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L’integrazione postuma della motivazione alla luce dell’articolo 21 octies comma 2 della Legge n. 241 del 1990. Profili di incidenza sugli atti regolatori adottati dalle Autorità Amministrative Indipendenti

di Francesco Saverio Martucci di Scarfizzi

Abstract

This paper aims, moving from an analysis of the institution of motivation in the administrative measure, analyze the consequences deriving from the integration posthumously in the same judgment, in the light of more recent jurisprudential processing; in particular, focusing on the impact of the issue on regulator acts of  Indipendent Administrative Authorities.

Il presente contributo si propone, muovendo da un’analisi dell’istituto della motivazione nel provvedimento amministrativo, di analizzare le conseguenze derivanti dall’eventuale integrazione postuma in giudizio della stessa, alla luce della più recente elaborazione giurisprudenziale; in particolare, soffermandosi riguardo all’ incidenza della tematica in questione sugli atti regolatori delle Autorità Amministrative Indipendenti.

Sommario: 1. Premessa. – 2.  Il ruolo della motivazione nel giudizio amministrativo. – 3. Latitudine applicativa della motivazione nel variegato panorama degli atti e dei provvedimenti amministrativi. – 4. Il difetto di motivazione e l’integrazione postuma in giudizio: natura giuridica ed elaborazioni giurisprudenziali. – 5. Profili di incidenza sugli atti regolatori delle Autorità Amministrative Indipendenti.

1. Premessa

L’istituto della motivazione del provvedimento amministrativo riveste da sempre una importanza nevralgica, dal momento che svolge una pluralità di funzioni ed assolve all’esigenza di attualizzare i principi di imparzialità, ragionevolezza e proporzionalità [1]; anche per questo non appare possibile, né conducente alla tematica in rassegna, ripercorrere le innumerevoli produzioni dottrinarie sul punto [2], di guisa che si reputano sufficienti solo alcuni accenni finalizzati alla trattazione in questione.

Con la motivazione, la p.a. palesa i presupposti di fatto e le ragioni di diritto poste a fondamento dell’adozione di un provvedimento amministrativo; sono presupposti di fatto gli elementi ed i dati fattuali acquisiti in sede istruttoria che sono stati oggetto di valutazione ai fini dell’adozione dell’atto provvedimentale; sono, invece, ragioni giuridiche, le argomentazioni di diritto, cioè principi normativi sottesi all’ “agere “ amministrativo, anche se  la giurisprudenza [3], peraltro, è pacifica nel ritenere che la p.a. non debba esternare puntualmente tutte le norme applicate ai fini della legittimità dell’atto.

L’obbligo motivazionale del provvedimento amministrativo è stato previsto dall’articolo 3 della L. 241/90 in maniera generalizzata, fatte salve le eccezioni ivi previste; ciò perché, a ben vedere, esso assicura la trasparenza e la “democraticità” dell’azione amministrativa [4], desumendosi l’iter logico seguito dall’autorità amministrativa.

Emerge, dunque, in maniera lampante l’importanza dei motivi – fattuali e giuridici – che hanno spinto la p.a. a decidere in un certo modo per dare risposta ad esigenze gestionali che postulano scelte amministrative.

Tali caratteri tracciano le differenze con l’incidenza dei motivi nel diritto civile e penale.

Infatti, i motivi sono, di regola, civilisticamente irrilevanti, essendo prevalente il dichiarato sul voluto, ferma la tutela del legittimo affidamento dei terzi; soltanto eccezionalmente, dunque, i motivi assumono rilevanza per l’ordinamento civilistico [5].

Va dato tuttavia atto che con l’accoglimento della concezione della causa in concreto, quale sintesi degli interessi che il contratto è diretto a realizzare, assumono maggiore importanza i motivi, ancorché oggettivizzati; tant’è che la Cassazione, nel 2006, ha individuato la presupposizione [6] come una figura a metà strada tra la causa in concreto ed una condizione non sviluppata, permeata dall’importanza dei motivi.

Maggiore rilevanza, invece, assumono i motivi nel diritto penale, sia pure nell’estrema difficoltà di accertare un elemento inerente al foro interno dell’agente; così, l’articolo 61 n°1 del c.p. prevede l’aggravante comune ad effetto comune dei motivi abietti o futili [7], mentre l’articolo 62 n° 1, specularmente, prevede l’attenuante comune ad effetto comune dell’aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale.

Ancora, ai sensi dell’articolo 8 del c.p. i motivi politici – riguardanti la concezione della strutturazione dei rapporti tra poteri dello Stato o tra Stato e cittadini – trasformano il delitto comune in soggettivamente politico, con ampliamento della potestà punitiva dello Stato italiano; mentre l’articolo 133 del c.p. individua, tra gli elementi di cui deve tenere conto il giudice penale per commisurare la pena, proprio quello dei motivi del reo.

Dove, però, come si è già visto, massima è l’importanza dell’esternazione dei motivi, è proprio nel diritto amministrativo, dove persiste un obbligo diffuso della p.a. di motivare l’adozione di un dato provvedimento, volto ad assicurare la trasparenza, l’imparzialità ed il buon andamento dell’azione amministrativa, nonché a conferire una valenza “democratica” del potere esecutivo, conferendo effettività al diritto di difesa dei destinatari.

La previsione di un obbligo generalizzato di motivazione in capo alla p.a., poi, si spiega proprio in vista di una rinnovata concezione dell’azione amministrativa, sorretta dal procedimento, quale luogo di emersione degli interessi: essa, infatti, consente di colmare quello iato che intercorre tra procedimento e conseguente provvedimento (e, dunque, tra istruttoria e decisione), poiché quest’ultimo deve costituire il risultato logico e coerente del primo; la motivazione, infatti, si pone quale unico strumento in grado di realizzare l’ obiettivo, di dare atto del ragionamento seguito dalla autorità pubblica, anche in relazione alle emergenze procedimentali, in particolare per quanto concerne gli interessi ed i fatti in essa affiorati.

2. Il ruolo della motivazione nel giudizio amministrativo

Si suole dire che la motivazione si articola, nella sua struttura essenziale, nelle due componenti della giustificazione e dei motivi: la prima, che individua i presupposti di fatto e gli elementi di diritto su cui si fonda il provvedimento amministrativo; i secondi, che forniscono la spiegazione logica del perché la PA sia pervenuta all’adozione di un provvedimento con un determinato contenuto piuttosto che un altro.

Le succitate componenti, quindi, rilevano, oltre che da un punto di vista strutturale, anche da un punto di vista qualitativo per le conseguenze che i vizi motivazionali determinano nel giudizio innanzi al giudice amministrativo. Infatti, i vizi attinenti alla giustificazione possono determinare anche un giudizio che incida sull’esistenza dell’atto stesso; i motivi, invece, esprimendo il momento della ponderazione degli interessi (cd. merito amministrativo [8]) e delle scelte operate, ove risultino viziati per le più varie ragioni, incidono su profili di legittimità e validità dell’atto.

Molteplici sono le funzioni che la motivazione del provvedimento svolge [9].

Essa, infatti, secondo la sentenza n. 310 del 2010 della Corte Costituzionale, consente di realizzare la conoscibilità, e dunque la trasparenza dell’azione amministrativa [10]; tale assunto è radicato negli articoli 97 e 113 della Costituzione, in quanto, da un lato, costituisce corollario dei principi di buon andamento ed imparzialità, dall’altro, consente al destinatario del provvedimento, che ritenga lesa una propria situazione giuridica, di far valere la relativa tutela giurisdizionale, rafforzando la “legittimazione democratica” dell’azione della pubblica amministrazione, al pari dell’autorità giudiziaria [11] ed al fine di assicurare la tutela giurisdizionale del privato, tant’è che secondo parte della giurisprudenza amministrativa il “dies a quo” del termine decadenziale per impugnare decorre dal momento in cui si viene a conoscenza della motivazione, per consentire l’esercizio del diritto di difesa costituzionalmente garantito ex art. 24 della Costituzione; ciò, in disparte la considerazione che si consente al giudice amministrativo, in sede interpretativa, di ricostruire l’iter logico seguito dalla p.a. nella fase procedimentale [12].

E’ d’uopo ora notare che prima della Legge n. 241/1990 mancava una disciplina generale relativa all’obbligo motivazionale.

Poichè all’epoca non era dato rinvenire una disciplina di carattere generale che prevedesse tale obbligo [13], si riteneva che la p.a. non fosse tenuta ad adottare una motivazione del proprio agire, costituendo ciò una mera facoltà; con conseguenze fortemente pregiudizievoli per i principi di pubblicità e trasparenza (sanciti dall’articolo 97 della Costituzione) e per il diritto di difesa, imponendo ricorsi “al buio” per evitare il rischio di incorrere nella decadenza cui andava ad aggiungersi un sostanziale svuotamento del ruolo di controllo del g.a., che non poteva indagare le intime ragioni sottese all’adozione di una data decisione.

