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Diritto d’autore dei ricordi. Il paradosso dell’accuratezza

di Federico Mastrolilli

Abstract

Basta una visita, anche distratta, in libreria per rendersi conto che la creatività letteraria si cimenta spesso con episodi, eventi, periodi storici che rappresentano momenti comuni della Storia di una collettività (locale, nazionale, mondiale). La fenomenologia formale delle opere è completa: memorialistica, fiction (e autofiction), saggistica, poesia – la storia può essere raccontata con ogni mezzo espressivo. Questo articolo si chiede se al sistema del diritto d’autore è inerente un giudizio di maggiore o minor merito verso ciascuna di queste forme letterarie; se, in altri termini, esso incentiva (e quindi discrimina) l’una o l’altra, ovvero se al contrario può considerarsi indifferente alla scelta formale dell’autore che utilizza i ricordi degli altri.

Even an absent-minded visit in a bookshop is enough to realize that literary originality often engages with episodes, events and historical periods that are shared moments of the memory of a local, national or global community. The formal phenomenology of works is complete: memoirs, fiction (and autofiction), nonfiction, poetry – History can be told with any medium. This article challenges whether the Copyright system judges all these literary forms on a merit basis; in other words, if it encourages (and therefore discriminates) the one or the other, or if, on the contrary, Copyright can be considered indifferent to the formal choice of the author when it comes to write about other people memories.

Sommario

1. Il paradosso dell’accuratezza. 2. L’ornamento non è delitto. 3. Le benevole e Il sergente nella neve. Due opere diverse, due autori diversi. 4. La voce dell’autore. 5. Cosa è appropriabile della Storia? 6. Il diritto d’autore dei ricordi.

1. Il paradosso dell’accuratezza

Uno dei principi acquisiti, già dal diciannovesimo secolo [1] del sistema di diritto d’autore è quello dell’irrilevanza, ai fini dell’accesso alla protezione, del merito artistico che può avere l’opera [2]. Di solito si riconduce l’origine di questo principio – della cosiddetta neutralità estetica [3] – alla sentenza statunitense Bleistein del 1903, in cui, chiamato a discriminare tra opere dell’arte figurativa e poster pubblicitari [4], il giudice Holmes pronunciò la famosa frase per cui «it would be a dangerous undertaking for persons trained only in the law to constitute themselves the final judges of the worth of pictorial illustrations, outside of the narrowest and most obvious limits». Se la protezione dell’opera non è condizionata dal grado più o meno elevato del suo valore artistico, ne consegue, pertanto, che agli interpreti, e soprattutto ai giudici, è precluso – e allo stesso tempo è tolto l’impaccio – di rispondere alla questione di cosa sia l’arte in termini metagiuridici [5].

Riconosciuti i pericoli insiti nell’elevarsi ad arbitri del gusto, l’ordinamento giuridico evita quindi la tentazione di contaminare i giudizi di diritto con quelli soggettivi sul merito artistico. Eppure, se si pensa alle forme letterarie (romanzi, saggi, memoir, manuali, poesia) con cui si racconta la Storia, verrebbe da pensare che alcune sono favorite rispetto alle altre, e ciò in base ad un’altra delle fondamenta concettuali del sistema del diritto d’autore, vale a dire la non tutelabilità dei fatti. Questa applicazione pratica del principio della dicotomia tra idea ed espressione rende non suscettibili di appropriazione privata, perché equiparati alle idee, i fatti storici [6] intesi nella loro nudità e quindi come elementi che concorrono a determinare la materia prima, grezza, archeologica utilizzata per la produzione delle opere dell’ingegno [7]. Solo in quanto parte di dette opere, o meglio, solo in quanto all’interno di dette opere, impastati con il sudore creativo dell’autore, questi fatti possono accedere alla protezione. Si può dunque mettere un primo punto fermo: oggetto della tutela di diritto d’autore [8] è la forma personale in cui i fatti storici sono espressi dopo essere stati filtrati dalla creatività dell’autore, e mai i fatti storici in quanto tali.

Non siamo di fronte, allora, ad un possibile paradosso dell’accuratezza, per cui maggiore è la fedeltà dell’autore ai fatti storici, minore l’estensione della tutela autoriale su cui può contare (e viceversa)?

