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Ordinanza del Tribunale di Milano, 24.03.2011-Google Suggest

di Davide Mula   Nell’ordinanza in commento il Tribunale di Milano ha confermato il provvedimento cautelare inibitorio già emesso nel mese di gennaio scorso con il quale il giudice meneghino aveva diffidato Google dal lasciare che il proprio software “Suggest” suggerisse, appunto, all’utente che stava digitando una determinata stringa di ricerca composta da un nominativo, di includere nella suddetta stringa il termine “truffa” o “truffatore”. Tale provvedimento era stato emesso su istanza di un imprenditore, il cui nominativo veniva automaticamente accostato ai termini truffa e truffatore, che chiedeva la cessazione dell’condotta di suggerimento automatico, in quanto lesiva del proprio onore, nonché il risarcimento dei danni non già per violazione degli obblighi propri degli IP delineati dalla disciplina di settore, d.lgs. 70/2003, ma ai sensi dell’art. 2043, cod. civ. in quanto il servizio Suggest deve considerarsi estraneo a quelli contemplati dalla normativa di settore richiamata. Il giudice di Milano aveva osservato come la funzione Suggest operi tramite un software che elaborando le stringhe di ricerca più comunemente digitate dagli utenti della rete indica all’utente mentre scrive le parole che compongono la sua ricerca quali sono quelle più frequentemente accostate ai termini che lui ha già digitato. Partendo dalla ricostruzione tecnica del funzionamento del software, il giudice ha condannato Google accogliendo la tesi sostenuta dall’imprenditore il quale qualifica la fattispecie come estranea al dettato del d.lgs. 70/2003. Si legge, infatti, nel provvedimento in esame “è la scelta a monte e l’utilizzo di tale sistema e dei suoi particolari meccanismi di operatività a determinare – a valle – l’addebitabilità a Google dei risultati che il meccanismo così ideato produce; con la sua conseguente responsabilità extracontrattuale (ex art. 2043 c.c.) per i risultati eventualmente lesivi determinati dal meccanismo di funzionamento di questo particolare sistema di ricerca. Si tratta di una scelta che ha chiaramente una valenza commerciale ben precisa, connessa con l’evidenziata agevolazione della ricerca e quindi finalizzata ad incentivare l’utilizzo (così reso più facile e rapido per l’utente) del motore di ricerca gestito da Google.”. Due sono i profili di criticità che emergono dalla lettura dell’ordinanza in commento. In prima istanza deve riscontrarsi come se il danno ingiusto ed il nesso di causalità vengano delineati tanto da parte attrice, quanto dal giudice, manca nella pronuncia in commento la definizione dell’elemento soggettivo, ovvero del dolo o della colpa, di Google che giustifichi l’attribuzione del danno ingiusto. Escludendo presuntivamente che Google abbia leso l’onore dell’imprenditore con dolo, deve comprendersi da quali elementi della fattispecie esaminata il Tribunale abbia dedotto la sussistenza della colpa non avendo Google violato alcuna norma di legge o regolamento né, tantomeno, avendo agito con negligenza o imperizia. Il secondo profilo, non per importanza, attiene invece alla intenzionale non applicazione del d.lgs. 70/2003 in quanto il dettato di quest’ultimo non ricomprenderebbe l’attività posta in essere attraverso GoogleSuggest. Il giudice inquadra l’attività di Google ai sensi dell’art. 16 come host provider in quanto ritiene che i motori di ricerca svolgano attività di hosting ospitando una selezione di pagine web nella propria memoria cache (temporanea). La norma che contempla l’attività svolta dai motori di ricerca è, invero, l’art. 15 del d.lgs. 70/2003, rubricato, per altro, caching provider, il quale sancisce che “Nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nel trasmettere, su una rete di comunicazione, informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile della memorizzazione automatica, intermedia e temporanea di tali informazioni effettuata al solo scopo di rendere più efficace il successivo inoltro ad altri destinatari a loro richiesta […]”. Tanto premesso, si consideri che la funzione Suggest opera secondo modalità che riprendono pedissequamente le fasi indicate dall’art. 15 considerato che il software memorizza automaticamente le stringhe di ricerca più usate dagli utenti per rendere più agevole e celere la prestazione del servizio di ricerca. Prescindendo dall’erronea qualificazione, operata dal giudice, dell’attività svolta dal motore di ricerca, è lo stesso giudice ad affermare che non sussistendo alcun obbligo di vigilanza del provider non può ritenersi violato il d.lgs. 70/2003. Si legge, infatti, sul punto nell’ordinanza: “va esclusa la sussistenza di un obbligo del provider di controllo preventivo dei contenuti memorizzati sul sito internet cui l’host provider da ospitalità. Ne consegue che non è applicabile alla presente vicenda la normativa contenuta nel d.lgs. n.70/03, che inerisce esclusivamente l’attività di memorizzazione di informazioni fornite da altri.”. L’illiceità della condotta di Google risiede, dunque, secondo il Tribunale non già nella violazione di un obbligo di cui al d.lgs. 70/2003, ma piuttosto nell’aver impiegato senza un preventivo controllo le stringhe di ricerca digitate dagli utenti. Ebbene anche le stringhe di ricerca possono e devono essere considerate delle informazioni trasmesse per via telematica che in quanto tali non possono essere modificate dal provider, pena l’insorgere di una responsabilità per questi ultimi. Invero, stando al dato letterale della norma, solo l’Autorità Giudiziaria può legittimare l’intervento del prestatore di servizio, nel caso di specie Google, sulle informazioni trasmesse in quanto un intervento arbitrario del prestatore porterebbe, ai sensi dell’art. 15, lett. a), all’instaurarsi della responsabilità in capo allo stesso venendo meno l’elemento della mera intermediazione, elemento essenziale per l’esclusione di responsabilità. Dalla lettura della pronuncia emerge come i giudici di Milano non abbiano ritenuto Google responsabile dei contenuti immessi da terzi, ma, al tempo stesso, abbiano sancito che essendo pienamente a conoscenza dell’illiceità dell’informazione Google avrebbe dovuto eliminare l’accostamento dei termini dalla propria funzione Suggest, come prescrive il d.lgs. 70/2003. In altri termini, il Tribunale ha da un lato accolto la richiesta dell’istante di inibitoria e risarcimento per lesione del proprio onore attraverso l’accostamento, non controllato, al nome di parte attrice dei termini truffa e truffatore, dall’altro ha sancito che essendo Google pienamente a conoscenza dell’illiceità avrebbe dovuto provvedere già in seguito alla notifica del primo provvedimento. Non si comprende, per le criticità brevemente rilevate, come l’ordinanza in commento possa trovare giustificazione nel tessuto normativo, ma soprattutto giurisprudenziale italiano, atteso che pare voglia compiere un ritorno alle tesi antecedenti al 2003 che ritenevano comunque sussistente una colpa non meglio specificata degli IP qualora una condotta posta in essere attraverso i loro servizi fosse lesiva dei diritti dei terzi.

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