Per queste ragioni la dottrina più attenta ed evoluta elaborò una serie di ipotesi in cui era necessario che la p.a. esplicitasse le ragioni sottese al provvedimento: pareri, atti di ritiro, atti comparativi di scelta e valutazione, atti limitativi della sfera giuridica del destinatario; in altri termini, atti discrezionali e potenzialmente pregiudizievoli per il destinatario dell’atto.

Sulla scorta delle osservazioni della dottrina, dunque, la giurisprudenza amministrativa ha ricondotto la carenza, l’insufficienza e la perplessità motivazionale nell’alveo delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere [14]; con l’ulteriore risultato di ampliare i poteri di controllo del giudice amministrativo sull’atto, dal momento che non bastava più che una motivazione vi fosse stata, ma occorreva anche che essa fosse adeguata, coerente e chiara.

L’articolo 3 della Legge n. 241/1990, invece, prevedendo l’obbligo generalizzato di motivare, ha comportato la trasformazione del vizio derivante dalla mancanza totale di motivazione dalla figura dell’ eccesso di potere a quella della violazione di legge, dal momento che era intervenuta una norma che prevedeva puntualmente tale obbligo giuridico; ove, invece, la motivazione sia presente, ma perplessa, contraddittoria o incongrua, allora si verserà nell’ eccesso di potere, sia che si tratti di attività vincolata che discrezionale.

3. Latitudine applicativa della motivazione nel variegato panorama degli atti e dei provvedimenti amministrativi

L’articolo 3 della Legge n. 241/1990 è norma essenziale per parametrare l’obbligo di motivazione alle varie tipologie di atti amministrativi. La suddetta norma impone di motivare anche gli atti organizzativi della p.a., ma sostanzialmente solo quelli di macro-organizzazione ai sensi del d.lgs. n. 165/01, nonché i provvedimenti inerenti allo svolgimento di concorsi nel pubblico impiego e le gare per la stipulazione di contratti, dal momento che quelli di micro-organizzazione hanno natura privatistica [15], in quanto adottati con i poteri del privato datore di lavoro e, come tali, sottratti a tale obbligo.

Nell’ambito dei concorsi per accedere al pubblico impiego, peraltro, da tempo la giurisprudenza amministrativa e costituzionale [16] ritiene che il voto numerico costituisca un’adeguata motivazione, quale espressione del giudizio di sufficienza o di insufficienza e sintesi della valutazione attraverso la sua concreta graduazione, purchè siano rigidamente predeterminati i parametri di riferimento ed il metodo di correzione degli elaborati, considerandosi che si tratta di attività connotata da discrezionalità tecnica e che occorre assicurare la tempistica delle correzioni, spesso a fronte di numerosissimi elaborati, nell’ottica di assicurare i principi di buon andamento ed imparzialità.

Sono, invece, espressamente sottratti all’obbligo di motivazione gli atti normativi, che per le loro caratteristiche di generalità, astrattezza e, dunque, per la loro indole normativa, non necessitano di specifiche illustrazioni.

Maggiori problemi, invece, pone l’esenzione per gli atti amministrativi generali, che sono privi dei caratteri di generalità, astrattezza ed innovatività; in altri termini, secondo la prevalente dottrina, il fatto che si tratti a tutti gli effetti di atti amministrativi (e non normativi) non giustificherebbe la deroga legislativa.

Così accade anche per gli atti di programmazione e pianificazione territoriale: qui, infatti, la giurisprudenza amministrativa ha ridotto gli spazi dell’esenzione dall’obbligo di motivazione, prevedendo che, in caso di varianti specifiche e peggiorative ai piani regolatori generali, degli atti di reiterazione di vincoli urbanistici scaduti (per la seconda volta oppure su aree specifiche), alla p.a. incombe l’obbligo di motivazione [17].

Un’eccezione tacita, particolarmente importante, è rappresentata secondo una parte della giurisprudenza amministrativa, dagli atti vincolati (C.G.A. Sicilia n. 23/13): al pari dell’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento, infatti, in una logica di conservazione ed economicità degli atti giuridici, non è annullabile l’atto espressione di attività vincolata quante volte risulti che il privato, se pure fosse stato edotto del procedimento e messo in condizioni di partecipare, non sarebbe stato messo in alcun modo nella possibilità d’influire sull’esito procedimentale.

A sostegno dell’irrilevanza del dovere motivazionale negli atti vincolati, poi, si evidenzia che in questi casi i presupposti sono stati rigidamente predeterminati dal legislatore, relegando la p.a. ad un ruolo di attuazione della legge sulla falsariga dello schema norma-fatto-effetto, dovendosi solo riscontrare la sussistenza degli stessi.

Tuttavia, quest’orientamento – che, come si vedrà, oggi vive una nuova stagione – è fortemente avversato, perché, da una parte, si evidenzia come l’articolo 3 della l. 241/90 non abbia enucleato gli atti vincolati tra le deroghe al generale obbligo di motivazione, con la conseguenza che non potrà desumersi alcuna deroga implicita; dall’altra, viene rilevato che gli atti vincolati sono ormai la maggior parte e che, quindi, tale soluzione finirebbe per espungere l’obbligo della motivazione dall’ordinamento giuridico nella maggior parte dei provvedimenti; infine, tale soluzione sarebbe accettabile laddove la legge in modo astratto e generale preveda esattamente tutti i presupposti in modo assolutamente puntuale e stringente; ipotesi -quest’ultima –  difficilmente verificabile.

L’articolo 3 della l. 241/90, inoltre, non si limita a sancire l’obbligo di motivazione, ma ne indica anche il contenuto essenziale, concretantesi nei presupposti di fatto e nelle ragioni giuridiche di cui si è innanzi accennato.

Il richiamo alle “risultanze istruttorie” evoca il principio di connessione tra procedimento e provvedimento.

La motivazione del provvedimento non ha una misura predeterminata, rigida ed immutabile, variando in virtù della tipologia di provvedimento da adottare: nell’attività discrezionale pura o tecnica la motivazione costituisce il fulcro rispettivamente del giudizio comparativo degli interessi implicati e delle valutazioni tecniche effettuate.

In questi casi, dunque, la motivazione dev’essere particolarmente approfondita per essere sufficiente: deve contenere presupposti di fatto, ragioni giuridiche, criteri utilizzati e l’ esposizione dell’ iter logico che ha condotto a quella scelta.

In mancanza di questi elementi prendono corpo le figure sintomatiche dell’eccesso di potere e, dunque, è concreta la possibilità di annullamento dell’atto.

Laddove, invece, l’attività sia vincolata, la motivazione potrà essere più scarna, richiedendo il richiamo delle norme e dei presupposti di fatto legislativamente prefigurati per giustificare l’adozione del provvedimento amministrativo, mancando spazi di scelta e deliberativi in capo alla p.a.

La giurisprudenza amministrativa ha poi evidenziato che in caso di istruttoria articolata, ove si possa facilmente ricostruire l’iter logico seguito per giungere al provvedimento finale, non sarà necessaria una motivazione particolarmente dettagliata; viene, dunque, a palesarsi una relazione di inversa proporzionalità tra complessità dell’istruttoria e della motivazione.

La motivazione può atteggiarsi in ulteriori modi ancora: l’articolo 3 della Legge n. 241/1990, infatti, a conferma del “cordone ombelicale” che lega procedimento e provvedimento, consente espressamente la motivazione c.d. “per relationem” [18], che si rinviene laddove le ragioni della decisione risultino da altro atto della p.a. richiamato dalla decisione e reso disponibile insieme a questa al momento della comunicazione ai destinatari.

La mancanza dell’atto richiamato, in ogni caso, non determina l’illegittimità del provvedimento, in ossequio ai principi di conservazione degli atti giuridici e di raggiungimento dello scopo: non incide, infatti, sulla possibilità di ricostruire la volontà della p.a., ma solo sul decorso del termine per impugnare il provvedimento, che scatterà proprio dal momento in cui vi è conoscenza dell’atto richiamato.

E’ invalidante, invece, la mancata indicazione dell’atto che non consente in alcun modo di ricostruire l’iter logico seguito dalla p.a.; così come è invalidante del provvedimento il richiamo ad un atto che non contenga indicazioni sufficienti per ricostruire la volontà della p.a., oppure le contenga, ma in modo perplesso e contraddittorio.