2. L’ornamento non è delitto

Si metta da parte la questione delle opere storiche o storiografiche che perseguono finalità (in senso lato) scientifiche, poiché esulano dal perimetro delle presenti riflessioni. Di queste opere, peraltro, può affermarsi che ad essere protetta è una certa organizzazione del lavoro, avendo ad esempio in un’occasione chiarito il Tribunale di Milano (in data 2 aprile 2003) che, in questi casi (oggetto del giudizio era il possibile plagio di un manuale di storia contemporanea), l’elemento creativo dell’autore non risiede nelle scelte linguistiche, ma nella ricerca e selezione delle fonti e nel loro collegamento secondo un ordine logico (e non solo temporale) che offra una soggettiva ricostruzione degli avvenimenti considerati [9].

Le presenti riflessioni giocano, piuttosto, nel campo del prettamente artistico, e in particolare della fiction e dell’autofiction. In questi casi, il paradosso dell’accuratezza sembra evidente: più la narrazione è essenziale, giornalistica verrebbe da dire, simile ad una testimonianza neutrale, obiettiva, laica degli eventi, meno sono gli elementi dell’opera che appaiono suscettibili di protezione. Al contrario, più la narrazione è creativa, fantasiosa, ridondante, magari contaminata da licenze poetiche che deformano gli eventi o addirittura li inventano (e li omettono) di sana pianta, più sono gli elementi dell’opera che appaiono suscettibili di protezione. Ribaltando il paradigma del noto saggio di Adolf Loos Ornamento e delitto, potrebbe dunque affermarsi che il diritto d’autore protegge soltanto la decorazione e non anche la funzione, e quindi incentiva il frivolo, l’accessorio, l’inutile, l’ornamentale appunto [10].

Al riguardo, mi viene in mente una tipologia di critiche (la tipologia più rumorosa sicuramente) ricevuta da Le benevole, il romanzo-capolavoro di Jonathan Littell, che racconta la storia, in forma di ricordi, di un ufficiale delle SS, dalla campagna di Russia alla presa di Berlino [11]. Il personaggio-io narrante, l’indimenticabile Max Aue, è frutto esclusivo della fantasia dell’autore, che ne Le benevole ha quindi raccontato, utilizzando una modalità narrativa affatto originale,  le vere (o verosimili) memorie di un personaggio di fantasia. Le vicende di Max Aue, e la Storia al cui interno esse si dipanano (gli anni della Seconda guerra mondiale), sono peraltro raccontate con estremo puntiglio realistico-storiografico. Estremo per il lettore medio, ma evidentemente non sufficiente per gli storici di professione, da cui le critiche dirette al fatto che, nonostante lo sforzo ricostruttivo dell’autore, la storia raccontata nel romanzo non è sempre aderente alla Storia ufficiale. Ne Le benevole, si è criticato, alcuni fatti, luoghi, date o personaggi sono sbagliati (volutamente o meno, non si sa); altri sono poco plausibili o comunque non verosimili; altri ancora sono totalmente inventati per meri fini letterari (tra tutti, penso al morso del protagonista al naso di Hitler) [12].

Il diritto d’autore è impermeabile a questa tipologia di critiche, dal momento che, come scritto in precedenza, per il paradosso dell’accuratezza esso protegge proprio, e soprattutto, questi sbagli, queste inverosimiglianze, queste invenzioni creative. Dal punto di vista del giurista (oltre che del lettore), Littell è facile da difendere: ha voluto scrivere un romanzo, non un trattato di storia, e il romanzo vive anche di fantasia, di immaginazione, di creatività, guarda caso proprio il requisito di accesso alla protezione [13].

3. Le benevole e Il sergente nella neve. Due opere diverse, due autori diversi

A questo punto si prenda, restando sempre nel campo dello strettamente letterario, il racconto della stessa Storia realizzato però da un’altra prospettiva, quella di un giovane ufficiale italiano in ritirata dalla Russia. Nella sua opera più famosa, Il sergente nella neve (e poi in tanti altri frammenti della sua produzione letteraria), Mario Rigoni Stern descrive, appunto, la sua fuga a ritroso dopo la disfatta russa, la detenzione nei lager tedeschi, l’epilogo della guerra [14]. Tratti caratteristici dell’opera sono la sua assenza di enfasi, di retorica, di artifici letterari, e quindi la sua purezza, la sua aderenza alla Storia, oltre che l’umanità delle persone comuni la cui storia viene raccontata. Qui, le critiche che sono state rivolte sono di segno opposto rispetto a quelle subite da Le benevole, dal momento che a Il sergente nella neve è stato obiettato di non essere una vera opera letteraria, ma un più misero memoir di guerra, al pari degli innumerevoli memoir di guerra che venivano scritti in quegli anni (il libro è del 1953), a tutti i livelli e a tutti i gradi di militari, e di cui si è certamente grati per il valore storico, ma molto meno per quello artistico [15].

