di Giusella Finocchiaro e Laura Greco Sommario: 1. Premessa 2. Gli ostacoli; 2.1.…
Accesso ai diritti di proprieta intellettuale: il caso IPTV
di Francesco Graziadei Relazione al Convegno organizzato dall’Università Europea di Roma e dalla Luiss Guido Carli, 13 maggio 2011 Le piattaforme di IPTV (Internet Protocol Television) hanno subito negli ultimi anni un forte sviluppo in numerosi Paesi. Si tratta, come noto, di sistemi di distribuzione di servizi audiovisivi che oltre a utilizzare uno specifico protocollo di trasmissione (quello di internet) possiedono una specifica architettura di rete, si “appoggiano” generalmente a reti di comunicazione elettronica fissa a larga o ultra larga banda (fibra ottica, nel migliore dei casi, o ultime evoluzioni dei sistemi di trasmissione su doppino in rame) e distribuiscono servizi audiovisivi in multicast o in unicast (vale a dire, in quest’ultimo caso, completamente interattivi a richiesta). Generalmente l’offerta di servizi di IPTV avviene in modalità c.d. “triple play”, associandosi servizi audiovisivi a servizi di accesso a internet e di telefonia. Ai più tradizionali sistemi di IPTV, cosiddetti “fully managed”, in cui l’operatore “governa” l’accesso dell’utente ad un sistema – ricco ma chiuso – di content delivery, si stanno ora affiancando le forme di distribuzione audiovisiva c.d. Over The Top (OTT), dove l’accesso all’offerta di contenuti avviene sostanzialmente attraverso una connessione internet a banda larga. Lo sviluppo delle piattaforme di IPTV è stato in alcuni Paesi assai consistente. Ad es. la Francia vanterebbe il primato di 5,7 milioni di abbonati, seguita dalla Cina con 4,6 milioni, dagli USA con 4,5 milioni . (cfr. Rapporto dell’Associazione Italiana degli Operatori IPTV, “Dall’IPTV alla Smart Tv, nuove tecnologie e contenuti per il Video On Demand”, gennaio 2011) L’Italia si pone invece fra i Paesi dove la nuova tecnologia e modalità di offerta ha avuto negli ultimi anni uno sviluppo decisamente timido (poco più di 700.000 abbonati nel 2010). Inoltre, i tassi di crescita degli ultimi tre anni, mentre in alcuni Paesi hanno subito una forte accelerazione, da noi si attestano su ritmi molto più lenti (un modesto incremento di circa 100.00 abbonati negli ultimi tre anni). E’ dunque evidente che lo sviluppo e l’affermazione di questi servizi in Italia procede con fatica. Fra le ragioni di un tasso di sviluppo e di crescita così contenuto vene annoverata dagli operatori la difficoltà di accesso ai contenuti (ed alle specifiche modalità di sfruttamento degli stessi, peculiari dei sistemi di IPTV) da distribuire ed offrire ai propri abbonati. Più specificamente, “la effettiva disponibilità e le condizioni di accesso ai diritti Video on Demand (VoD) per contenuti pregiati restano fattori di successo critici per lo sviluppo di offerte a pagamento e free sia per le offerte IPTV che quelle gestite su piattaforme OTT” (Rapporto dell’Associazione IPTV, cit.) Lo stesso regolatore nella Delibera 665/09/CONS (relativa all’ “individuazione delle piattaforme emergenti ai fini della commercializzazione dei diritti audiovisivi sportivi, ai sensi dell’art. 14, del d.lgs. 9 gennaio 2008, n. 9 e dell’art. 10 del regolamento adottato con delibera n. 07/08/Cons.”), a chiusura della relativa consultazione, ha rilevato come “[s]ebbene siano pienamente condivisibili le osservazioni formulate da un operatore in merito al fatto che il successo della piattaforma IPTV sia strettamente legato alla diffusione della banda larga, è anche vero che uno dei motivi per cui tale piattaforma tarda a svilupparsi è riconducibile al limitato accesso ai contenuti premium. A questo riguardo, l’Autorità non condivide la posizione secondo cui, allo stato attuale, un nuovo operatore che voglia