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Personalità giuridica, un confronto tra Intelligenza Artificiale e schiavitù romana. Intervista al Prof. Lorenzo Franchini

 

Per l’appuntamento settimanale con la rubrica delle interviste, la redazione di DIMT ha intervistato il Professor Lorenzo Franchini in merito al contributo “Disciplina romana della schiavitù ed intelligenza artificiale odierna. Spunti di comparazione”.

Il Professor Franchini, già a suo tempo insignito del Premio “A. Gemelli” per la miglior laurea in Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano, è oggi docente di Fondamenti romanistici del diritto europeo all’Università Europea di Roma. Coltiva comunque da sempre gli interessi più svariati, che lo hanno portato a collaborare con le maggiori istituzioni di cultura del Paese (tra le quali, in particolare, si segnala la Presidenza dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana – Treccani).

 

E’ recente l’idea che uno status, quale è quello servile, possa essere posto a confronto di uno status giuridico di un’intelligenza artificiale, come ad esempio troviamo nell’articolo uscito sul Corriere della sera “L’intelligenza artificiale come lo schiavo di Roma antica“? In virtù della legislazione che filtrava i comportamenti adottabili verso gli schiavi, quali sono, a Suo avviso, le implicazioni morali ed etiche dei comportamenti tenuti verso l’intelligenza artificiale? Schiavo e IA sono effettivamente, a livello giuridico, paragonabili?

Gli antichi Romani erano maestri di umanità, e certo la sapevano lunga su come far sì che il diritto regolasse i rapporti tra i consociati per evitare conflitti, garantendo al meglio la pace sociale. La morale del tempo – non solo la loro, ma anche quella delle altre genti del Mediterraneo – consentiva di sfruttare alcune persone come se fossero cose, a cominciare dai prigionieri di guerra.  Dal nostro punto di vista, si trattava di un’aberrazione, ma noi moderni abbiamo poco di che vantarci, dato che in alcuni pur evolutissimi paesi, come gli Stati Uniti d’America, la schiavitù è perdurata fino al XIX secolo (mentre in Italia si hanno già per il XIII secolo, nell’ambito di alcuni statuti comunali, testimonianze della sua abolizione).

Comunque sia, quell’antica disciplina, giustamente relegata nel dimenticatoio per molto tempo, è oggi inaspettatamente tornata di attualità in rapporto ad altre “intelligenze serventi”, non più naturali, ma artificiali. Persino gli studiosi meno attenti alla storia si sono accorti che il diritto romano costituisce una “miniera” da scavare per individuare preziosi modelli a cui ispirarsi. Non c’è da stupirsi se anche la grande stampa lo ha compreso e, trattando di IA, dà spesso a questo dato più risalto che ad altri.

Sul piano giuridico il parallelismo è evidente: sia gli antichi schiavi che i moderni robot (pur esseri lato sensu “pensanti”) sono da ritenersi oggetti, non soggetti (soggetti potevano diventarlo solo a seguito di manomissione, ossia liberazione da parte del padrone). Ma anche sul piano socio-economico la comparazione può sortire esiti stupefacenti, perché se allora esistevano servi dei più svariati generi – domestici o destinati in massa ai lavori “in serie” o precettori o artigiani o addirittura preposti ad un’impresa -, stessa cosa può dirsi, in prospettiva odierna o prossima futura, anche delle macchine, come ormai risulta non solo dai romanzi o dai film, ma anche dalle applicazioni reali.

 

E’ immaginabile che, anche per le macchine intelligenti, attraverso una legislazione speciale, possano essere introdotti limiti al diritto del proprietario su una macchina ad Intelligenza Artificiale? Ed in caso, questi limiti possono essere funzionali alla salvaguardia degli interessi pubblici, tenendo conto dell’esperienza romana? Non avendo il servo personalità giuridica, al pari di un robot, quali sono gli aspetti più interessanti che seguono la comparazione, nel caso di attività illecite, tra intelligenze artificiali e schiavi in riferimento alle responsabilità civili e penali?

Ribadisco che l’idea di fondo è che queste intelligenze non possano che formare oggetto della proprietà di un soggetto, pubblico o privato che sia, e che gli effetti della loro attività, lecita o illecita, non possano che ripercuotersi nella sfera di quest’ultimo, non in quella del robot di per sé inteso. Al momento non si vede come riconoscere alla macchina una soggettività autonoma, anche se certamente è formulabile l’ipotesi che il potere di abusarne da parte del titolare (ad esempio di distruggerla) possa essere limitato a salvaguardia di interessi scientifici, più che etici in senso stretto (semmai, “tecno-etici”, per usare una felice espressione di Ugo Ruffolo).

Nell’esperienza romana, stava alla sensibilità del proprietario capire fino a che punto potesse spingersi nel maltrattare e punire lo schiavo, specie quando fosse diventato pericoloso per il padrone o per i terzi. In seguito, sotto l’influsso della morale stoica e poi cristiana, certi limiti furono in effetti imposti per legge.

Riguardo all’attività negoziale dello schiavo – che per ipotesi fosse abile negli affari -, il principio generale era che chi entrava in rapporti con lui lo facesse a proprio rischio e pericolo perché il dominus tramite il proprio sottoposto poteva solo arricchirsi (quasi fosse una sua longa manus), e non impoverirsi. Ma in alcuni casi precisi, per salvaguardare le esigenze del commercio, e quelle stesse dei padroni non grettamente intese, si ammise che i terzi, venendo a contatto con i servi, potessero anche acquisire beni e accendere crediti, quando risultasse in modo chiaro che quelle intelligenze erano state volutamente anteposte dai loro titolari alla gestione di un’impresa o di una certa porzione dei loro patrimonio (c.d. peculio). E’ un monito anche per noi: in una società sempre più in prospettiva popolata da robot e androidi, essi potranno sostituirsi ai loro proprietari, nel traffico giuridico esterno, solo a certe condizioni, in certe circostanze, rese il più possibile trasparenti, non in tutte.

Riguardo alla responsabilità per fatto illecito, va detto che le implicazioni nella sfera e civile ed in quella penale non sono, nel diritto romano, perfettamente congruenti con quelle proprie del diritto oggi vigente. Sintetizzerei così. Se l’intelligenza servente ha agito su impulso del proprietario, o comunque nella consapevolezza di lui, soltanto quest’ultimo dovrà risponderne. Se invece ha agito in autonomia, sarà pensabile adottare dei provvedimenti proprio nei confronti di essa, che nel caso dei crimini più gravi potrebbero anche consistere nella sua distruzione o disattivazione (delle quali dovranno farsi carico il padrone medesimo o, al limite, il potere pubblico); il proprietario sarà semmai tenuto a risarcire i danni alle vittime degli illeciti, ma non oltre un certo massimale, rappresentato dal valore stesso della macchina, quasi fosse una sorta di capitale di rischio su cui, acquistandola, si è investito. Oggi potrebbe allora invocarsi, in aggiunta, la responsabilità di altre figure, come il produttore o il programmatore; ma in riferimento a queste dal diritto romano non ci provengono, ovviamente, suggerimenti. Per tutti gli altri aspetti invece, come si è visto, direi proprio di sì!

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