero – e quindi pagherebbero per ricevere – più del loro costo, ma che i fornitori non possono produrre a causa delle distorsioni della concorrenza monopolistica nel mercato del prodotto. Infine, deve rilevarsi come il prezzo di accesso quale barriera alla libertà di espressione possa risultare significativo altresì nel caso in cui i media siano liberi dalle concentrazioni di potere che conducono ai prezzi monopolistici, in quanto la creazione e trasmissione di programmi e messaggi può risultare semplicemente troppo costosa anche là dove i mezzi stessi siano concorrenziali ed efficienti. Ciò può avvenire qualora il livello di produzione dei contenuti corretto dal punto di vista sociale, tenendo in considerazione le valutazioni politiche, sia maggiore di quello corretto dal punto di vista economico [51]. Il concetto di accesso e le sue declinazioni rispetto ai media, ad ogni modo, mutano in conseguenza di ogni trasformazione tecnologica, sociale ed economica dei medesimi. Pertanto, la relazione fra l‘accesso e queste trasformazioni richiede una ricognizione sistematica. III. L’approccio statunitense: III.1. Il “marketplace of ideas”: metafora o approccio funzionale? Nell’esperienza statunitense, per indicare la rilevanza della varietà delle opinioni, delle informazioni e dei contenuti nell’ambito del settore dei media, nonché dell’essenziale fondamento economico che risiede alla base della loro circolazione, si è utilizzato il concetto di “mercato delle idee” (“marketplace of ideas”) [52]. Il concetto di mercato delle idee può dare luogo a più di una interpretazione. Una prima possibile può sorgere pensando all’epigrafe posta in apertura del noto scritto di John Milton “Areopagitica” [53]. In base ad essa, le “idee” competono per la dominanza intellettuale sulle menti umane, e presumibilmente la verità prevale soltanto abbastanza spesso da rendere la competizione interessante. Un altro senso, economico, dell’accezione è invece quello secondo cui vi è un mercato nel quale l’informazione, l’intrattenimento e i “beni” intellettuali sono acquistati e venduti. I media svolgono un ruolo determinante (anche se non esclusivo) in questo mercato, per operare nel quale, come acquirente o venditore, è necessario di solito trattare con intermediari quali emittenti televisive o case editrici. In questo senso, una posizione dominante nel mercato delle idee non indica la circostanza in cui un’idea ha ottenuto, per la sua forza intellettuale o emozionale, un ascendente sulle menti umane, bensì piuttosto uno stato in cui una impresa o istituzione detiene una posizione dominante in senso economico (monopolistica od oligopolistica), in genere raggiunta attraverso il controllo dell’accesso ai mezzi di trasmissione dei messaggi [54]. Una dominanza simile risulta viziata sotto diversi profili: il soggetto dominante ha il potere di utilizzare discrezionalmente i suoi extra-profitti, e può decidere di spenderli in modi contrari agli interessi sociali, economici e politici della collettività. Egli può scegliere di comportarsi in modo antieconomico per escludere concorrenti, nella misura in cui ciò gli è consentito dalle barriere all’entrata nel mercato e dalla struttura di controllo della sua impresa, al fine di evitare che vengano diffusi messaggi o idee diversi da quelli di proprio interesse; potrebbe, ad esempio, escludere altresì coloro che sono pronti a pagare per l’accesso, riducendo in tal modo evidentemente anche la libertà di espressione [55]. Ciò comporta che, da un lato, la quantità, qualità e varietà dei beni prodotti possa risultare inefficiente in senso economico; dall’altro, il “processo miltoniano” può non funzionare correttamente, e le idee che non rappresentano la verità possono dominare il mercato intellettuale come risultato della sistematica esclusione dei messaggi che non corrispondono agli interessi economici o politici di coloro che controllano l’accesso ai mezzi di trasmissione. Anche là dove non venga in rilievo il secondo vizio cui si è accennato – in quanto ad esempio vi sia una dominanza da