vendere servizi via IPTV potrebbe acquistare i relativi diritti senza particolari ostacoli” (Del. 665/09/CONS cit., punto D1.22). In particolare, il mancato accesso ai contenuti pregiati (e – per quanto più specificamente concerne lo sviluppo delle piattaforme IPTV o OTT – ai diritti VoD sugli stessi) si può concretamente configurare secondo modalità diverse. Passando dal più drastico rifiuto di licenza da parte dei Right Owners alla concessione, da parte di questi ultimi, di diritti esclusivi ai licenziatari che comprendano tutte le modalità di sfruttamento, allo strumento delle esclusive negative, mediante il quale anche se non viene ceduto al licenziatario ogni diritto( inclusi quelli per modalità/piattaforme che il licenziatario non esercisce o intende esercire) si inibisce comunque al licenziante di cedere i medesimi diritti a terzi (sostanzialmente “congelando” diritti medesimi). Si osserva difatti che “nel mercato italiano il numero di titoli cinematografici e di altri contenuti premium disponibili per l’inserimento in offerte VoD via IP è fortemente limitato dalla diffusa pratica da parte degli operatori di pay tv su piattaforme DTT e DTH di stipulare accordi di tipo output deal, caratterizzati da clausole di esclusiva o holdback che coprono anche le modalità di sfruttamento VoD” (Rapporto dell’Associazione IPTV, cit. p. 54). Infine nella prassi contrattuale, laddove siano contemplate forme di remunerazione secondo il modello di revenues sharing, possono riscontrarsi clausole di imposizione di minimi garantiti che mal si conciliano con lo stadio di affermazione delle piattaforme IPTV e che possono produrre l’ulteriore risultato negativo (per gli utenti) di ridurre l’offerta di contenuti (i titoli nelle libraries), vista l’esigenza di conseguire il massimo numero possibile di accessi su un singolo contenuto tanto da far fronte ai minimi garantiti e non “disperdere” gli accessi all’interno di una library più ricca. Contro prassi contrattuali come quelle appena richiamate, astrattamente possono individuarsi due tipi di contromisure. La prima è nomativo-regolatoria. E’ il caso dei diritti sugli eventi sportivi garantiti alle piattaforme emergenti dal Dlgs. n.9 del 9.1.2008 (si veda in particolare l’art. 14) oppure di una norma contenuta del Testo Unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici (art. 5, comma 1 lettera f). Quest’ultima però opera solo quando il licenziante sia una emittente o un fornitore di servizi di media audiovisivi e non costituisce un vero e proprio must offer bensì semplicemente un vincolo all’autonomia contrattuale nelle negoziazioni, così da evitare prezzi eccessivi o prassi discriminatorie. La seconda possibilità di intervento sembra offerta dal diritto della concorrenza, come ad esempio nella decisione della Commissione sulla fusione Newscorp – Telepiù (COMP/M.286 del 2.4.2003) dove fra gli impegni che hanno condizionato la fusione fra le vecchie piattaforme Stream e Telepiù figura proprio l’obbligo (limitato ai contenuti premium e ai diritti cinematografici) di rinunciare ad ogni esclusiva, anche negativa, per piattaforme diverse da quella satellitare ed il divieto di inserire negli accordi di licenza con le Majors clausole di esclusiva (anche sotto forma di esclusive negative) relative a diritti diversi dai diritti pay tv (liberando dunque diritti ppv, Nvod e VoD) con riferimento a tutte le piattaforme. Sembra poi interessante richiamare (senza alcuna aspirazione di completezza ed esaustività su un dibattito lungo, complesso e non esaurito) alcune delle acquisizioni della prassi comunitaria in tema di rapporto fra diritto della concorrenza ed esercizio dei diritti di proprietà intellettuale, in quanto le stesse potrebbero offrire degli spunti di riflessione sul