Senza scomodare (per ignoranza di chi scrive) i demoni dello strutturalismo [16] è quindi evidente che, pur raccontando i medesimi fatti storici (o meglio, la medesima porzione di Storia), Le benevole e Il sergente nella neve sono due opere profondamente diverse. Anche nella genesi: la prima è del 2008 e deriva da un lavoro decennale di studio, ricerca ed elaborazione da parte dell’autore, che non ha vissuto in prima persona i fatti che racconta. Le benevole è un’opera certamente guidata da uno spirito di fiction, a cui si aggiunge l’ulteriore elemento meta-letterario della posizione – anche provocatoria – che quest’opera vuole assumere, trascorsi sessant’anni dai fatti narrati, all’interno della produzione letteraria (e quindi del pensiero critico) che esiste su quella vicenda storica. La seconda opera, invece, come ricordato, è del 1953, e, pur se l’autore ha avuto bisogno di ben nove anni per scriverla, trae origine dall’esperienza diretta ed ancora fresca dell’autore, dai suoi ricordi elaborati a caldo già negli anni della guerra e della prigionia e in quelli appena successivi. Il sergente nella neve è, dunque, un’opera storica scritta prima delle stratificazioni della storiografia su quella Storia, scritta con le ferite ancora aperte, scritta, soprattutto, con il fine di mantenere vivo un ricordo, personale innanzitutto, ma anche collettivo.

Diverse sono anche le storie degli autori, che qui interessano nella misura in cui influiscono sul significato dell’opera, sulla loro interpretazione. Littell è un autore (post)moderno, di famiglia ebrea, un cittadino del mondo e un intellettuale che si prefigge di scrivere un romanzo controverso e che vuole essere, se non è già, uno scrittore di professione, oltre che di vocazione (al di là del suo lavoro istituzionale sui luoghi di guerra, da cui traggono origine i suoi altrettanto brillanti reportage). Rigoni Stern invece è un ragazzo dell’Altopiano, un provinciale, un autore senza velleità intellettualistiche. Tornato ad Asiago dopo la guerra riprende a vivere tra i suoi boschi, i suoi animali, il suo Veneto arcaico, e il suo lavoro di piccolo cabotaggio all’ufficio del Catasto. Come mi ha raccontato lo scrittore e collega Francesco Maino (autore di un libro ferocissimo, bernhardiano: Cartongesso [17]), anch’egli veneto, Rigoni Stern «prendeva la bici da Asiago, scendeva a Vicenza, di lì il treno per Milano, quelli con i sedili di legno, si portava il pezzo di formaggio di malga, incartato, con la pera. Il romanzo [Il sergente nella neve] era: un cartoccio di foglietti legati con lo spago dell’orto, lo stesso adoperato per tener insieme la vite. A Milano incontrava Elio Vittorini, che lavorava, all’epoca, con Calvino alla collana ‘I Coralli’. Rigoni Stern non mi pare quindi che possa essere definito uno «scrittore di vocazione», anche se da quel momento in poi scriverà tanto; al contrario, rispetto a Littell, può dire che la guerra l’ha vissuta, e non soltanto letta.

4. La voce dell’autore

Se, allora, l’opera di Rigoni Stern si pone come obiettivo, anche per rispetto verso la propria storia e i propri compagni, l’aderenza, il realismo, la fedeltà ai fatti raccontati, o meglio, ricordati, cos’è che la rende parimenti creativa e parimenti proteggibile [18], parimenti, cioè, al lavoro riconoscibile da scrittore realizzato su quegli stessi fatti da Littell? O se si vuole (è la stessa domanda ma da un’altra prospettiva), cos’è che differenzia un’opera come Il sergente nella neve, rendendola uno dei momenti più alti della letteratura italiana del Novecento, dalle centinaia di testimonianze di guerra che affollano a due euro le bancarelle dei libri usati [19]? Che cosa, in altre parole, ha trasformato una serie di ricordi – un resoconto, cioè, di meri fatti – in un Romanzo?