La previsione normativa della possibilità di una motivazione “per relationem” si spiega con la perdita della centralità del provvedimento e l’esaltazione, per converso, del procedimento quale luogo da cui si ricavano le ragioni dell’operato dalla p.a., a prescindere dall’esplicitazione formale dei motivi che sorreggono la decisione.

Problematica, invece, è la ricostruzione della motivazione negli atti impliciti e nel silenzio-assenso [19]: se negli atti impliciti, però, è possibile ricostruire la motivazione degli stessi, quali consequenziali, guardando alla motivazione dell’atto presupposto, per il silenzio significativo la giurisprudenza amministrativa individua la motivazione “per relationem”, guardando all’istanza del privato che, infatti, dev’essere quanto più completa e dettagliata per dare vita al silenzio-assenso. La motivazione implicita si pone, dunque, tra motivazione formale e motivazione sostanziale.

In termini generali si confrontano poi due orientamenti: secondo la teoria formalistica, ogni provvedimento amministrativo deve avere anche graficamente, cioè formalmente, una parte dedicata al “perché” la PA ha posto in essere quel provvedimento.

I sostenitori della teoria sostanzialistica, attualmente prevalente, affermano invece che ciò che conta non è il dato letterale poiché ciò che rileva è poter, comunque, desumere la motivazione (il percorso logico) o “aliunde”, da un altro atto, o dallo stesso provvedimento amministrativo.  Le mancanze o le deficienze formali della motivazione possono sì essere sintomo di sviamento di potere ma sono irrilevanti quando l’interprete può desumere la motivazione o espressamente da altri provvedimenti contenuti nel procedimento o implicitamente da altri provvedimenti che denotano in senso univoco la motivazione del provvedimento amministrativo.

Vi sono poi ipotesi in cui la motivazione può essere semplificata. All’obbligo generale di motivare in modo congruo segue una motivazione semplificata, prevista dal legislatore.

Ad esempio, all’art. 2, comma 1, della Legge n. 241/1990, novellato dalla Legge n. 190/2012 (cd. “Anticorruzione”), il Legislatore prevede la possibilità per “la p.a. che ravvisi la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, di concludere il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto risolutivo”: è il c.d. “provvedimento succintamente motivato”, che rappresenta un’altra deroga alla “vis espansiva”, potenzialmente illimitata, della regola generale di motivare di cui all’articolo 3 della Legge n. 241/1990. Si noti, in parallelo, che l’art. 74 del c.p.a. fonda la possibilità per il giudice amministrativo di emanare sentenze in forma semplificata (giusto procedimento e giusto processo, con le ovvie differenza di indole giuridica, sono principi comuni che toccano tanto il provvedimento amministrativo quanto il provvedimento giurisdizionale).

Un caso di motivazione semplificata è il voto numerico.

Sul punto c’è stato un ampio dibattito che ha investito anche la Corte costituzionale, ma che oggi pare risolto: la giurisprudenza amministrativa [20] ha più volte stabilito che l’espressione in numeri è compatibile con il principio generale della motivazione, perché le esigenze di semplificazione che emergono normalmente nel caso di pubblici concorsi, consentono che la motivazione sia espressa in voti numerici. In particolare, sul punto è intervenuta la giurisprudenza amministrativa, secondo cui l’espressione in numeri è applicazione di un’esigenza che non vìola il generale obbligo di motivazione, perché il voto numerico esprime e sintetizza il giudizio tecnico discrezionale della commissione esaminatrice e non richiede ulteriori spiegazioni e chiarimenti in quanto è normalmente attuazione di criteri tecnici che la commissione necessariamente ha stilato prima della correzione delle prove, non risultando perciò violato l’art. 3 della Legge n. 241/1990.

Si è posto, infine, il problema della motivazione degli atti c.d. fiduciari, cioè quegli atti emessi esclusivamente sulla base di un rapporto fiduciario “intuitu personae” con il soggetto che emette il provvedimento (ad esempio, nei rapporti politici), dunque massimamente discrezionali.

Secondo parte della giurisprudenza, tali atti, proprio perché basati su una scelta fiduciaria, non devono essere motivati.

Tuttavia, di recente, altra giurisprudenza [21] ha sancito la necessità della motivazione anche per i suddetti atti: il provvedimento in esame, pur richiedendo una motivazione semplificata e non profonda perché il potere del soggetto che affida l’incarico è caratterizzato da forte discrezionalità, tuttavia non può prescindere da canoni di ragionevolezza, come tali sindacabili [22].

4. Il difetto di motivazione e l’integrazione postuma in giudizio: natura giuridica ed elaborazioni giurisprudenziali

Questo essendo il quadro di riferimento dell’obbligo di motivazione, occorre però ancora dare atto di una serie di successive riforme che hanno inciso su di esso: la Legge n. 15 del 2005, in particolare, ha aggiunto all’articolo 6, comma 1, lettera e) della l. 241/90 un nuovo periodo, dove si prevede che l’organo competente per l’adozione del provvedimento finale non può discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria condotta dal responsabile del procedimento, se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale.

In questo modo si cerca di garantire una tendenziale coerenza tra istruttoria e provvedimento finale, con una sostanziale limitazione dei poteri del responsabile dell’adozione del provvedimento finale.

Sempre la Legge n. 15/05 ha introdotto all’articolo 10-bis della l. 241/90 l’obbligo del preavviso di rigetto [23] in caso di procedimenti ad istanza di parte, dando ingresso a quella che viene definita come “motivazione anticipata”, nell’ottica di deflazionare il contenzioso amministrativo e di convincere la p.a. a mutare il contenuto di un provvedimento dall’esito probabilmente sfavorevole per l’istante.

Ma, soprattutto, la legge n. 15 del 2005 ha introdotto all’articolo 21-septies della Legge n. 241/1990 la categoria della nullità del provvedimento e, al secondo comma dell’articolo 21-octies, anche ipotesi di non annullabilità. Il problema della carenza di motivazione e dell’ammissibilità di un potere della p.a. di integrare in giudizio il corredo motivazionale non può non passare per un esame di queste norme.

Tra le ipotesi di nullità dell’articolo 21-septies, infatti, vi è quella strutturale per mancanza degli elementi essenziali ponendosi la questione se possa rientrare in tale previsione anche la carenza di motivazione.

Secondo l’orientamento tradizionale la risposta è negativa, poichè non si tratta di un requisito di esistenza dello stesso provvedimento, ma, al più, di un requisito di validità; argomento–questo-  suffragato dall’interpretazione della Corte di giustizia dell’Unione Europea che ricomprende il difetto di motivazione tra i vizi formali, e non tra quelli sostanziali [24].

Secondo un’altra ricostruzione, minoritaria, particolarmente attenta alla “ratio” garantista dell’obbligo di motivazione, quest’ultima costituisce elemento essenziale la cui assenza totale non può non implicare la nullità strutturale del provvedimento, rendendo del tutto incerto e non individuabile l’iter logico seguito dalla p.a.

L’articolo 21-octies comma 2, primo alinea, invece, si è detto, prevede la non annullabilità sul piano processuale del provvedimento inficiato da vizi formali o procedimentali, a carattere vincolato, quando risulti palese che non avrebbe potuto in alcun modo avere un segno diverso; occorre chiedersi, pertanto, se la carenza totale di motivazione – non la sua perplessità, insufficienza o contraddittorietà, che costituiscono sempre elementi sintomatici dell’eccesso di potere -, possa essere considerato un vizio formale o meno.

Il problema, dunque, è quello di accertare se il vizio di difetto di motivazione – ricondotto dalla giurisprudenza prevalente nell’alveo della violazione di legge per contrasto con l’articolo 3 della L. n. 241/90, per l’attività vincolata – possa ricadere nel secondo comma, primo alinea, dell’articolo 21-octies; punto da esaminare imprescindibilmente per poter approdare ad una risposta soddisfacente anche in ordine al problema della configurabilità di un potere della p.a. di integrare la motivazione nel corso del giudizio.

Già all’indomani dell’introduzione del secondo comma dell’articolo 21-octies della L. n. 241/90, infatti, è risultato certo che il vizio implicato dalla riforma fosse senza dubbio quello di violazione di legge e non quello di eccesso di potere, che coinvolge l’attività discrezionale, al più riconducibile nel secondo alinea della norma in esame, per il solo caso di mancata comunicazione di avvio del procedimento; bisogna, dunque, chiedersi se la mancanza di motivazione possa costituire un vizio solo formale o procedimentale o, piuttosto, si atteggi quale vizio sostanziale, come tale sempre implicante l’illegittimità e l’annullabilità dell’atto.