parte di un soggetto pubblico che tenda al servizio della collettività – può comunque ritenersi che il processo competitivo miltoniano sia un fine desiderabile in sé [56]. In merito al bene fornito e domandato nel mercato delle idee, può affermarsi che i media forniscano “informazione”. Il termine informazione ha acquisito un significato matematico piuttosto chiaro come risultato di studi sulla teoria della comunicazione, che analizza questioni quali la modalità di codificare i segnali efficientemente, o quella di massimizzare il flusso d’informazioni in un dato canale di comunicazione. In quest’ambito, l’informazione è definita come un evento che muta la precedente distribuzione delle probabilità di un individuo riguardo a possibilità alternative. Questa nozione, peraltro, non sembra essere molto utile nel caso dei media, almeno all’apparenza. Gran parte del loro prodotto è “intrattenimento”, o “opinione”, mentre sono relativamente poche le “notizie” del tipo che ricade nel paradigma della teoria della comunicazione. Ma cosa è “intrattenimento”? E’ opportuno guardare a questo concetto dal punto di vista del benessere del comportamento di consumo. Può essere utile, in tal senso, la psicologia sociale alla base del consumo dei media. Un’idea affermata nella letteratura psicologica è quella della teoria della “dissonanza” della comunicazione [57]. In breve, le persone tendono a non dare credito ai messaggi che rappresentano una variazione rispetto alle loro aspettative precedenti. Così, la persuasione richiede l’uso di strumenti per superare la resistenza alla dissonanza cognitiva, come ad esempio la ripetizione. Il “rafforzamento” di messaggi o segnali, d’altronde, è accettato dai consumatori e valutato positivamente sebbene essi non diano ulteriori informazioni, in quanto dà soddisfazione il fatto di vedere la propria opinione “confermata”. Queste considerazioni spiegano la ragione per cui il valore economico delle informazioni può derivare molto più dalla sua relazione con il sistema cognitivo e decisionale delle persone piuttosto che con il loro contenuto oggettivo. Ciò conduce peraltro solamente al dato che le persone esprimono una “domanda” – nel senso anche economico del termine – per le notizie, le opinioni e l’intrattenimento, diversa a seconda degli individui, e questa domanda è interessata da variabili standard quali prezzo e reddito [58]. In quest’ambito, risulta opportuno trattare unitariamente notizie, opinioni e intrattenimento, in particolare per due ragioni. Anzitutto, le notizie sono talora consumate in quanto esse costituiscono altresì intrattenimento [59]. Inoltre, buona parte dell’intrattenimento contiene commenti politici o sociali, dei quali, proprio in virtù del contesto in cui sono inseriti, è tradizionalmente ben nota la capacità persuasiva. La domanda per i contenuti diffusi dai media, evidentemente, dipende dall’ambiente sociale e culturale in cui le persone vivono, poiché quest’ambiente condiziona l’”utilità” delle informazioni ricevute e il grado di interesse degli utenti rispetto ad esse. Ciò è d’aiuto nella determinazione della struttura dei media stessi, in quanto questi ultimi hanno effetto sull’attrattività del messaggio [60]. Dal punto di vista dell’offerta, in linea teorica possono individuarsi tre stadi fondamentali di produzione di contenuti per i media, ovvero: a) la creazione dei programmi; b) il processo editoriale; c) la trasmissione dei contenuti al pubblico. Per quanto concerne la creazione dei programmi, questa riguarda chiaramente la fase di scrittura e produzione del programma. In astratto, le barriere all’entrata sono limitate, poiché la creazione può avvenire sulla base della fantasia e dell’iniziativa imprenditoriale di ciascuno, ma in concreto giungere alla produzione e trasmissione del programma risulta in effetti più complesso. Il processo editoriale, posto in essere da professionisti del settore, dipende di fatto dall’organizzazione economica, che in questa fase è determinante per decidere quali fra i molti programmi potenziali saranno