A parer mio, c’è una voce, nel libro di Rigoni Stern, che lo rende unico. Più persone possono aver vissuto gli stessi fatti, la stessa parcella della Storia; più persone possono averli raccontati; ciò che li differenzia è la voce, il tono, il modo in cui sono narrati. È un discorso qualitativo più che quantitativo: quanto più è espressiva, individuale, colorata la voce che narra i fatti, tanto meno essi diventano l’oggetto della storia. Il Sergente nella neve è sicuramente uno spaccato storico della ritirata dell’esercito italiano (e non solo italiano) dal fronte russo, e come tale può avere una funzione anche didattica nelle scuole, ma, allo stesso tempo (e qui emerge la voce dell’autore), non viene schiacciato dal peso di questo spaccato storico. Altre testimonianze di quello stesso evento, magari ancora più accurate, potranno avere un valore storico più importante, ma non veicolano in alcun modo la personalità, la voce dell’autore, si confondono senza soluzione di continuità in un racconto collettivo anonimo.

Al riguardo, prendendo in prestito le categorie della fotografia, si può dire che l’opera di Rigoni Stern sta ai semplici memoir di guerra come le fotografie belliche di Robert Capa stanno al foto-giornalismo. Il medium utilizzato – letterario nel primo caso, fotografico nel secondo – è lo stesso, ma nel memoir di guerra o nel foto-giornalismo è utilizzato come un mero, per quanto sofisticato, strumento di registrazione della realtà, per fornire una prova documentale dei fatti, e non per portare all’attenzione dello spettatore la scelta interpretativa degli eventi effettuata dall’autore e la riflessione su altri temi ad essa collegati [20]. In questi casi non si intravede il riflesso della personalità dell’autore [21], che è schiacciata dal peso, dal significato, dall’oggetto stesso delle immagini raccontate con la macchina da scrivere o  con la macchina fotografica.

5. Cosa è appropriabile della Storia?

Ecco che allora, forse, si può trovare un punto di contatto non marginale, sul piano dell’utilizzo dei mezzi espressivi a disposizione dell’autore, tra l’opera di Littell e quella di Rigoni Stern, che giustificherebbe la comune riconoscenza del diritto d’autore verso entrambe le opere. Ne Le benevole, Littell utilizza una forma tradizionale, quella del romanzo (testimoniato dall’appropriazione di elementi e scene di romanzi precedenti, tra tutti Un eroe del suo tempo di Michail Lermontov), nonché uno stile anch’esso tradizionale, quello del racconto memorialistico, ma lo fa per deformare quella forma e quello stile, esaltando la propria creatività nella costruzione di un narratore che, mano a mano che la storia prende corpo, appare sempre meno verosimile, attendibile, reale (o realistico). Anche Rigoni Stern utilizza lo strumento narrativo più vicino, più adatto al proprio fine, la memorialistica (o per usare un termine oggi in voga, l’autofiction), e, nascondendosi dietro ad una narrazione apparentemente neutra, oggetto di fact-checking (si direbbe oggi con altra – e orribile – espressione oggi in voga mutuata dal giornalismo anglosassone), racconta quello che ha visto. Eppure, anche nel suo libro, che apparentemente non vuole giocare né con la forma né con i contenuti, piano piano emerge, nel lento delirio che accompagna la ritirata del sergente, l’interiorità del narratore Rigoni Stern in un climax di fatti e sensazioni magari anche veri, ma soprattutto lirici, che ben presto fa dubitare al lettore di trovarsi di fronte un semplice memoir di guerra e non, invece, un romanzo vero e proprio [22].

Littell racconta in forma di romanzo una storia inventata, ambientandola nella cornice di una Storia vera (o verosimile). Rigoni Stern affida alla forma del romanzo le proprie memorie – una storia, quindi, sicuramente vera (o almeno verosimile) – ambientate nella medesima cornice. Entrambi i libri sono in prima persona: in quello di Littell, l’interpretazione dei fatti della Storia è affidata a un personaggio inventato; in quello di Rigoni Stern, a un personaggio reale (lo scrittore stesso). Ma se di entrambe le opere, si è detto, non sono appropriabili i fatti, cosa resta, allora, della Storia, in mano agli autori?

Al netto di quelli inventati, è appropriabile la scelta, l’associazione e la lettura di questi fatti storici, come emergono nell’opera data alle stampe. Entrambi i libri in questione si muovono all’interno della medesima parcella della Storia, ma, degli innumerevoli fatti che compongono quest’ultima, ne utilizzano – associandoli tra loro – solo alcuni (a volte, gli stessi). Non solo: di questi fatti, è data una sola lettura, visione, interpretazione, quella del narratore. È in questa scelta dei fatti della Storia, nonché nella loro associazione, a cui si aggiunge la  loro personalissima interpretazione da parte dell’autore, che risiede la creatività di opere per certi versi anche eterogenee come Le benevole e Il sergente della neve. Anche in questa seconda opera, infatti, gli oggetti del reale, una volta che sono entrati nel mondo dell’arte [23], perdono la loro funzionalità in seguito al cambio di significato impresso dall’autore [24].

