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Le Sezioni Unite si pronunciano in materia di risarcimento del danno da pubblicità ingannevole: nota a Cass. Civ. SS.UU. N. 794/2009

Sigaretta Light

di Antonio Liguori Sigaretta lightLa sentenza n. 794/2009 delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione affronta il tema del risarcimento del danno da fumo in seguito a pubblicità ingannevole, consistente nell’apposizione del segno descrittivo “Light” sul pacchetto di sigarette. Tale pronuncia si segnala in particolare per i principi di diritto che la Suprema Corte detta sia con riferimento alla giurisdizione in materia di risarcimento danni derivante da pubblicità ingannevole, che con riguardo alla ripartizione dell’onere probatorio. A- RISARCIMENTO DEL DANNO DERIVANTE DA PUBBLICITÀ INGANNEVOLE: LA GIURISDIZIONE SPETTA AL GIUDICE ORDINARIO. Con riferimento al tema della giurisdizione in materia di risarcimento danni derivante da pubblicità ingannevole è opportuno richiamare la disciplina normativa che viene in rilievo. Va detto, infatti, che l’art. 27, comma 2, del Codice del Consumo (ex art. 7, comma 12, D.lgs. 74/1992) attribuisce in primo luogo all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato il potere di inibire, d’ufficio o su richiesta di ogni soggetto e organizzazione che vi abbia interesse, gli atti di pubblicità ingannevole, la loro continuazione e di eliminarne gli effetti. Si potrebbe, pertanto, ritenere che alla luce di tali poteri inibitori attribuiti dal legislatore all’AGCM possa sussistere anche con riferimento alla domanda di risarcimento danni la “giurisdizione” dell’Autorità Garante. È, tuttavia, evidente come una simile eventualità debba essere esclusa, atteso che la natura di autorità amministrativa, e non giurisdizionale, dell’AGCM impedisce di configurare una questione di giurisdizione tra la stessa e il giudice ordinario. In tal senso, peraltro, si è già pronunciata la giurisprudenza di legittimità [1] anche recentemente affermando che “la controversia promossa da un consumatore per conseguire il risarcimento del danno alla salute da alterazione psichica e stress conseguente alla asserita illegittima pubblicizzazione, durante una trasmissione televisiva concernente una partita di calcio, di una rivista sportiva, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario e non dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, giacché essa non è un organo giurisdizionale, ma un’autorità amministrativa, sicché non è configurabile una questione di giurisdizione in relazione ai poteri inibitori ad essa riconosciuti dall’ordinamento”. Con la sentenza segnalata le Sezioni Unite ritornano sul problema, affrontando questa volta, però, il diverso aspetto del rapporto tra giudice ordinario e giudice amministrativo. La questione di giurisdizione è stata nel caso di specie prospettata da parte ricorrente alla luce del disposto dell’art. 7, comma 12, D.lgs. 74/1992 (oggi confluito nell’art. 27, al comma 14, del Codice del Consumo) il quale prevede che “ove la pubblicità sia stata assentita con provvedimento amministrativo, preordinato anche alla verifica del carattere non ingannevole della stessa o di liceità del messaggio di pubblicità comparativa, la tutela dei concorrenti, dei consumatori, e delle loro associazioni e organizzazioni è esperibile solo in via giurisdizionale con ricorso al giudice amministrativo avverso il predetto provvedimento”. La ratio di tale disposizione è evidente: in presenza di un provvedimento amministrativo, con il quale è stata autorizzata la pubblicità stessa, con il conseguente consolidamento nel richiedente del diritto soggettivo a diffonderla, l’inibizione non può essere disposta dall’AGCM, poiché, dovendosi ottenere la declaratoria di illegittimità del provvedimento stesso, è necessario il ricorso al Giudice Amministrativo, unico giudice di legittimità dei provvedimenti della pubblica amministrazione. Ebbene proprio la ratio della richiamata disposizione normativa, consente di individuare correttamente l’ambito di applicazione dell’attuale art. 27, comma 14, del Codice del Consumo: ad essa, infatti, come correttamente osservato dalle Sezioni Unite con la sentenza 794/2009, risulta essere del tutto estranea l’ipotesi in cui il consumatore proponga un’azione di risarcimento del danno, che assume essere derivato dall’atto pubblicitario ingannevole. Ciò è evidente se si considera che l’art. 27, comma 14, del Codice del Consumo, individua un’ipotesi di giurisdizione di legittimità, e non esclusiva, del giudice amministrativo: esso, quindi, è chiamato a conoscere unicamente della legittimità del provvedimento amministrativo che ha autorizzato la diffusione della pubblicità. Diversamente, quando il privato agisce ex art. 2043 c.c. per ottenere il risarcimento del danno ad esso derivato dalla pubblicità ingannevole, si verte nel campo dei diritti soggettivi, e pertanto la relativa domanda deve ritenersi rientrante nella giurisdizione del giudice ordinario. Tali considerazioni sono alla base del ragionamento seguito dalle Sezioni Unite nella sentenza in commento per giungere al seguente principio di diritto: “Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario – e non del giudice amministrativo, ai sensi del comma 12° dell’ art. 7 del D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74 (successivamente comma 13° dell’art. 26 del Codice del consumo, di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, poi comma 14° dell’ art. 27 del Codice stesso, come introdotto dal D.Lgs. n. 146 del 2007, attuativo della direttiva 2005/29/CE) – la controversia promossa da un consumatore per conseguire, ex art. 2043 c.c., il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale (sotto forma di danno alla salute o danno “esistenziale” dovuto al