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La coerenza del divieto di P.M.A. eterologa in rapporto all’istituto dell’adozione e al diritto a conoscere le proprie origini

di Carlo Casini

Relazione presentata al convegno “La fecondazione eterologa tra Costituzione italiana e Convenzione europea dei diritti dell’uomo”, svoltosi il 2 aprile 2012 all’Università Europea di Roma.
Qualunque riflessione sul tema della procreazione artificiale umana deve partire da due punti.
1. L’art. 3 della Convezione dei Diritti del Fanciullo adottata dall’ONU il 20 novembre 1989, rese esecutiva in Italia con la legge 27 maggio 1991 n. 176 che stabilisce: “in tutte le azioni riguardanti i bambini se avviate da istituzioni di assistenza sociale, pubbliche o private, tribunali, autorità amministrative o corpi legislativi, i maggiori interessi del bambino devono essere oggetto di primaria considerazione.”. Questa formula era già presente anche nella Convenzione Europea per la Salvaguardia per i Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali ed è stata ripetuta nella Carta Europea dei Diritti fondamentali approvata a Nizza nel 2000 alla quale il Trattato di Lisbona ha attribuito lo stesso valore giuridico dei Trattati. Va ricordato anche quanto era stato scritto nella Dichiarazione Universale del Fanciullo nel 20 novembre del 1959: ”la società e lo Stato devono dare al Fanciullo il meglio di se stessi”.
Queste disposizioni gettano una luce chiarificatrice sul rapporto fra l’interesse degli adulti di avere un figlio e gli interessi del figlio stesso. Il principio vale in ogni campo e quindi in quello della procreazione artificiale.
2. Bisogna riflettere sulla differenza fra la fecondazione che avviene a seguito di un incontro sessuale e quella che deriva da PMA. La prima suppone un gesto per sua natura assolutamente privato, come tale non sottoponibile a controlli provenienti all’esterno della coppia; la seconda, invece, implica una programmazione e una attuazione che esigono la partecipazione della società civile mediante una pluralità di persone. Perciò è facile e doveroso dare una regola controllabile alla PMA a differenza di quanto avviene per la generazione naturale. Come è noto nella nostra società s’insiste molto sul tema della procreazione cosciente e responsabile. Essa è indicata come criterio orientativo alle coppie nel caso della fecondazione naturale ma può e deve essere un criterio vincolante nel caso della fecondazione artificiale. Ovviamente la prima responsabilità riguarda il figlio la cui vita è nelle mani degli adulti che lo desiderano, dei medici e della società tutta intera.
Alla luce di questi due criteri si può ben comprendere la ragionevolezza della legge n. 40 del 2004. E’ una ragionevolezza che per essere ben colta va collocata all’interno di una situazione di fatto precedentemente maturata, priva di qualsiasi regola, in un sistema giuridico dove tutto ciò che non è espressamente vietato deve ritenersi permesso. Giustamente questa situazione veniva descritta sui mezzi di comunicazione come “far west procreativo”. Intervenire legislativamente è apparso perciò doveroso. Naturalmente in un sistema democratico bisogna fare i conti con le forze politiche in campo e con una cultura dominante che considera criterio decisivo, l’autodeterminazione del singolo in tutto ciò che riguarda la sua dimensione sessuale. Tuttavia la legge è stata chiara nel definire il suo scopo nell’art. 1 dove ha dichiarato di volere assicurare i diritti di tutti i soggetti coinvolti compreso il concepito. L’orizzonte della norma è caratterizzato, dunque, a differenza di altre leggi straniere dallo sguardo rivolto non soltanto al superamento dei problemi di sterilità o infertilità degli adulti o, addirittura, alla soddisfazione dei loro desideri ma anche al figlio concepito. Anzi, questo secondo sguardo è particolarmente intenso come risulta dalla qualificazione del figlio-embrione come soggetto titolare di diritti e come tale parificabili agli altri soggetti coinvolti. Ne è derivata una disciplina particolarmente attenta a garantire un futuro di vita e una solidità di affetti al figlio. Le regole dell’art. 14 sono ispirate al tentativo di evitare la morte del concepito provocata in modo intenzionale e diretto. E’ noto che le percentuali di “successo”, intesa come “bambino in braccio”, sono tuttora alquanto basse, il che significa che una gran parte, molto numerosa di figli concepiti in provetta, non giunge alla nascita. Purtroppo la morte sembra essere una compagna inevitabile dell’uomo con particolare frequenza e precocità quando egli è concepito artificialmente. Ma, almeno, se dalla provetta il figlio è immediatamente trasferito nell’utero materno, vi è un affidamento al corpo della madre che fa terminare l’artificialità e che promette una qualche speranza di vita. Se, invece, l’embrione è selezionato, sottoposto a sperimentazione, gettato via, la morte è data direttamente, con premeditazione e vien fatto di dire con linguaggio, giuridico, in concorso di più persone. Se poi l’embrione vien congelato il gelido limbo al quale viene condannato il nuovo essere umano è foriero, anch’esso, di morte o di problemi insolubili. Per questo la legge aveva proibito la produzione di embrioni soprannumerari il che, come necessario corollario, comporta il dovere di immediato trasferimento in utero e un limite massimo di embrioni generabili in un unico contesto. Purtroppo la Corte Costituzionale, dimenticando a mio modo di vedere la legge, ha aperto una grande breccia nell’impianto della normativa consentendo la produzione soprannumeraria e quindi il congelamento. E’ il vulnus al quale bisogna riporre rimedio, quanto meno rinforzando il principio stabilito dalla legge 40/04 in modo da non renderlo ignorabile. La proposta del Movimento per la Vita italiano di riconoscere la capacità giuridica del concepito modificando in questo senso l’art. 1 c.c. potrebbe essere un rimedio adeguato. Il recente episodio del San Filippo Neri mostra quanto fossa corretta la disciplina dell’art.14 della legge 40 prima della parziale demolizione operata dalla Corte Costituzionale. Restano ancora alcuni limiti a difesa dei diritti del concepito che è opportuno difendere di fronte alle crescenti aggressioni.