6. Il diritto d’autore dei ricordi

Scelta, associazione e lettura (intesa come interpretazione, significato) dei fatti raccontati. A guardar bene, sono gli stessi elementi che la giurisprudenza ritiene tutelabili, come si è ricordato, nei libri di storia. La differenza la ritroviamo sul piano delle norme informali, extra-giuridiche, che sanzionano diversamente l’eventuale parzialità, faziosità, partigianeria o comunque soggettività della storia raccontata: in un romanzo verrà non solo giustificata, ma – con la riserva della ricordata (e qui a sua volta criticata) tipologia di critiche – anche esaltata (Littell); in un memoir verrà tollerata, soprattutto quando questo viene scritto a ridosso degli eventi (Rigoni); in un libro di storia verrà semplicemente disprezzata, rendendo peraltro l’opera inutile al suo fine editoriale [25].

Si può dire, quindi, che il mercato editoriale discrimina la creatività, richiedendone un gradiente elevato per alcune forme (il romanzo), minore per altre (il memoir, ma anche il saggio) e quanto più limitato possibile per altre ancora (la manualistica). A fronte di questa richiesta differenziata di creatività del mercato, l’ordinamento giuridico, attraverso il sistema del diritto d’autore, si limita invece a una richiesta uniforme di creatività: un livello minimo di scelte personali che si riflettano sul piano espressivo dell’opera [26]. Si richiede, cioè, che dalla massa comune degli eventi emerga la voce dell’autore a selezionarli, ordinarli e interpretarli.

Concessa la protezione in presenza di questo seppure minimo carattere creativo che ho chiamato la voce dell’autore, il compromesso tra elementi appropriabili ed elementi che rimangono di pubblico utilizzo si realizza applicando sul piano del perimetro di questa protezione i principi ricordati all’inizio di queste brevi riflessioni, graduando peraltro l’estensione della tutela in maniera conforme agli standard editoriali sopra ricordati. E così, due manuali di storia potranno essere molto simili, perché i fatti illustrati saranno gli stessi, non potendo lo storico inventarne di nuovi e avendo un modesto margine di manovra riguardo alla loro omissione (pena la credibilità ovvero l’accusa di partigianeria del suo lavoro), e si differenzieranno fondamentalmente sul piano della lettura di quei fatti; due libri di memorie dello stesso evento o periodo storico potranno essere abbastanza simili, nella misura in cui condivideranno i ricordi, ma si differenzieranno maggiormente tra loro rispetto ai due manuali, sia perché due persone possono anche aver vissuto le stesse esperienze, ma muteranno la capacità di ricordarle, il modo di giudicarle e la qualità della forma con cui sono espresse, sia perché questa categoria di autori non ha vincoli di obiettività; due romanzi che descrivono lo stesso evento o periodo storico, infine, potranno anche condividere la singola storia narrata, quindi i fatti e i personaggi, ma saranno gli autori stessi ad essere incentivati a differenziarli il più possibile (per ragioni di appeal sul mercato, per il riflesso della propria sensibilità, per il messaggio che vogliono veicolar, etc.), decorando il racconto con gli arabeschi – formali e contenutistici – della propria creatività, e ciò ai sensi del principio di proporzionalità diretta tra il livello dell’apporto creativo e la portata della tutela, nel senso che, come chiarito in dottrina, il nostro ordinamento postula un rapporto di rigorosa proporzionalità tra il gradiente creativo di un’opera dell’ingegno e l’estensione della tutela riconosciuta alla stessa [27].