Si tratta di uno dei problemi maggiormente complessi del diritto amministrativo moderno, toccando due aspetti – quello della motivazione e la portata dell’art. 21-octies comma 2 –  di notevole, connessa problematicità, oltre ai riflessi sulle tensioni di fondo che intercorrono circa i modi di intendere i rapporti tra p.a. e cittadini [25].

Si può, dunque, preliminarmente delimitare l’ambito oggettivo del problema poiché, in caso di mancanza di motivazione rispetto ad attività discrezionale pura o discrezionale-tecnica, infatti, si prospetterà l’ annullabilità per eccesso di potere, di cui la carenza motivazionale costituisce figura sintomatica per antonomasia.

Il problema, dunque, riguarda essenzialmente l’attività vincolata [26].

Per lungo tempo la giurisprudenza amministrativa è stata granitica nel senso di escludere il vizio di motivazione carente dall’alveo dei vizi formali e procedimentali, dal momento che non riguarda la mera forma degli atti o il “modus procedendi” della p.a., ma tocca l’essenza stessa del provvedimento, anche in relazione alle funzioni che svolge, in particolare quelle di assicurare la trasparenza e pubblicità dell’azione amministrativa, la “legittimazione democratica” della p.a., la parità di posizioni tra p.a. e cittadino, che altrimenti non potrebbe esercitare il diritto fondamentale di difesa, costretto ad impugnare il provvedimento ancora ignaro delle ragioni ad esso sottese, solo per non incorrere nella relativa decadenza; il difetto di motivazione in caso di attività vincolata, dunque, era assolutamente insanabile e nessuno spazio, ovviamente, vi sarebbe stato per la p.a. di integrare “ex post” il corredo motivazionale in giudizio.

Questa ricostruzione, però, è stata recentemente rivista nel senso della riconduzione del vizio di carente motivazione nell’alveo di quelli formali, con conseguente applicabilità dell’articolo 21-octies, comma 2, primo alinea, ed altresì, come si vedrà, dell’ammissibilità di una motivazione postuma da parte della p.a.

L’orientamento, inaugurato dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 5171/07, ha recentemente ricevuto sempre maggiore avallo in nuove pronunce. Particolarmente eloquente sul punto è la sentenza della IV Sez. Consiglio di Stato del 4 Marzo del 2014 n. 1018, di cui si riportano alcuni significativi passaggi: “Nel giudizio amministrativo, il divieto di integrazione della motivazione non ha carattere assoluto, in quanto non sempre i chiarimenti resi nel corso del giudizio valgono quale inammissibile integrazione postuma della motivazione: è il caso degli atti di natura vincolata di cui all’art. 21-octies, L. n. 241 del 1990, nei quali l’Amministrazione può dare anche successivamente l’effettiva dimostrazione in giudizio dell’impossibilità di un diverso contenuto dispositivo dell’atto, oppure quello concernente la possibilità di una successiva indicazione di una fonte normativa non prima menzionata nel provvedimento, quando questa, per la sua notorietà, ben avrebbe potuto e dovuto essere conosciuta da un operatore professionale”. Ed ancora: “sebbene il divieto di motivazione postuma, costantemente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, meriti di essere confermato, rappresentando l’obbligo di motivazione il presidio essenziale del diritto di difesa, non può ritenersi che l’Amministrazione incorra nel vizio di difetto di motivazione quando le ragioni del provvedimento siano chiaramente intuibili sulla base della parte dispositiva del provvedimento impugnato o si verta in ipotesi di attività vincolata”. Conclude, il massimo organo della giustizia amministrativa: “alla luce dell’attuale assetto normativo, devono essere attenuate le conseguenze del principio del divieto di integrazione postuma, dequotando il relativo vizio tutte le volte in cui l’omissione di motivazione successivamente esternata:

– non abbia leso il diritto di difesa dell’interessato;

– nei casi in cui, in fase infraprocedimentale, risultano percepibili le ragioni sottese all’emissione del provvedimento gravato;

– nei casi di atti vincolati”.

La giurisprudenza amministrativa, capovolgendo il tradizionale orientamento, dunque, ammette oggi la c.d. “dequotazione del vizio di difetto di motivazione”, sia pure limitatamente all’attività vincolata, muovendo in realtà proprio dalla “ratio” sottesa all’obbligo generalizzato della motivazione: garantire la tutela giurisdizionale del cittadino.

In altri termini, dunque, il provvedimento a carattere vincolato non sarà annullabile laddove la motivazione, ancorché carente del tutto o incompleta, non abbia comunque inficiato il diritto di difesa dell’interessato, oppure laddove la motivazione emerga dalla fase istruttoria o infraprocedimentale; in questi casi, pertanto, l’annullamento sarebbe inutile dal momento che il provvedimento, seppur non motivato o non adeguatamente motivato, non avrebbe potuto comunque essere diverso.

Di segno diverso è la sentenza della III Sez. del Consiglio di Stato 7 Aprile 2014 n. 1629 secondo cui l’articolo 21-octies, comma secondo, non può mai toccare il vizio di motivazione, poiché “la motivazione del provvedimento costituisce il presupposto, il fondamento, il baricentro e l’essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo e, perciò, diviene un presidio di legalità sostanziale insostituibile, neppure col ragionamento ipotetico proprio dell’articolo 21-octies comma secondo”.

Accedendo a questa ricostruzione viene a mancare la possibilità di ammettere una motivazione postuma da parte della p.a.

Si tratta di un orientamento particolarmente rigoroso che, intervenendo a breve lasso di tempo dopo la citata sentenza “possibilista” circa la non invalidità del provvedimento affetto da vizio di motivazione, rilancia l’attualità del problema, con un’interpretazione che riconduce l’assenza di motivazione nell’alveo della nullità strutturale, considerandosi la motivazione stessa un elemento essenziale del provvedimento, facendo propria la tesi finora rimasta minoritaria finanche in dottrina.

Può tentarsi ora qualche riflessione critica sul problema della ammissibilità o meno del potere della P.A. di integrare in giudizio la motivazione, prendendo le mosse dalla ricostruzione allo stato prevalente, vale a dire quella che ritiene non annullabile il provvedimento a carattere vincolato privo della motivazione [27].

Deve dirsi che storicamente l’ammissibilità dell’integrazione della motivazione del provvedimento impugnato in corso di giudizio non è mai stata pacifica.

Secondo l’opinione tradizionale [28], infatti, osterebbe in primo luogo la natura impugnatoria del giudizio amministrativo, essenzialmente documentale e chino sull’atto e sulla sua legittimità formale, indipendentemente dalla spettanza del bene della vita, che non compete al g.a. verificare.

Inoltre, l’ammissibilità di una motivazione “ex post” frustrerebbe le funzioni di tale istituto, non consentendo la pubblicità e la trasparenza dell’azione amministrativa, costituenti principi di rilevanza costituzionale che, dopo un lungo e sofferto percorso, la p.a. è oggi tenuta ad osservare.

In terzo luogo, si opina, verrebbe così leso il principio di parità delle posizioni tra p.a. e cittadini, costituzionalmente sancito dall’articolo 111 della Costituzione, che impone di porre le parti processuali su un piano paritario, laddove il potere di integrare la motivazione in giudizio consentirebbe alla p.a. di porsi in una posizione di supremazia sul cittadino/ricorrente, determinando peraltro la possibile cessazione della materia del contendere.

Tali argomenti non appaiono del tutto convincenti.

Ad avviso di chi scrive, non sembra possa tassativamente escludersi la possibilità di una integrazione postuma della motivazione poiché in tal senso militano ragioni ed argomenti di diversa natura.

Innanzitutto, si osserva che il giudizio amministrativo oggi non è inteso più come scrutinio da compiersi esclusivamente sull’atto, ma sul rapporto [29], segnatamente quando non si frapponga il diaframma della discrezionalità amministrativa, poiché in simili ipotesi non rileva tanto la legittimità o illegittimità formale del provvedimento, quanto la spettanza del bene della vita.

In secondo luogo, proprio muovendo da quest’argomento si nota, sotto un profilo pragmatico, che negare l’ integrazione della motivazione in giudizio potrebbe portare ad effetti addirittura pregiudizievoli per il ricorrente che risulterebbe sterilmente vittorioso, atteso che la p.a. ben potrebbe rieditare il potere, adottando il medesimo provvedimento, ma in forza di motivazioni che non ha potuto palesare in giudizio; con la conseguenza che il ricorrente dovrebbe poi impugnare il nuovo atto in un nuovo giudizio, con duplicazione di oneri e allungamento dei tempi, laddove in caso di integrazione postuma può proporre l’impugnazione con lo strumento dei motivi aggiunti, ai sensi dell’art. 43 del c.p.a.