trasmessi al pubblico, e quindi fra quali il pubblico potrà scegliere. Questo ruolo di gatekeeping, come detto in precedenza, esplica un’influenza enorme là dove l’editore sia in posizione dominante. Infine, lo stadio della trasmissione dei contenuti al pubblico riguarda le emittenti dei programmi scelti dagli editori. Negli ultimi decenni, la tecnologia e la gestione del processo di trasmissione sono state soggette a numerosi drastici mutamenti, che hanno avuto e continuano ad avere effetti profondi sulla struttura dei media e sui loro costi, così come effetti derivati sui modelli di consumo, che hanno modificato – almeno in parte – anche l’approccio normativo verso uno spirito meno paternalistico e più libertario. I tre stadi della produzione di programmi per i media, dunque, sono palesemente collegati fra loro. Nell’ambito dei diversi mezzi di comunicazione, la relazione fra i tre stadi si è strutturata in modi derivanti in parte dalle istanze della tecnologia, in parte dalle forze degli interessi economici; talora, poi, certi rapporti sono imposti dai poteri pubblici. Ad ogni modo, è guardando alla relazione fra questi stadi nelle diverse fattispecie che risulta possibile comprendere molti aspetti della struttura e del comportamento dei media. III.2. Le tipologie di accesso ai media. Per quanto concerne le tipologie di accesso ai media di derivazione normativa, nell’ordinamento statunitense esse sono state identificate in generale nelle seguenti: a) accesso “della proprietà”; b) accesso “della produzione”; c) accesso “common carrier”; d) accesso “pubblico”; nonché e) una categoria ampia di accesso “volontario”, ovvero originato da pressioni politiche o economiche di gruppi d’interesse [61]. Di seguito, si prendono brevemente in esame i caratteri essenziali di queste categorie: a) accesso “della proprietà”: è stata la tecnica utilizzata più ampiamente negli Stati Uniti dal Congresso e dalla Federal Communications Commission per soddisfare le esigenze di accesso evitando una intromissione diretta nell’informazione o nei contenuti. Le regole concernenti il controllo delle licenze televisive sono basate sull’assunto che la diversificazione della proprietà costituisca un metodo per raggiungere l’obiettivo sostanziale di incrementare ed arricchire il novero delle fonti d’informazione [62]. Per questa ragione, sono dettate norme che attribuiscono a certi gruppi di soggetti opportunità privilegiate di avere accesso alle licenze [63]. La FCC, quando ha adottato le sue politiche di accesso “della proprietà”, ha specificato che l’obiettivo era quello di incidere sull’informazione pubblica. Allo stesso tempo, peraltro, la Commissione medesima ha costantemente richiamato le limitazioni costituzionali che precludono al Governo la possibilità di intervenire sulle trasmissioni in modo da minarne la libertà dei contenuti. L’assunto dell’arricchimento delle fonti d’informazione in conseguenza della diversificazione dei proprietari, peraltro, non sembra supportato da evidenze di particolare rilievo. Per quanto i programmi dei diversi licenziatari provengano da soggetti diversi, vi saranno comunque profili di somiglianza notevole, basata sui caratteri che appaiono meglio in grado di massimizzare l’audience o le entrate pubblicitarie [64]. b) accesso “della produzione”: una diversa modalità di assicurare l’accesso è quella di focalizzare l’attenzione non sulla proprietà, bensì sulla produzione di programmi. Ciò attraverso l’emanazione di norme le quali richiedano che un carrier di programmi, ad esempio un’emittente televisiva o un operatore via satellite o cavo, diffonda determinate categorie di programmi o i programmi di certi fornitori [65]. Le previsioni di questo tipo sono adottate non soltanto per intervenire sui contenuti, ma altresì a causa di taluni bottlenecks nella distribuzione dei programmi o di situazioni di monopolio o quasi-monopolio sui veicoli di distribuzione. Al possessore della rete, considerato gatekeeper, è richiesto di fornire opportunità di accesso ad alcune tipologie di soggetti, eventualmente