Ma a chi appartengono i ricordi, allora, per il diritto d’autore? I ricordi sono di chi li ha vissuti, verrebbe da rispondere. Appartengono ai Rigoni Stern e non ai Littell. E però, questa risposta non mi convince fino in fondo. Anche a Littell apparterranno (come proprietà intellettuale) dei ricordi della seconda guerra mondiale, quelli dell’ufficiale Max Aue delle SS, solo che, a differenza di quelli di Rigoni Stern, si tratterà di ricordi falsi (nel senso di fittizi, non autentici, letterari). Per il diritto d’autore, l’ho ricordato all’inizio, non c’è differenza da questo punto di vista (anzi, semmai è il contrario). Non c’è dubbio che, sotto il profillo dell’interesse collettivo, l’insieme dei ricordi dei Rigoni Stern vale di più, perché – unitamente ai monumenti ai caduti, agli ossari, alle Giornate della Memoria, alle ulteriori testimonianze di chi c’era – contribuisce a formare la Storia e, quindi, l’identità di una collettività. Sul piano letterario, l’unico di cui si interessa il diritto d’autore, l’insieme di questi ricordi diventa però automaticamente materia prima che confluisce nei manuali, nei saggi e anche nei romanzi, al pari, in quest’ultimo caso, dell’immaginazione dell’autore. Ecco che allora anche il diritto d’autore, e non solo il mercato editoriale, discrimina: come corollario del paradosso dell’accuratezza, i Littell, per i loro romanzi, possono attingere alle memorie dei Rigoni Stern (liberamente appropriabili), ma non vale il contrario. Per il diritto d’autore, i ricordi, una volta che sono fissati in un libro, non sono più di chi li ha vissuti. Ed ecco che allora, anche dei ricordi, a guardar bene, non è tutelata che la parte introspettiva – e quindi ornamentale, superflua – della riflessione critica dell’autore sui ricordi stessi, la traccia che rimane sulla carta dopo che è stata filtrata dall’esperienza dell’autore, la nebbia che li avvolge.

Note

[*] Il presente contributo è stato preventivamente sottoposto a referaggio anonimo affidato ad un componente del Comitato di Referee secondo il Regolamento adottato da questa Rivista.

[1] Ricorda M. Fabiani, Disumanizzazione dell’arte e diritto d’autore, in Dir. Aut., 1970, p. 1, che già «la Cassazione di Roma, in una sentenza del 3 giugno 1876 (in Giur. it., 1876, I, 1, 596) affermava che […] ‘come la legge vuole uguale protezione quanto alla proprietà delle cose materiali e ai loro prodotti, senza alcun riguardo al maggiore o minore valore che possono avere, una siffatta eguaglianza giuridica non poteva né doveva essere offesa circa la proprietà del pensiero e le sue produzioni’

[2] Si vedano, sull’argomento, tra gli altri, V. De Sanctis, Il carattere creativo dell’opera dell’ingegno, Milano, 1971, p. 74: «Il diritto protegge la personalità creativa dell’autore comunque manifestata ed esteriorizzata e non in quanto sia raggiunto un certo livello creativo o un determinato ‘merito’ oggettivo dell’opera», e T. Ascarelli, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Milano, 1960, p. 361: «Si deve prescindere da quello che si direbbe l’esame di ‘merito’ dell’opera dell’ingegno (in relazione alla sua felicità, perché anche un brutto poema costituisce opera dell’ingegno tutelata)».

[3] Si noti, en passant, che il principio della neutralità estetica è anche il miglior antidoto a un uso ideologico, eventualmente censorio, del diritto d’autore.

[4] In Bleistein v. Donaldson Lithographic Co. (1903), vengono reputati proteggibili alcuni cartelloni che, per pubblicizzare un circo, rappresentano immagini dello spettacolo circense. I giudici riconoscono la presenza della personalità dell’autore dei disegni dei cartelloni e stabiliscono il principio che tale presenza rende sempre uniche – non copiate – le opere dell’ingegno.

[5] Cfr. A. Barron, Copyright Law and the claims of art, in Intellectual Property Quarterly, 2002, p. 397: «Copyright law has been designed in such a way as to avoid giving judges licence to enforce their own subjective aesthetic preferences in the process of adjudicating in copyright disputes, and judges themselves have attempted to further this policy by defining artistic works in technical, ‘materialist’ or ‘physicalist’ terms».

[6] Cfr. M. Bertani, Diritto d’autore europeo, Torino, 2011, p. 105: «Il sistema di norme che stabiliscono come individuare le entità protette dal diritto d’autore è ispirato […] al canone generale che nel dichiarare proteggibili le sole forme espressive esclude l’appropriabilità del loro contenuto ideativo e informativo». Per una illustrazione del principio in giurisprudenza si veda, ex multis, Cass. 2 dicembre 1993, n. 11953, in Riv. Dir. Ind., 1994, p. 157, con nota di Frassi, e Trib. Torino, 6 aprile 1992, in cui non si considera violazione del diritto d’autore, per «carenza di una forma espressiva», l’attuazione di un «grezzo dato informativo» (in particolare, l’idea di rievocare un particolare evento storico) da parte di soggetti non autorizzati «dagli ideatori originari».