Dunque, non solo non risulterebbe vulnerato il principio di parità di posizioni, ma si rafforzerebbe l’effettiva possibilità di difesa del ricorrente.

D’altra parte, un argomento decisivo a favore di questa ricostruzione si rinviene proprio nella novella del 2005 e nell’articolo 21-octies, comma 2, con l’introduzione della “dequotazione” dei vizi formali, che mira a non dare vita ad annullamenti inutili per il cittadino.

Del resto, una certa perdita di centralità della motivazione si può desumere altresì dall’ammissibilità “ex lege” della motivazione “per relationem” e di quella succinta, nonché dall’ orientamento che ritiene, in caso di provvedimenti pluristrutturati, che l’atto non possa essere annullato se risulti sorretto anche da una sola motivazione.

Inoltre, si evidenzia, dopo l’ormai pacifica risarcibilità della lesione di interessi legittimi ad opera della Suprema Corte (SS.UU. n. 500 del 99’), che dev’essere data alla p.a. la possibilità di riparare all’errore in cui sia incorsa, attraverso proprio lo strumento dell’ integrazione postuma della motivazione.

Correlato al problema ora esaminato, si pone poi anche quello dei rapporti tra giudicato di annullamento e riedizione del potere con una motivazione diversa. Il Consiglio di Stato, con l’Adunanza Plenaria n. 2 del 2013 ha stabilito che è ormai certo che il sapiente punto di equilibrio tra istanze di effettività della tutela giurisdizionale per il cittadino che non voglia vedersi vittima di dinieghi a catena surrettiziamente motivati dalla p.a. ed inesauribilità del potere amministrativo – almeno relativamente agli spazi lasciati vuoti dal giudicato – può essere rinvenuto nella tesi per cui “la p.a. non ha una terza chance”; ne consegue che, ove vi sia stato intervenuto giudicato di annullamento, la p.a. potrà sì adottare un provvedimento identico a quello annullato, ma sorretto da una motivazione diversa e purchè palesi in quella sede, con una particolare attenzione, tutte le ragioni fattuali e giuridiche possibili; in caso contrario, il ricorrente potrà adire il giudice dell’ottemperanza per vedere dichiarata la nullità del provvedimento per violazione o elusione del giudicato ed ottenere così la spettanza del bene della vita per cui ha agito in giudizio.

In questo senso, anche se la fattispecie esaminata attiene ad atti discrezionali, sembra orientata anche la sopra citata sentenza n. 1018/14 del Consiglio di Stato: “Nell’ ordinamento italiano, per costante elaborazione pretoria, non trova riconoscimento la teoria c.d. del “one shot” (viceversa ammessa in altri ordinamenti)”.

Detta regola prevede che l’Amministrazione possa pronunciarsi negativamente una sola volta, facendo in detta occasione emergere tutte le possibili motivazioni che si oppongono all’accoglimento della istanza del privato. Nel sistema italiano il principio è stato “temperato”: in altri termini, l’annullamento di un provvedimento amministrativo a carattere discrezionale, che abbia negato la soddisfazione di un interesse legittimo pretensivo, non determina la sicura soddisfazione del bene della vita, ma obbliga semplicemente l’amministrazione a rinnovare il procedimento tenendo conto della portata conformativa della sentenza. In sintesi: al diniego di atto ampliativo vittoriosamente gravato in sede giurisdizionale, non consegue sempre e comunque l’obbligo per l’Amministrazione rimasta soccombente di rilasciare il titolo ampliativo medesimo, potendo essa, quantomeno in sede di prima riedizione del potere, evidenziare ulteriori elementi preclusivi (una sola volta, però)”.

5. Profili di incidenza sugli atti regolatori delle Autorità Amministrative Indipendenti

La tematica sin qui indagata presenta aspetti di interesse aldilà dell’alveo della Pubblica Amministrazione, nel variegato ambito delle Autorità Amministrative Indipendenti, la cui presenza nell’ordinamento giuridico presenta peculiarità proprie.

Come è noto, le Autorità Amministrative Indipendenti costituiscono organismi dotati di pubblici poteri caratterizzati da un elevato grado di indipendenza dall’esecutivo, in virtù della loro neutralità rispetto agli interessi in gioco e della “expertise” tecnica dei componenti delle stesse. Nel complesso quadro dei poteri esercitati da siffatti Organismi Indipendenti, l’attenzione può porsi, ai fini della presente trattazione, sulle due principali funzioni di cui sono titolari le Autorità Indipendenti (segnatamente quelle che si occupano di garantire un quadro di libertà di azione agli operatori di beni e servizi e di tutelare le categorie dei consumatori): quella di regolazione e quella sanzionatoria [30]. Si tratta di funzioni profondamente diverse fra loro e tale diversità si riflette inevitabilmente sulla questione concernente la loro natura giuridica.

La regolazione è una funzione che partecipa dei caratteri dell’ attività normativa, da un lato, e dell’ attività amministrativa dall’altro: essa si traduce nella predeterminazione delle regole di condotta destinate a vincolare i comportamenti dei soggetti che operano nei mercati di volta in volta regolati. La regolazione si sostanzia, quindi, in un intervento ex ante dell’Autorità, volto anzitutto a fissare le regole asimmetriche per il funzionamento del mercato. Essa avviene attraverso la fissazione di indirizzi di carattere, più o meno generale, aventi lo scopo di disciplinare l’ambito di operatività dei soggetti regolati e di eliminare gli ostacoli alla creazione di un mercato efficiente ed effettivamente libero.

L’attività sanzionatoria – che nella regolazione trova in linea di massima il suo presupposto e la sua premessa in un mercato già operante secondo modelli di libera concorrenza – colpisce con interventi “ex post” i comportamenti che non sono in sintonia col libero gioco concorrenziale e che ne pregiudicano lo sviluppo e conseguentemente gli interessi della categoria dei consumatori.

La funzione di irrogazione delle sanzioni viene pacificamente ritenuta un’attività di carattere doveroso e vincolato [31], in cui si tratta di accertare la sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie sanzionatoria di volta in volta descritti dal Legislatore. Non vi è quindi esercizio di discrezionalità amministrativa in senso proprio.

Ne discende che al quesito sulla valenza dell’eventuale integrazione postuma della motivazione in giudizio, stante il carattere non discrezionale dell’attività in questione, possono applicarsi le considerazioni già svolte nel paragrafo precedente in materia di atti vincolati. In sintesi, la giurisprudenza amministrativa ammette oggi la c.d. “dequotazione del vizio di difetto di motivazione”, sia pure limitatamente all’attività vincolata, muovendo in realtà proprio dalla “ratio” sottesa all’obbligo generalizzato della motivazione: garantire la tutela giurisdizionale del cittadino.

Resta, invece, da affrontare il problema relativo all’ attività di regolazione che è normalmente espressione di un potere di scelta non legislativamente predeterminato, o meglio, di un potere di “policy”, nel cui esercizio l’Autorità individua le regole che ritiene più adatte a soddisfare le esigenze del mercato.

L’ articolo 3, comma 2, della Legge n. 241 del 1990 dispone che la motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale. Del resto, queste due tipologie di atti sfuggono, per espressa previsione legislativa, alla applicazione delle norme di legge in materia di partecipazione al procedimento.

Il Legislatore, tuttavia, prevede un’eccezione all’eccezione per alcuni atti generali o normativi adottati dalle Autorità Amministrative Indipendenti, imponendo specifici obblighi motivazionali. Ad esempio l’articolo 23 della Legge 28 dicembre 2005, n. 262 dispone che i provvedimenti della Banca d’Italia e della Consob, aventi natura regolamentare o di contenuto generale, esclusi quelli attinenti all’organizzazione interna, devono essere motivati con riferimento alla scelte di regolazione e di vigilanza del settore ovvero della materia su cui vertono.

Giova a tal uopo premettere che le Autorità Amministrative Indipendenti, poste al di fuori della tradizionale tripartizione dei poteri e del circuito di responsabilità delineato dall’articolo 95 della Costituzione, soffrono fatalmente una sorta di “deficit” di rappresentatività democratica. In secondo luogo, i poteri attribuiti alle “Authorities” spesso scontano un tasso di insufficiente legittimazione sostanziale, nel senso che la legge non le definisce compiutamente. Infine, si assiste, proprio nell’attività di regolazione, ad un’inversione logica tra legalità formale e legalità procedurale: tanto meno v’è legalità formale, tanto più dovrà esserci quella procedurale; tanto meno v’è la legalità formale, tanto più dovrà essere garantita la partecipazione dei cittadini; questa situazione viene compensata mediante l’apertura dei procedimenti alla partecipazione dei soggetti interessati.