tema di cui si sta trattando. Come noto, si tratta di un terreno giuridico sistematico assai delicato, dove si incontrano (o si scontrano) due esigenze che prima facie parrebbero (e sono apparse nei primi orientamenti) opposte e inconciliabili: la promozione della creatività e dell’innovazione mediante la concessione di monopoli (più o meno lunghi, a seconda del parametro brevettale o autoriale della tutela) sulla creazione o sul trovato e la tutela di un mercato competitivo. La soluzione sembrava inizialmente semplice (quasi banale): le privative industriali e intellettuali costituivano una (ontologica e radicale) eccezione al diritto della concorrenza in quanto funzionali alla tutela di un (sovraordinato) valore di promozione (e dunque premio) dell’innovazione industriale e della creatività artistica. Ma, si sa, la semplicità non è di questo mondo. Ci si è allora iniziati ad interrogare su come questo potere monopolistico del titolare veniva concretamente “gestito” , in modo che il titolare non ne facesse un uso distorto (cioè non più in linea con quel balancing di interessi che aveva motivato l’ordinamento nella concessione della privativa). La prima casistica comunitaria, difatti, nel delimitare i confini tra il lecito e l’illecito, fa leva su un uso (esercizio) “fisiologico” del diritto che deve corrispondere alla sua “funzione essenziale” (in questo senso la Corte di Giustizia nelle sentenze del 5ottobre 1988, cause Volvo, 238/87, e Renault, 53/87 ma anche il Tribunale di Prima Istanza nella famosa causa “RTE – Magill”, T-69/89). E’ proprio il caso Magill, però che, nel passaggio fra il TPI e la Corte di Giustizia, registra in pieno il mutato clima che dalla fine degli anni ’80 caratterizza la stessa concezione del mercato unico: non più solo uno territorio senza barriere alla libera circolazione di merci e servizi ma uno spazio economico caratterizzato da forti e sane dinamiche competitive, nell’interesse finale del benessere dei consumatori. E’ il periodo del regolamento comunitario sulle concentrazioni, di molte leggi nazionali sulla concorrenza, del forte impulso di liberalizzazione (i.e. fornitura in un contesto competitivo) di alcuni servizi pubblici fino a quel momento gestiti in monopolio. E anche la Corte di Giustizia (nella sentenza del 6 aprile 1995, cause riunite C-241/91 e C-242/91) legge il caso Magill con occhiali diversi. La preoccupazione non è più tanto quella di evitare un esercizio abusivo (diremmo, “disfunzionale”) del diritto di proprietà intellettuale ma di valutarne, on a case basis, gli effetti sul mercato. E così, nel noto caso relativo alle guide per programmi televisivi, la Corte individua due mercati distinti, verifica che il diritto di proprietà intellettuale nel mercato a monte costituisce una essential facility per l’ingresso nel mercato a valle (dal che discende la posizione dominante) e sanziona il rifiuto di licenza come abuso. E’ allora interessante sottolineare come nel caso Magill un elemento determinante per indurre la Corte ad una valutazione negativa dell’esercizio del IPR (sub specie di rifiuto di licenza) è, oltre alla (più controversa) necessità di individuazione di due mercati (a monte e a valle) e di un possibile effetto di leva fra i due (monopolizzazione o chiusura del secondo mercato grazie alla EF nel primo), proprio l’esistenza di un potenziale mercato nuovo (per dirla con la Corte: “di un prodotto nuovo per cui esiste una domanda potenziale”), rappresentato, nel caso di specie, dalle guide settimanali di programmi televisivi multicanale che all’epoca in Irlanda non erano ancora disponibili sul mercato. In conclusione, ciò che sembra determinare la Corte ad entrare nell’esercizio di un IPR (“a gamba tesa”, confermando la compulsory license della