[7] Per R. Caso, Plagio, diritto d’autore e rivoluzioni tecnologiche, Trento, 2011, p. 8, «in base alla distinzione, maneggiata con inevitabile difficoltà dai giudici, tra espressione e idea si mantiene viva la dinamica di produzione della conoscenza e dell’arte. La rielaborazione delle idee è il carburante del progresso. L’imitazione è parte essenziale dell’apprendimento e dell’insegnamento». La ratio del principio è illustrata da T. Ascarelli, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, cit., p. 266: «Alla maggiore durata della tutela delle opere dell’ingegno e alla sua indipendenza da formalità corrisponde quella che si potrebbe dire una sua minore intensità, dato il suo riferimento a un’espressione formale che assicura la libera utilizzabilità delle idee per il progresso culturale».

[8] Come sottolinea A. M. Gambino, Relazione di insediamento del comitato consultivo permanente, in Diritto Industriale, 2007, p. 485, le opere dell’ingegno sono infatti oggetto di diritti, quindi beni, e necessitano di esser tutelate in quanto tali.

[9] Così V. Falce, La modernizzazione del diritto d’autore, Torino, 2012, p. 50, che ricorda come «la tutela di un’opera si estende anche alla sua forma interna».

[10] Fermo restando che la cosiddetta summa divisio tra tecnica (brevetti) e estetica (diritto d’autore) è stata messa in discussione, se non proprio superata, dalla progressiva dilatazione della disciplina autoriale a creazioni dalla prevalente o esclusiva funzione utilitaristica, come i software, le banche dati e l’industrial design. In argomento, ampiamente, v. Falce, La modernizzazione del diritto d’autore, cit., p. 8.

[11] J. Littell, Le benevole, Einaudi, 2008.

[12] Per una analisi di queste e altre critiche al libro di Littell, si vedano due contributi apparsi sue due dei più importanti blog culturali italiani: C. Raimo, Tutto il tempo che serve per leggere «Le benevole» di Littell, in Minima & Moralia, 9 ottobre 2013, e G. Mazzoni, Sul romanzo contemporaneo/1. «Le Benevole» (2006) di Jonathan Littell, in Le parole e le cose, 27 gennaio 2012. Secondo quest’ultimo, Le benevole inaugura  addirittura il romanzo del XXI secolo.

[13] Da non confondersi, come ricordato in precedenza, con la qualità artistica dell’opera. La protezione del diritto d’autore è indipendente dal valore o merito artistico dell’opera, che non rientra, quindi, nei caratteri sostanziali dell’opera dell’ingegno. Il carattere artistico, semmai, rientra dalla finestra con l’appartenenza dell’opera a uno dei campi dell’arte, che, nel senso comune, si pongono su piano di maggior merito o valore estetico rispetto ai campi della tecnica o dell’artigianato.

[14] M. Rigoni Stern, Il sergente nella neve, Einaudi, 1953.

[15] Si veda ad esempio la postfazione di Affinati all’edizione Einaudi del 2008.

[16] Come spiega C. Craig, Copyright, communication and culture, Towards a relational theory of copyright law, Cheltenham – Northampton, 2011, p. 20, con l’avvento delle teorie strutturaliste e post-strutturaliste «in the latter half of the twentieth century, accompanying the demise of the modern author-figure, the concept of the static literary work was increasingly questioned through the lens of structuralist and post-structuralist thought. Structuralist thought considered the ‘work’ to be located within a broader context than that of a freestanding object with internalised significance, as a system of signs and conventions that acquire meaning only through the process of assimilation by the reader. Post-structuralist critique went further still, questioning the possibility of a fixed identity or meaning for any text, and understanding the reader and reading as determinative of a text whose identity therefore be in a constant state of flux».

[17] F. Maino, Cartongesso, Einaudi, 2014.

[18] Non tutte le espressioni dell’intelletto umano, come noto, sono classificabili come opere dell’ingegno. Questa qualificazione richiede, come elemento caratterizzante della creazione intellettuale, la creatività della forma espressiva. Il carattere creativo è l’unica porta di accesso alla protezione accordata dalla disciplina di diritto d’autore, che non a caso è stata definita, da M. Bertani, Diritto d’autore europeo, cit., p. 1.  «la tecnica giuridica di appropriazione delle forme espressive generate dalla creatività umana». Nel diritto d’autore, «creativo » è sempre un aggettivo, e si è quindi inclini a dire che qualcosa ha una certa qualità, quella di essere creativa, cfr. L. Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, Milano, 1967, p. 51: in questo caso, creativo è l’aggettivo del carattere dell’opera.