Molte Autorità Indipendenti, infatti, hanno autodisciplinato i procedimenti di propria competenza per l’adozione di atti generali e normativi prevedendo meccanismi di consultazione preventiva, secondo il modello del “notice and comment”: l’Autorità comunica ai soggetti interessati il progetto di atto, consentendo loro di fare pervenire le proprie osservazioni.

La consultazione preventiva sarebbe tuttavia inutile, secondo la giurisprudenza [32], se le Autorità stesse non prendessero in considerazione le osservazioni pervenute.

Il mezzo per verificare se questa valutazione è avvenuta ed in quali termini è rappresentato dalla motivazione.

La previsione di una fase di consultazione e della facoltà di presentazione di osservazioni vincola l’Autorità al rispetto di alcune basilari regole procedimentali, non essendo corretto ritenere che la partecipazione degli interessati ha una mera funzione collaborativa e non impone all’Autorità alcun conseguente obbligo motivazionale. L’Autorità è, invece, tenuta ad indicare la finalità dell’intervento regolatore e potrà motivare la decisione finale anche con riguardo alle osservazioni presentate; pur non essendo necessaria una puntuale replica ad ogni osservazione, l’Autorità deve però dare conto delle ragioni giustificative poste a fondamento dell’atto di regolazione, soprattutto in quei casi in cui vengono contestati i presupposti dell’azione regolatoria, perché se il regolamento contiene una disciplina implicita, non sussistendo il parametro di legittimità che consente un controllo profondo da parte del giudice, l’unico controllo potrà operarsi sulla motivazione garantita dalla partecipazione dei destinatari al procedimento; in questo modo si recupera il principio di legalità perché comunque i regolamenti impliciti, i poteri impliciti, diventano controllabili [33].  Non è un caso che la tematica dei poteri impliciti riemerga proprio in relazione alle Autorità Amministrative Indipendenti, nel cui ambito la legislazione è generica in quanto si assiste ad un fenomeno di “ritiro” da parte del Legislatore in un settore sensibile di grande delicatezza ove si fa largamente uso della categoria dei cd. concetti giuridici indeterminati [34] che aprono la strada alla individuazione di poteri implicitamente riconosciuti dalla normativa stessa.

Così tracciati i contorni essenziali del ruolo della motivazione nei suddetti atti regolatori, può dunque affrontarsi il problema dell’applicabilità delle coordinate ermeneutiche suesposte in tema di integrazione postuma della motivazione in giudizio nel settore “de quo”.

Se, come esposto, è possibile integrare la motivazione da parte della Pa nel corso del giudizio, con riferimento ai regolamenti adottati dalle Autorità Amministrative Indipendenti, tale soluzione pare quanto meno forzata. In particolare, in forza dell’ingerenza che gli atti in questione hanno sulla sfera giuridica dei soggetti regolati, è necessario che la motivazione sia indicata previamente e contestualmente nel provvedimento.

Non si intravedono, pertanto, spiragli per un’integrazione postuma della motivazione in corso di giudizio: mancherebbe, infatti, la possibilità di verificare, da parte del giudice, se il percorso partecipativo, previsto come autolimite dalle stesse Autorità, sia stato rispettato, poiché una motivazione postuma lo porrebbe sostanzialmente in “non cale”.

Note:

[1] Cfr., tra gli altri, V. Parisio, Principio di proporzionalità e giudice amministrativo italiano, in Nuove Autonomie, 27 ottobre 2006. L’autore precisa che l’idoneità esprime il collegamento tra l’azione intrapresa ed il fine da raggiungere: laddove possa essere esclusa la sussistenza di questo rapporto resterà preclusa all’Amministrazione la possibilità di raggiungere il fine attraverso il suddetto mezzo. Il parametro della necessità consiste nell’esigenza che il provvedimento adottato deve essere adeguato rispetto ai fini da raggiungere nel senso che, ove si presentino diverse opzioni per il soddisfacimento del fine, deve essere scelta quella meno pregiudizievole per il diretto interessato. Infine per proporzionalità in senso stretto s’intende la necessità che il mezzo prescelto, ancorchè abbia superato le due soglie dell’idoneità e della necessità, non comporti un sacrificio eccessivo in danno del privato rispetto al risultato finale.

[2] Cfr., tra gli altri, L. Vandelli, Osservazioni sull’obbligo di motivazione degli atti amministrativi, in “Riv. trim. dir. proc. civ.”., 1973, pag. 1595; G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, I, Giuffrè, Milano, pag. 283; C. Vitta, Diritto amministrativo, I, pagg. 144-145; R. Alessi, Sistema istituzionale del diritto amministrativo italiano, Giuffrè, Milano, 1958, pag. 286; A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Jovene, Napoli, 1957, pag. 274; G. Landi-G. Potenza, Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 1960, pag. 240; P. Virga, Il provvedimento amministrativo, Giuffrè, Milano, 1972, pagg. 209 e ss.

[3] Sull’evoluzione giurisprudenziale relativa all’affermazione dell’obbligo di motivare gli atti amministrativi cfr.  G.BERGONZINI, La motivazione degli atti amministrativi, cit, e di R.SCARCIGLIA, La motivazione dell’atto amministrativo, cit. Secondo gli autori appena citati si possono distinguere tre periodi storici della giurisprudenza sulla motivazione: il primo parte dalla istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato (l. 31 marzo 1889, n. 5992) e giunge sino agli anni trenta, il secondo si riferisce alle decisioni degli anni quaranta, il terzo riguarda le pronunce successive.

[4] Il rapporto tra democrazia e amministrazione, soprattutto con riferimento al profilo della partecipazione al procedimento amministrativo, in realtà è oggetto di studio da parte dei giuristi del diritto pubblico sin dagli ultimi decenni del secolo passato. Si vedano, tra gli altri, M. Cammelli, L’amministrazione per collegi: organizzazione amministrativa ed interesse pubblico, Bologna, 1980, 144 e ss. il quale già evidenziava la tendenza dell’amministrazione per collegi a “collocarsi all’interno di un modulo caratterizzato dalla definizione non autoritativa delle specifiche finalità da perseguire e degli atti idonei a soddisfarle”; F. Benvenuti, Il ruolo dell’ amministrazione nello Stato democratico contemporaneo in G. Marongiu – G.C. De Martin, Democrazia e Amministrazione, Milano, 1933, 13; G. Berti -G.C. De Martin, Gli istituti della democrazia amministrativa, Milano, 1996.

[5] Così nel caso di motivo illecito comune, laddove sia, appunto, comune ad entrambi i contraenti ed esclusivo, può determinare la nullità del contratto ai sensi dell’articolo 1345 del c.c.; ed ancora è particolarmente incisivo nelle disposizioni testamentarie (625 c.c.) e donative (788 c.c.), dove se è illecito ed esclusivo, può determinare la nullità dell’atto testamentario o di liberalità, a cagione della peculiarità di tali atti, dove prevale la tutela delle ultime volontà del testatore e l’”animus donandi”. Ai motivi è poi possibile dare rilevanza attraverso gli elementi accidentali, come la condizione, il termine e l’onere o “modus”.

[6] Al riguardo cfr. Cass. civ., 9 maggio 1981, n. 3074, in Giur. It., 1983; Cass. civ., 9 febbraio 1985, n. 1064, in Arch. Civ., 1985; Cass. civ., 2 gennaio 1986, n. 20, in Arch. Civ., 1986; Cass. civ., 31 ottobre 1989, n. 4554, in Rass. Giur. E.E., 1991; Cass. Civ., 24 marzo 2006 n. 6631, in Mass. Giur. It., 2006, secondo cui, in tema di rapporti giuridici sorti da contratto, la cosiddetta “presupposizione” deve intendersi come figura giuridica che si avvicina, da un lato, ad una particolare forma di “condizione”, da considerarsi implicita e, comunque, certamente non espressa nel contenuto del contratto e, dall’altro, alla stessa “causa” del contratto, intendendosi per causa la funzione tipica e concreta che il contratto è destinato a realizzare; il suo rilievo resta dunque affidato all’interpretazione della volontà contrattuale delle parti, da compiersi in relazione ai termini effettivi del negozio giuridico dalle medesime stipulato. Deve pertanto ritenersi configurabile la presupposizione tutte le volte in cui, dal contenuto del contratto, si evinca che una situazione di fatto, considerata, ma non espressamente enunciata dalle parti in sede di stipulazione del medesimo, quale presupposto imprescindibile della volontà negoziale, venga successivamente mutata dal sopravvenire di circostanze non imputabili alle parti stesse, in modo tale che l’assetto che costoro hanno dato ai loro rispettivi interessi venga a trovarsi a poggiare su una base diversa da quella in forza della quale era stata convenuta l’operazione negoziale, così da comportare la risoluzione del contratto stesso ai sensi dell’articolo 1467 cod. civ.. (Nella specie, era stata esperita, dai proprietari del canale di carico di un mulino, domanda di pagamento dei relativi canoni nei confronti dell’affittuario consorzio di bonifica e avevano rigettato la domanda sia il primo che il secondo giudice, quest’ultimo, in particolare, avendo applicato l’articolo 1463 cod. civ. sul presupposto che il consorzio doveva ritenersi liberato dalla propria prestazione perché, a causa dell’erosione del letto del fiume, si era creato un dislivello tale, rispetto alla originaria imboccatura del canale, da rendere questo non più adatto a captare l’acqua dal fiume; la S.C. ha confermato la sentenza correggendone la motivazione sulla base dell’enunciato principio di diritto, in quanto la situazione di fatto “presupposta” dai contraenti nella formazione del loro consenso, pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali, doveva identificarsi nella possibilità materiale di immissione dell’acqua derivata dal consorzio nel canale di carico del mulino, possibilità venuta meno già da tempo per effetto dell’erosione del letto del fiume)