in determinati momenti, per diffondere i loro programmi e messaggi. Questa tipologia di accesso può assumere forme diverse, quali ad esempio l’accesso da parte dei partiti o candidati politici, la par condicio e il diritto di replica, i canali riservati alle trasmissioni pubbliche o educative, l’accesso da parte di specifici gruppi di minoranza, gli obblighi di “must carry” e l’accesso nel “prime time”. Di particolare rilievo, ai fini della presente ricerca, risultano queste ultime due ipotesi. Per quanto concerne gli obblighi di must carry, il Cable Act statunitense del 1992 [66] ha disposto che gli operatori via cavo diffondano i programmi delle televisioni commerciali locali e delle emittenti pubbliche [67], riflettendo la prassi secondo cui, per ragioni economiche e sociali, la FCC aveva previsto che fosse garantito l’accesso attraverso il cavo a numerose strutture televisive esistenti. Gli operatori via cavo, d’altronde, hanno opposto resistenze notevoli a queste previsioni, specie lamentando che esse violassero la loro libertà di espressione [68]. Il problema della definizione di questo profilo, evidentemente, risulta essenziale per la questione dell’accesso. Se gli operatori di rete sono considerati soggetti che comunicano con il pubblico la giustificazione di simili regole di accesso risulta più complessa, rispetto all’ipotesi in cui la rete sia considerata come un mero strumento trasmissivo. Le regole di must carry, fra l’altro, negli Stati Uniti, avrebbero riorientato il modo in cui le emittenti commerciali percepiscono le proprie responsabilità pubbliche. Ciò poiché in qualche modo, in base a tale ricostruzione, soltanto se esse forniscono un certo tipo di servizio e servono gli obiettivi che ispirano le regole di accesso, la loro richiesta di accesso sarà giustificata [69]. Ciò, d’altronde, sembra palesemente disatteso nella pratica dalla stessa FCC, la quale nel 1993 ha stabilito che i canali di vendita televisiva rientrino negli standard d’interesse pubblico alla base degli obblighi di must carry [70]. Un ulteriore sottotipo di accesso “della produzione”, non presente nel nostro ordinamento ma rilevante ai fini della presente ricerca specie in virtù dei soggetti che da esso beneficiano negli Stati Uniti, è l’accesso nel “prime time”, ovvero negli orari di maggiore ascolto. Nell’ambito di questi orari, l’ordinamento statunitense prevede l’opportunità per i “produttori indipendenti”, ossia non legati alle maggiori reti, di ottenere accesso al mezzo televisivo [71]. Questa forma di accesso riflette evidentemente le preoccupazioni in merito alla concorrenza fra i produttori di programmazione ed il potere delle reti televisive. Se i distributori di informazione o contenuti sono anche produttori di essi, sussiste il rischio che il distributore discrimini altri produttori suoi concorrenti. Nella prassi, peraltro, la regola è stata sfruttata per trasmettere programmi d’intrattenimento leggero, di scarsa rilevanza dal punto di vista dell’interesse pubblico. La sua utilità è stata piuttosto quella di contribuire allo sforzo di dar vita a regole generali, in materia di televisione, a proposito dei comportamenti anticompetitivi e dell’integrazione verticale [72]. c) accesso “common carrier”: quest’approccio rappresenta, in qualche modo, l’opposto dell’accesso proprietario. L’idea di accesso è intrinseca all’essenza stessa del common carrier, che funge da strumento per consentire l’uso corretto e non discriminatorio di una risorsa di rilievo pubblico. Quello del common carrier è visto spesso come il modello ideale per una società di mercato libero che consenta una libertà d’informazione senza vincoli e l’accesso ai modi di distribuzione di quell’informazione. I sistemi di common carrier multicanali, auspicati quali “deus ex machina” del nuovo scenario tecnologico, evitano il bisogno di un intervento intrusivo da parte dei poteri pubblici. Ma, d’altronde, il common carrier fornisce uguali opportunità, non uguale accesso. L’impianto della comunicazione al pubblico può mutare, in