[19] Sulla vexata quaestio di differenziare l’arte da ciò che arte non è, si vedano le brillanti riflessioni di G. Spedicato, La forma impertinente: una riflessione sui rapporti tra arte contemporanea e diritto d’autore, in Dir. Aut., 2011, p. 562. Ad esempio, in tema di arte contemporanea, l’A. afferma a p. 577 che: «È solo l’atto creativo dell’autore che infonde significato artistico in tali forme (comuni o al massimo funzionali) e le rende ciò che prima non erano, ovvero forme espressive, ricorrendo ad un uso sostanzialmente metaforico delle stesse».

[20] Come spiega R. Tushnet, Worth a Thousand Words: The Images of Copyright Law, in Harvard Law Rev., 125, 3, 2012, p. 714, «the history of the law of photography contains numerous conceptual maneuvers allowing claims of copyright in what would otherwise seem to be noncreative or nonauthored works. In order to find that photographs are copyrightable, courts had to identify photographers as authors, adding expression rather than just copying facts from the world. They did this by emphasizing particular choices made by photographers, especially timing, angles, and similar decisions».

[21] Che emerge, ad esempio, «quando l’attimo fotografato coglie il momento significativo di un evento, ricorrendo ad un linguaggio connotativo che crea una composizione di prospetti, luci, ombre e colori del tutto peculiari». Così Trib. Catania, 11 settembre 2001.

[22] «La materia non conta, poiché ciò che conta è darle forma». Così D. Riout, L’arte del ventesimo secolo, Protagonisti, temi, correnti, Torino, 2002, p. 158.

[23] D’altronde, è ormai acquisita, nel campo delle arti visive contemporanee, una concezione dell’opera d’arte e della creatività di derivazione duchampiana, per cui si ritiene che l’opera sia legata all’autore attraverso una semplice dichiarazione (sotto forma di firma o di altra designazione) e che individua la creatività nell’ideazione dell’opera, che comprende anche la sua selezione e la sua presentazione. Come esempio celebre di questa forma di creatività, e di opera, si pensi alle Brillo box di Andy Warhol. Secondo B. Edelman, L’erreur sur la substance ou l’oeuvre mise à nu par les artistes, même! (sur l’arrêt de la Cour de cassation du 5 février 2002), in Le Dalloz 2003 (7), p. 439, tra l’oggetto e l’artista si instaura un rapporto enigmatico: l’oggetto non viene «creato», nel senso proprio del termine, ma «scoperto», o, meglio ancora, «riconosciuto», da cui la possibilità di dichiarare artistico qualsiasi oggetto anche utile.

[24] In argomento, si vedano le riflessioni di N. Bourriaud, Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, Milano, 2004, sull’arte contemporanea da Duchamp in poi. Si prenda poi questo passaggio a p. 66: «Quando Jorge Pardo realizza Pier a Munster nel 1997, costruisce un oggetto apparentemente funzionale, una pensilina di legno, ma la sua funzione in questo caso resta sconosciuta. […] Cosa farsene di una cabina aperta alla fine di una pensilina? […] Il visitatore dovrà inventarsi delle funzioni o scovarle tra il suo repertorio di comportamenti».

[25] Come spiega R. Caso, Plagio, diritto d’autore e rivoluzioni tecnologiche, cit., p. 8, la copia delle idee e le altre forme di imitazione che sfuggono al regime giuridico del diritto d’autore ricevono comunque una forma di regolamentazione mediante le cosiddette «norme informali delle varie comunità di creatori». Tali norme, nelle quali «si mischiano criteri etici a parametri estetici», sono flessibili nella misura in cui «si basano su sanzioni quali il discredito o l’ostracismo della comunità».

[26] Come ricorda A. Barron, Copyright Law and the claims of art, cit., p. 379, «the originator of the protected work need in no way be a ‘genius’ in the Romantic sense in order to acquire the status of author for the purpose of copyright law». Prosegue l’A. evidenziando che «the legal concept of originality has little in common with the Romantic notion of originality. A work is original in law if it can be shown that its author has expended some more than minimal conscious effort in its production: it is quite clear that imaginative effort is not required».

[27] G. Spedicato, Gradiente creativo dell’opera dell’ingegno e proporzionalità della tutela, in Dir. Aut., 2012, p. 378, secondo cui il principio riflette «una lettura pro-concorrenziale dell’esclusiva» funzionale alla «ponderazione dei rischi monopolistici insiti nell’attribuzione dello ius excludendi».

19 ottobre 2015

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