Commissione) è che il diritto non era un qualunque diritto di proprietà intellettuale ma costituiva forte potere di mercato, essendo una infrastruttura essenziale, e che tale potere di mercato era stato usato a svantaggio dei concorrenti e soprattutto a danno dei consumatori, avendo inibito la nascita di un prodotto/mercato nuovo, quindi comprimendo e soffocando l’innovazione. Credo che quest’orientamento, confermato dalla giurisprudenza successiva, anche in negativo, ma usando i medesimi argomenti, come ad esempio nella sentenza della Corte di Giustizia sul noto caso “IMS-Health” (sentenza del 29 aprile 2004, nella causa C-418/01), dove la Corte esclude invece l’abuso, sia chiaramente espresso anche in un recente documento della Commissone europea. Mi riferisco alla comunicazione del 2009 sugli abusi da esclusione (Comunicazione della commissione. Orientamenti sulle priorità della Commissione nell’applicazione dell’articolo 82 del trattato CE al comportamento abusivo delle imprese dominanti volto all’esclusione dei concorrenti, 9.2.2009, C(2009)864 def.). Vi si legge infatti che “[l]a Commissione ritiene, ad esempio, che vi possa essere un danno per i consumatori qualora, in conseguenza del rifiuto, si impedisca ai concorrenti oggetto di preclusione da parte dell’impresa dominante di immettere sul mercato beni o servizi innovativi e/o quando sia probabile che venga frenata l’innovazione successiva. Questo può avvenire, in particolare, se l’impresa che richiede la fornitura non intende limitarsi essenzialmente alla duplicazione dei beni o dei servizi già offerti dall’impresa dominante sul mercato a valle, ma intende produrre beni o servizi nuovi o migliorati per i quali vi sia una domanda potenziale dei consumatori o se è probabile che essa contribuisca allo sviluppo tecnico”. Queste brevi e sintetiche suggestioni non lasciano chiaramente spazio ad una approfondita analisi, che meriterebbe ben alto momento, volta a svolgere nella materia che si sta trattando un compiuto ragionamento sulla base del diritto della concorrenza,. Quest’ultimo per incidere su qualsiasi comportamento dell’impresa (nel cui genus rientrano anche gli atti di esercizio dei diritti di proprietà intellettuale) deve pur sempre passare per una attenta individuazione dei mercati rilevanti (anche al fine di valutare l’esistenza di mercati a valle e a monte, di possibili effetti di leva, della novità di alcuni dei mercati considerati etc.) e per l’identificazione di una impresa in posizione dominante o di accordi o collusioni tra una molteplicità di imprese. Sta di fatto però che il caso del mancato accesso ai diritti VoD per l’IPTV o per la televisione OTT sembra avere dei rilevanti effetti negativi sullo sviluppo tecnologico e sull’innovazione, particolarmente pregiudizievoli per i consumatori. In primo luogo, perché lo stesso sviluppo delle reti a banda larga è condizionato dalla presenza di una offerta di contenuti audiovisivi che per quantità e modalità di fruizione (“luogo e momento scelto dal consumatore” secondo la declinazione del making available right in cui si sostanzia il diritto VoD) stimoli e giustifichi una richiesta di accesso alla rete a banda larga da parte degli utenti. In secondo luogo, perché la mancata disponibilità di diritti VoD priva gli utenti di un servizio nuovo che consente di adeguare la fruizione di contenuti ai tempi ed alle esigenze degli utenti, soddisfacendo dunque un nuovo bisogno. Last but not least, la fruizione di contenuti a richiesta, implicando una scelta per l’utente (la richiesta, appunto) comporta un ruolo socialmente molto più evoluto di fruizione e consumo dei mass media, superando il modello genralista-passivo che sembra (ma non in Italia) ormai destinato a perdere progressivamente di centralità.