Una particolare aggressione riguarda quanto stabilito al terzo comma della legge 40/04 secondo cui “è vietato il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistito di tipo eterologo”. La ratio della disposizione è, ancora una volta, il bene del figlio. Il legislatore ha ritenuto che “il meglio” per il nuovo essere chiamato all’esistenza sia un padre e una madre che siano tali nel senso più totale: genetico, affettivo, legale. Tale scelta è sostanzialmente motivata dall’intento di garantire il diritto all’identità personale e familiare del bambino chiamato alla vita mediante le nuove tecniche. A favore dell’uso di gameti estranei alla coppia si è osservato che sono molti i figli “naturalmente eterologhi”, frutto di una libertà sessuale e generativa che lo Stato non limita. L’argomento continua affermando che non si vede perché una tale libertà debba essere compressa quando si tratta di superare una patologia. Si aggiunge che la separazione tra genitorialità biologica e degli affetti è già presente nell’adozione, un istituto che viene generalmente lodato e certamente non meritevole di critiche etiche. Per rispondere subito a quest’ultimo argomento è sufficiente ricordare che la moderna adozione di minori non ha come scopo quello di dare un figlio a chi non ne ha (come avviene nella PMA), ma, al contrario di dare una famiglia al bambino che ne è privo perché si trova in uno stato di abbandono materiale o morale. Indubbiamente l’adozione che valorizza la genitorialità degli affetti è un istituto ottimo, ma bisogna ricordare che il suo presupposto è un male, cioè l’abbandono materiale o morale di un bambino. Non si può dire che per un figlio sia bene che il padre e la madre muoiano oppure che lo lascino in mezzo ad una strada o che lo maltrattino continuamente. In questi casi l’adozione è un rimedio. Ma non si può causare un male per potervi rimediare. Come si vede il principio fondativo dell’adozione è esattamente l’opposto rispetto a quello su cui si basa la PMA eterologa. Chi “dona” i propri gameti si trova in una posizione abbastanza simile a quella di chi abbandona un figlio. Egli genera un figlio, ma lo abbandona immediatamente: di lui non vuol sapere nulla e nei suoi confronti rifiuta ogni responsabilità. Respinto l’argomento dell’adozione dobbiamo ritornare a riflettere su che cosa sia il meglio per il figlio. Il meglio non può essere valutato soltanto in termini giuridici. Che il frutto di una fecondazione eterologa sia considerato figlio legittimo a tutti gli effetti non garantisce affatto che, in linea di fatto, il padre o la madre o entrambi siano e si sentano sempre genitori veri e che non vi sia il rischio di un danno (psicologico, educativo, affettivo) se di fatto, la verità biologica venga rinfacciata magari in occasione di una crisi familiare tutt’altro che imprevedibile.
Del resto la preferenza per l’unitarietà delle figure genitoriali, almeno quando si costituisce il rapporto di filiazione, è presente anche nella Costituzione. L’art. 30 Cost. sancisce il “ dovere e diritto dei genitori di mantenere, educare, istruire i figli”. Il costituente pensava certamente ai figli biologici tant’è vero che il testo normativo continua affermando che “ nei casi d’incapacità dei genitori, la legge provvede che siano assolti i loro compiti”. In sostanza la Costituzione vuole che i figli siano mantenuti dai genitori che li hanno generati biologicamente ed impegna la società a mantenerli, educarli e istruirli solo se i genitori non lo fanno. Va segnalato anche l’art. 1 della legge 28 marzo del 2001 n. 149 sull’adozione e l’affidamento dei minori, dove si stabilisce che il minore ha diritto di crescere e di essere educato nell’ambito della propria famiglia.
Qualora si ammettesse la PM eterologa sorgerebbe il problema della facoltà del figlio di conoscere le proprie origini. Come è noto su tale questione gli Stati hanno assunto posizioni differenziate: la Norvegia ha imposto un anonimato assoluto, la Germania e l’Austria configurano la conoscenza delle proprie origini come un diritto umano fondamentale, la Svezia, la Spagna, la Gran Bretagna e la Francia permettono la ricerca delle proprie origini solo per finalità cliniche. In ogni caso l’anonimato assoluto o relativo da un lato protegge l’esigenze degli adulti che hanno donato i gameti, ma dall’altro vorrebbe evitare anche turbamenti e crisi derivanti per il figlio dalla conoscenza del padre e della madre biologici. Nell’articolo 7 sulla Convenzione dei Diritti del Fanciullo si stabilisce che il fanciullo “ha diritto, nella misura del possibile, di conoscere i suoi genitori e di preservare la sua identità, ivi compresa la sua nazionalità, il suo nome, le sue relazioni familiari”. Come si vede la fecondazione eterologa fa sorgere problematiche che possono incidere sul benessere del figlio. Non è dunque irragionevole una legislazione che cerca di assicurare “il meglio” per il figlio consentendo soltanto la fecondazione omologa. La ragione di divieto di PMA eterologa, non dipende solo da un giudizio etico sui comportamenti sessuali, ma dell’esigenza di garantire, nel massimo grado di prevedibilità e della possibilità, il benessere del nuovo essere umano chiamato all’esistenza dalla scienza e dalla tecnica.
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