peggioramento della qualità della vita conseguente allo stress ed al turbamento per il rischio del verificarsi di gravi malattie), facendo valere come elemento costitutivo dell’illecito la pubblicità ingannevole del prodotto (nella specie sigarette del tipo “LIGHT”), recante sulla confezione un’espressione diretta a prospettarlo come meno nocivo”. Deve, quindi, concludersi che la domanda di risarcimento del danno derivante da pubblicità ingannevole rientra sempre nella giurisdizione del giudice ordinario, dovendosi escludere sia la giurisdizione del giudice amministrativo, sia la possibilità di ottenere lo stesso dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. B- L’ONERE PROBATORIO IN CAPO AL CONSUMATORE. La sentenza n. 794/2009 si segnala, altresì, anche per gli importanti principi che le Sezioni Unite Civili dettano con riferimento all’onere probatorio sussistente in capo al consumatore che intende ottenere il risarcimento del danno da pubblicità ingannevole ex art. 2043 c.c.; principi che, come si vedrà, trascendono il caso specifico, riguardando la struttura generale della responsabilità aquiliana. Sul punto in primo luogo le Sezioni Unite censurano la sentenza impugnata che aveva riconosciuto il risarcimento del danno del consumatore sulla base di un mero automatismo tra fatto dannoso e danno risarcibile, sul presupposto che, una volta verificatosi il fatto dannoso, la dimostrazione del danno ingiusto risarcibile sarebbe in re ipsa, per cui non ricadrebbe sull’attore originario l’onere della dimostrazione delle singole situazioni di pregiudizio subite e risarcibili. Tale logica risulta evidentemente errata, atteso che sostenere ciò significherebbe affermare la sussistenza di una presunzione in base alla quale, una volta verificatosi il fatto, appartiene alla regolarità causale la realizzazione del danno ingiusto oggetto della domanda risarcitoria, per cui la mancata conseguenza di tale pregiudizio debba ritenersi come eccezionale; tutto ciò in palese violazione dei principi dettati in materia di onere probatorio dall’art. 2697 c.c. La Suprema Corte rileva, infatti, come l’accoglimento della pretesa risarcitoria avanzata ex art. 2043 necessita della prova, che secondo gli ordinari canoni dettati dall’art. 2697 c.c. deve essere fornita da chi avanza la pretesa stessa, di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità extracontrattuale: la condotta dolosa o colposa dell’agente, la presenza di un danno ingiusto, il nesso causale tra questo e l’azione. In particolare sul punto viene formulato il seguente principio di diritto: “Il consumatore che lamenti di aver subito un danno per effetto di una pubblicità ingannevole ed agisca, ex art. 2043 c.c., per il relativo risarcimento, non assolve al suo onere probatorio dimostrando la sola ingannevolezza del messaggio, ma è tenuto a provare l’esistenza del danno, il nesso di causalità tra pubblicità e danno, nonché (almeno) la colpa di chi ha diffuso la pubblicità, concretandosi essa nella prevedibilità che dalla diffusione di un determinato messaggio sarebbero derivate le menzionate conseguenze dannose”. Il consumatore, quindi, non assolve in alcun modo il proprio onere probatorio dimostrando l’ingannevolezza del messaggio pubblicitario, dovendo altresì fornire la prova dell’esistenza di un danno ingiusto, del nesso di causalità, nonché del dolo o quanto meno della colpa del soggetto che ha diffuso la pubblicità. Ciò posto le Sezioni Unite affrontano l’ulteriore tema relativo all’eventuale necessità della sussistenza di una specifica disposizione o provvedimento che vieti un determinato tipo di pubblicità, affinché possa essere riconosciuto il risarcimento del danno da pubblicità ingannevole. Nel caso di specie, infatti, la ricorrente rilevava come la propria condotta non potesse essere considerata fonte di responsabilità extracontrattuale, atteso che l’apposizione della dicitura “Light” era stata vietata solo dal Settembre 2003, in seguito all’introduzione del D.Lgs n. 184/2003 (attuativo della direttiva comunitaria 2001/37/CE). La Suprema Corte rileva come tale circostanza non sia idonea ad escludere la responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., e ciò sulla base di un’importante considerazione di carattere generale. Nella struttura della responsabilità aquiliana, infatti, non assume rilievo l’illiceità del fatto, nel senso che non è richiesto che la condotta posta in essere dal soggetto agente violi una particolare disposizione di legge, regolamentare ovvero un dato provvedimento; ciò che conta, osservano le Sezioni Unite, è unicamente la sussistenza di un danno ingiusto, e cioè che il fatto, doloso o colposo, dell’agente abbia prodotto la lesione di una posizione giuridica altrui, tutelata dall’ordinamento, e non altrimenti giustificata [2]. Conseguentemente l’eventuale presenza di una disposizione di legge o di un provvedimento che autorizzi la pubblicità non costituisce un elemento preclusivo all’ottenimento del risarcimento del danno ex art. 2043 per il consumatore. Il principio di diritto formulato sulla questione è, quindi, il seguente: “L’apposizione, sulla confezione di un prodotto, di un messaggio pubblicitario considerato ingannevole (nella specie il segno descrittivo “LIGHT” sul pacchetto di sigarette) può essere considerato come fatto produttivo di danno ingiusto, obbligando colui che l’ha commesso al risarcimento del danno, indipendentemente dall’esistenza di una specifica disposizione o di un provvedimento che vieti l’espressione impiegata”. Note [1] V. Cass. civ. Sez. Unite <Sent., 29-08-2008, n. 21934; nello stesso senso cfr. Cass. civ. Sez. Unite, 06-04-2006, n. 7985. [2] Nello stesso senso cfr. Cass. civ. Sez. III, 04-07-2007, n. 15131. Scarica la sentenza [pdf]

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