conseguenza dell’introduzione di un sistema simile, ma non necessariamente verso un assetto più pluralistico. L’introduzione del modello common carrier per le applicazioni audiovisive e la stampa rappresenta una decisione architetturale secondo cui alcuni modi di distribuzione, come il cavo o la fibra ottica, o almeno parti di essi, debbono essere disciplinati come il telefono, con tariffe pubbliche non discriminatorie e la proprietà separata dal controllo dei contenuti. L’accesso ne risulterebbe facilitato, e potrebbe affermarsi che vi è assenza di gatekeeper, evitandosi l’intervento dei poteri pubblici nella scelta fra i potenziali fornitori d’informazioni e contenuti. Il Communications Act statunitense [73] ha precluso alla FCC di trattare le emittenti televisive come common carrier, ed il Cable Act del 1992 ha posto restrizioni sostanziali alle amministrazioni locali e alla FCC in termini di regolazione del cavo [74]. È previsto un limitato trattamento degli operatori via cavo come common carrier, essendo loro imposto un obbligo di trasportare le emittenti televisive esistenti (e certi carriers specializzati a livello locale). Da ultimo, sul punto deve rilevarsi come con l’avvento delle nuove piattaforme digitali ed il correlato aumento del numero dei canali in teoria i prezzi dell’accesso dovrebbero ridursi; peraltro, possono sempre esservi canali o piattaforme preferibili, con prezzi maggiori, e d’altronde il costo d’accesso può essere comunque ridotto in relazione al costo della produzione [75]. d) accesso “pubblico” [76]: prevede canali pubblici, accessibili a chiunque, senza garanzia di audience, ma ispirati al criterio che debba esservi spazio per ciascuno, gruppi o individui, per esprimere le proprie opinioni od offrire i propri contenuti o informazioni. Il modello è stato imposto già da molti anni negli Stati Uniti agli operatori via cavo. Il funzionamento è spesso “first-come, first-served”. In molte comunità, sono messe a disposizione attrezzature a basso livello di tecnologia per consentire a questi gruppi o individui di realizzare i programmi. In un ambiente audiovisivo sempre più globalizzato, peraltro, l’audience di programmi simili rischia di essere in concreto prossimo allo zero; d’altronde, come dimostrano anche le recenti esperienze delle tv “di strada” o “di quartiere”, tali canali consentono anche a piccole realtà di esprimere i propri punti di vista e fornire informazioni, per l’utilità quanto meno di coloro che ne fanno parte. Gli operatori via cavo, comunque, hanno mosso critiche all’imposizione di tali canali, lamentando che ciò violasse la loro libertà di espressione [77]. Nella riforma del 1992, è stata ridotta l’ampia libertà degli utenti dell’accesso pubblico, in particolare attraverso linee guida che individuano ciò che costituisce programmazione inaccettabile, indecente od oscena [78]. e) accesso “volontario”: questa tipologia di accesso origina dalla pressione politica o economica di gruppi d’interesse. Questi ultimi agiscono al fine di influenzare le decisioni di produttori di programmi d’informazione, sit-com, sceneggiati ed altra offerta audiovisiva affinché li includano nei contenuti di questa programmazione. In una simile ipotesi, peraltro, più che di accesso, dovrebbe parlarsi di minaccia di boicottaggio, pressione indebita e censura. In particolare, piuttosto che richiedere accesso in modo diretto, tali gruppi tentano di modificare quelli che ritengono i messaggi negativi di altri per inserire ciò che essi considerano positivo. A rendere interessante questa forma di accesso è che esso sposta il processo decisionale dal sistema politico formale ad un ambito di tipo diverso. La leva che è utilizzata è spesso quella del consumatore, a volte anche per finalità positive come l’eliminazione o segnalazione dei contenuti violenti od osceni [79]. Piuttosto che cercare di ottenere l’intervento dei poteri pubblici per influenzare la programmazione, i gruppi d’interesse lavorano in specie con gli inserzionisti, o meglio la minaccia degli inserzionisti. Altre volte, il