[7] Su tutte cfr. Cass. 16 aprile 1999, Casile, CED 213378 la quale aveva evidenziato che “il giudizio sulla futilità del motivo non può essere astrattamente riferito ad una medianità comportamentale, peraltro difficilmente definibile in una realtà sociale per molti versi disomogenea, ma va ancorato agli elementi concreti della fattispecie, tenendo conto delle connotazioni culturali del soggetto giudicato, nonché del contesto sociale in cui si è verificato l’evento e dei fattori ambientali che possono aver condizionato la condotta criminosa”. Nello stesso senso Cass., 5 luglio 2007, Vallelunga, CED 237336

[8] Cfr., tra gli altri, G. Vacirca, la giurisdizione di merito: cenni storici e profili problematici, in www.giurisdizione-amministrativa.it, peraltro, ritiene assai dubbio che l’inclusione di una materia tra quelle devolute alla giurisdizione di merito comporti (o comporti in ogni caso) un potere di rivalutazione delle scelte di opportunità operate dall’amministrazione.

[9] Così M.S.GIANNINI, Motivazione dell’atto amministrativo, cit. La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha in questi anni offerto una definizione, poi accolta dalla successiva giurisprudenza, relativa alla funzione della motivazione del provvedimento amministrativo: “è quella di consentire al cittadino la ricostruzione dell’iter logico-giuridico attraverso cui l’amministrazione si è determinata ad adottare un determinato provvedimento, controllando, quindi, il corretto esercizio del potere ad essa conferito dalla legge e facendo valere eventualmente nelle opportune sedi, giustiziali e  giurisdizionali, le proprie ragioni. L’ampia discrezionalità riconosciuta ad una pubblica amministrazione in una determinata materia non sottrae i relativi provvedimenti al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, volto a controllare, proprio attraverso l’esame della motivazione, l’esercizio del potere sotto il profilo della logicità, la razionalità e la congruità, per evitare che esso possa scadere nel mero arbitrio”. Cfr. Cons. Stato, IV, 29 aprile 2002, n. 2281, in www.giustizia-amministrativa.it.

[10] come gli istituti dell’accesso tradizionale e dell’accesso civico, introdotto dal d.lgs. 33/13. V.CAPUTI JAMBRENGHI, L’accesso nel corso del procedimento amministrativo e il problema della motivazione dell’atto conclusivo, cit., spec. p. 384.

[11] come stabilisce l’articolo 111.6 della Costituzione, che sancisce che “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati”

[12] Oltre al capo III e aldilà del generale obbligo di motivazione, posto a garanzia della partecipazione nel momento della decisione, vi sono ulteriori forme di partecipazione al procedimento disseminate nel corpo della Legge n. 241 del 1990: si pensi alla disciplina prevista in tema di accordi, ex. art. 11; alla possibilità per il privato di convocare la conferenza di servizi, ex art. 14, comma4; alla segnalazione certificata di inizio attività, ex art. 19 e, infine, al silenzio assenso ex art. 20.

[13] si pensi all’articolo 5.2 del D.P.R. 1199/71 in materia di ricorsi amministrativi.

[14] Invero, solo con la legge istitutiva della IV sezione del Consigli di Stato, l’eccesso di potere si configurava, con la violazione di legge e l’incompetenza, vizio dell’atto amministrativo (art. 24, legge 31 marzo 1889, n. 5992) che, per  opera della dottrina e della giurisprudenza, ha assunto, nel corso del tempo, il fondamentale ruolo di strumento di verifica dell’azione amministrativa a quei parametri non scritti che pure vincolano l’attività discrezionale della pubblica amministrazione. Nella sterminata bibliografia dedicata all’argomento, si veda M.S.Giannini, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione: concetti e problemi, Milano, 1932; V.Ottaviano,  Studi sul merito degli atti amministrativi, in  Ann. dir. comp. st. leg., Roma, 1947, vol. XXII, 308 ss. ora in Scritti giuridici, vol. I, Torino, 1992, 267 ss.; F. Benvenuti, Eccesso di potere amministrativo per vizio della  funzione, in  Rass. dir. pubbl., 1950, 1 ss. (ora anche in  Scritti giuridici , vol. II, Articoli e altri scritti (1948-1959), Milano, 2006, 991 ss.

[15] la nuova linea di demarcazione tra regime pubblicistico e regime privatistico degli atti di organizzazione passa per la contrapposizione tra l’organizzazione alta (o macro-organizzazione), da un lato, e l’organizzazione bassa (o micro-organizzazione) nonché la regolazione-gestione dei rapporti di lavoro, dall’altro: solo per i primi è conservato il regime pubblicistico. Ne deriva che mentre l’ambito riservato alla legge, ai regolamenti e agli altri atti organizzativi in regime pubblicistico è confinato alla configurazione strutturale degli apparati, le determinazioni riguardanti il funzionamento degli uffici sono assunte dai dirigenti preposti alla gestione con la capacità e i poteri di diritto privato, entro lo spazio che la configurazione organizzativa stabilita mediante le fonti unilaterali dovrà lasciare alla loro responsabilità.

[16] in tal senso Corte Costituzionale 8 giugno 2011, n. 175.

[17] in tal senso Cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 9 ottobre 2012, n.5257.

[18] va tenuta distinta dalla motivazione implicita quella per relationem, che ricorre quando nel provvedimento viene compiuto un espresso richiamo ad un determinato atto. La motivazione per relationem è consentita dal terzo comma dell’art. 3 legge n. 241 del 1990, secondo il quale “Se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell’amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest’ultima deve essere indicato e reso disponibile, a norma della presente legge, anche l’atto cui essa si richiama”.

[19] Sul punto, Adunanza Plenaria n. 15/2011 qualifica il silenzio assenso come provvedimento amministrativo tacito che si forma con il decorso del tempo, allo scadere del termine che il Legislatore ha affidato alla p.a. per provvedere.

[20] Nel senso della sufficienza del solo voto numerico, si veda, tra le altre, Consiglio di Stato, sez. IV, decisione 05.03.2008 n° 924

[21] in tal senso Tar Lazio 8 settembre 2014, n. 9505.

[22] il problema si è posto con la revoca dell’assessore comunale: il provvedimento dev’essere motivato ma, eccezionalmente, si ammette una motivazione comunque semplificata. I provvedimenti, già di per sé, sono legittimi.

[23] Cfr. TAR Veneto, sez. II, 20 maggio 2005, citata da LUCCA M., Il c.d. preavviso di rigetto tra buona fede e legittima aspettativa del privato, in www.lexitalia.it, n. 6/2005. Cfr. inoltre TAR Lazio, sez. II bis, 18 maggio 2005, n. 3921, in www.lexitalia.it, che annulla il provvedimento impugnato perché si ritiene che alla parte interessata sia stata preclusa  la partecipazione al procedimento amministrativo. Si tratta infatti del provvedimento di diniego (di rilascio di un permesso di costruire) che avrebbe dovuto prevedere la partecipazione dell’istante, in virtù della comunicazione dei motivi ostativi ex art. 10 bis, prima di esprimere detto diniego.