gruppo opera anche attraverso l’appello agli azionisti o dell’azienda di comunicazione o di quelle inserzioniste [80]. A valle di questo breve quadro delle opzioni alternative storicamente adottate nell’esperienza statunitense per l’accesso ai media, ad ogni modo, deve rilevarsi come il concetto di accesso [81] non risulti né sufficientemente fondato a livello teorico né adeguatamente giustificato a livello empirico. Esso riflette una ricerca per un surrogato politico del pluralismo, un’architettura di superficie della libertà di espressione che combina le insegne della non interferenza governativa con l’illusione che la diffusione di informazioni e storie sia adeguatamente ripartita fra i loro ideatori e assemblatori. Vi è una sorta di ideale nel fascino della dottrina dell’accesso, la forma e la canalizzazione delle forze multiformi e sregolate delle opinioni e differenze della società. Piuttosto che derivare dagli interventi normativi in materia di accesso, nella prassi la diversità ed il pluralismo di contenuti discendono da una combinazioni di fattori, fra i quali in particolare: a) le pressioni indirette delle procedure di licenza o autorizzazione sui broadcaster; b) l’accesso “volontario”, anche in conseguenza dei mutamenti sociali e culturali degli ultimi decenni; c) le trasformazioni del mercato e le possibilità di programmazione prodotti dalla rivoluzione combinata cavo-satellite dell’ultimo trentennio del secolo scorso, ai quali si aggiungono oggi le nuove opportunità offerte dalle ulteriori tecnologie in fase di sviluppo, dal digitale terrestre, alla televisione in mobilità, alla tv via Internet. Ad esempio, il satellite ha consentito la distribuzione efficiente di fonti di programmi concorrenti alle piattaforme di distribuzione multicanali a base terrestre. Il potenziale pubblicitario del nuovo mezzo ha incrementato la diversità della programmazione per una semplice ragione: dopo avere raggiunto un’adeguata quantità di abbonati, gli imprenditori dell’audiovisivo hanno avuto un incentivo a proporre programmi di nicchia che attirassero abbonati e utenti addizionali. La nuova opportunità della pay-per-view consente a pubblici in precedenza ignorati di dimostrare l’intensità del loro interesse per una programmazione specifica, offerta dietro pagamento del singolo contenuto [82]. Più in generale, peraltro, deve evidenziarsi come sussista una visione assai radicata della televisione quale in grado di creare o rinforzare la comunicazione ed il consenso pubblici. Il discorso pubblico è oggi essenzialmente discorso attraverso i media [83], e la regolamentazione dell’accesso è vista come utile a spingere il mezzo ad incrementare la sua funzione di ausilio al processo democratico, assicurando che esistano le condizioni per il coinvolgimento e il dialogo necessari in una democrazia moderna. D’altronde, a proposito dei rapporti fra i mezzi di comunicazione audiovisiva e la sfera pubblica, si è correttamente rilevato [84] come la radio prima e la televisione in seguito costituiscano sviluppi della società democratica successivi al diciottesimo secolo, periodo in cui può rintracciarsi l’origine del ruolo pubblico dei media (nella contrapposizione fra i mezzi d’informazione, come il giornale, e quelli d’intrattenimento, come il cinema o il teatro). In quest’ottica, la storia e le caratteristiche della radio e della televisione le rendono quasi antitetiche rispetto alla nozione idealizzata della sfera pubblica: sin dall’inizio, la radio ha rappresentato un veicolo d’intrattenimento, aggregatore di masse, piuttosto che un luogo per il discorso razionale interpersonale fra individui dedicato al benessere pubblico. Ad ogni modo, la tecnologia moderna ha contributo a fare in modo che questi mezzi siano considerati oggi come una sorta di forum neutrale per la comunicazione pubblica. Pertanto, la sfera pubblica nel ventesimo secolo non può essere descritta senza pensare al ruolo della radio e della televisione. Con il passare del tempo, i media

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