[24] Tale aspetto è stato messo in risalto dalla Corte nella sua variegata giurisprudenza. Ex multis: Sent. della Corte del 15 luglio 1970; ACF Chemiefarma NV contro Commissione delle Comunità europee, C 41-69, in Raccolta 1970 pp. 0066; Sent. della Corte del 13 marzo 1985, Regno dei Paesi Bassi e Leeuwarder Papierwarenfabriek BV controCommissione delle Comunità europee in C- 296 e 318/82, in Raccolta 1985 pp. 00809; Sent. della Corte del 4 giugno1992, Consorgan – Gestão de Empresas Ldª contro Commissione delle Comunità europee, C-181/90, in Raccolta 1992 p. I-03557; Sent. della Corte (Seconda Sezione) del 15 dicembre 2005, Repubblica italiana vs Commissione delle Comunità europee, C-66/02, in Raccolta 2005 pp. I-1090.

[25] Nell’ambito del procedimento amministrativo un’indubbia rilevanza è da attribuire alle norme previste in tema di partecipazione le quali, oltre ad offrire notevoli spunti di interesse in relazione alle specifiche problematiche applicative, testimoniano, altresì, il progressivo mutamento del modo di intendere i rapporti tra pubblica amministrazione e privato e di concepire lo stesso potere pubblico. Con l’introduzione delle disposizioni volte a garantire il preliminare incontro tra cittadini e pubblica amministrazione si è, in altri termini, inverato il principio del “giusto procedimento”, il quale richiede che alla definizione dell’interesse pubblico si pervenga anche attraverso il contraddittorio con i soggetti portatori dei contrapposti interessi coinvolti dall’esercizio del potere.

[26] Sulla distinzione tra attività vincolata ed attività discrezionale, Cfr. A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Jovene, Napoli, 1989, p.591 ss.

[27] Occorre precisare che il problema della motivazione postuma non si pone nel giudizio vertente su diritti soggettivi, perché in tal caso il processo ha sicuramente ad oggetto un rapporto giuridico. Non viene impugnato un provvedimento in senso tecnico e la p.a. non è tenuta ad adottare una motivazione che, ove in ipotesi formulata, non svolgerebbe la funzione che avrebbe in un provvedimento vero e proprio.

[28] Sul punto, Consiglio di Stato, Sez. III, 30 aprile 2014 n. 2247 afferma che: “il difetto di motivazione nel provvedimento impugnato non può essere in alcun modo assimilato alla violazione di norme procedimentali né a vizi della forma, “costituendo la motivazione il presupposto, il fondamento, il baricentro e l’essenza stessa del legittimo esercizio della PA, presidio di legalità sostanziale insostituibile; difetto di motivazione che non può essere sostituito nemmeno attraverso il ragionamento ipotetico, di cui all’art. 21octies, comma 2, della Legge n. 241 del 90”. Cfr, altresì, Tar Piemonte 5 novembre 2014 n. 1676: “è inammissibile l’integrazione postuma della motivazione del provvedimento amministrativo mediante gli atti difensivi di parte perché rimane sempre valido il principio secondo cui la motivazione del provvedimento non può mai essere integrata nel corso del giudizio con la specificazione di nuovi elementi di fatto, dovendo la motivazione sempre precedere e mai seguire il provvedimento amministrativo. La motivazione precedente o contestuale è posta a presidio del buon andamento e dell’esigenza di delimitazione del controllo giudiziario. La motivazione funge da perimetro contro l’arbitrio del potere giudiziario”.

[29] Il giudizio innanzi al giudice amministrativo è configurato dal Legislatore sempre più come giudizio sulla spettanza del bene della vita, come giudizio cioè non sull’atto, ma sul rapporto. Si pensi, in tal senso, al giudizio sul silenzio, oppure a quello risarcitorio, che è bifasico: la prima parte del giudizio è volta a stabilire se l’atto è legittimo o meno, la seconda parte verte sulla spettanza del bene della vita, ed è in questa fase che si ammette una sorta di integrazione della motivazione.

[30] Nell’ampio quadro dei poteri esercitati dalle Autorità Amministrative Indipendenti, altresì, si annoverano: il potere consultivo; il potere contenzioso ed il potere di vigilanza. Il potere consultivo si sostanzia nella cd. moral suasion, ovvero nell’emanazione di pareri o segnalazioni da parte degli Organismi Regolatori alle Commissioni Parlamentari in relazione ad eventuali violazioni di normativa nei settori di loro competenza. Quanto al potere contenzioso, esso si sostanzia nella facoltà dell’ Autorità di essere investite quale arbitro in determinate controversie: basti pensare, per fare un esempio, all’attività di risoluzione delle controversie tra utenti ed operatori nel settore delle comunicazioni elettroniche. Infine, il potere di vigilanza riguarda la fase post-regolamentare in cui le Autorità devono vigilare sulla corretta applicazione dei regolamenti emananti, anche attraverso l’istituto delle ispezioni con cui si verifica, in maniera concordata o meno, il rispetto dei provvedimenti emanati nei settori regolati.

[31] In tal senso si sono pronunciati le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 1013 del 20 gennaio 2014: “ Il sindacato di legittimità del giudice amministrativo sui provvedimenti dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e si estende anche ai profili tecnici, il cui esame sia necessario per giudicare della legittimità di tale provvedimento; ma quando in siffatti profili tecnici siano coinvolti valutazioni ed apprezzamenti che presentino un oggettivo margine di opinabilità detto sindacato, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, p limitato alla verifica che quel medesimo provvedimento non abbia esorbitato dai margini di opinabilità sopra richiamati, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell’Autorità Garante ove questa sia mantenuta entro i suddetti margini”.

[32] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 27 dicembre 2006, n. 7972

[33] Cfr., tra gli altri, R. TITOMANLIO, Potestà normativa e funzione di regolazione. La potestà regolamentare delle autorità amministrative indipendenti, Torino, Giappichelli, 2012, e alla dottrina ivi citata. In precedenza v. R. TITOMANLIO, Autonomia e indipendenza delle Authorities: profili organizzativi, Milano, Giuffrè, 2000; ID., Funzione di regolazione e potestà sanzionatoria, Milano Giuffrè, 2007. In dottrina sterminata è oramai la riflessione dottrinale sulle autorità amministrative indipendenti: al riguardo v. M. MANETTI, Poteri neutrali e Costituzione, Milano, 1994; ID., Autorità indipendenti (dir. cost.), in Enc. giur. Treccani, IV, Roma, 1997; N. LONGOBARDI, Autorità amministrative indipendenti e sistema giuridico-istituzionale, Torino, Giappichelli, 2009; M. D’ALBERTI, Autorità indipendenti (dir. amm.), in Enc. giur. Treccani; IV, Roma, 1995; F. MERUSI, Democrazia e autorità indipendenti, Bologna, Il Mulino, 2000; A. PREDIERI, L’erompere delle autorità amministrative indipendenti, Firenze, Passigli, 1997; ID., Le autorità indipendenti nei sistemi istituzionali ed economici, I, Firenze, Passigli, 1997; L. GIANI, Attività amministrativa e regolazione di sistema, Torino, 2002 M. CLARICH, Autorità indipendenti. Bilancio e prospettive di un modello, Bologna, Il Mulino, 2005; A. LA SPINA – G. MAJONE, Lo Stato regolatore, Bologna, Il Mulino, 2000. G. GRASSO, Le autorità amministrative indipendenti della Repubblica italiana, Giuffrè, Milano, 2006; L. GIANI, Attività amministrativa e regolazione di sistema, Giappichelli, Torino, 2002; P. ROSSI, Le Autorità di regolazione dei servizi di interesse economico generale, Giappichelli, Torino, 2005; M. POTO, Autorità amministrative indipendenti (aggiornamento), in Digesto pubbl., tomo I, Utet, Torino, 2008, 54 ss.; M. CUNIBERTI, Autorità indipendenti e libertà costituzionali, Giuffrè, Milano, 2007; D. BORSELLINO, Autorità amministrative indipendenti e tutela giurisdizionale – Dal difensore civico alla tutela del risparmio, Cedam, Padova, 2006; G. NAPOLITANO, Autorità indipendenti e agenzie amministrative, in Il diritto, vol. II, Il Sole 24 Ore, Milano, 2007, 255 ss.; Authorities, a cura di L. PAGANETTO, Donzelli, Roma, 2007 .

[34] Cfr., tra gli altri, De Cristofaro, Sindacato di legittimità sull’applicazione dei «concetti giuridici indeterminati» e decisione immediata della causa nel merito, in Foro It., 1999, I, coll. 1912 e segg.. Per un più analitico esame della nozione di “norme elastiche” e degli affini “concetti giuridici indeterminati”, “clausole generali”, “standards valutativi” e “principi generali”, si veda Fabiani, Norme elastiche, concetti giuridici indeterminati, clausole generali, «standards» valutativi e principî generali dell’ordinamento, in Foro It., 1999, I, coll. 3558 e ss.

14 gennaio 2016

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