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Accesso a informazione e conoscenza nell’era multimediale

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di Gustavo Ghidini Accesso contenutiIl presente contributo costituisce l’introduzione al volume Accesso a informazione e conoscenza nell’era multimediale, a cura di Gustavo Ghidini e Andrea Stazi, Luiss University Press, Roma, 2011. 1. “Esclusione” ed “accesso” (dei terzi) sono i tradizionali “antagonisti” della proprietà intellettuale, e il perno delle dispute, che attorno ad essa si accendono, talora con toni da guerre di religione. Ma sono anche “fratelli”: siamesi anzi, reciprocamente dipendenti. Il potere di escludere i free riders capaci di frustrare investimenti e lavoro del titolare, è lo stesso che consente di includere, e dunque far accedere allo sfruttamento del bene immateriale protetto i terzi collaboratori del titolare (licenziatari, co-venturers, etc.), così che questi potrà avvantaggiarsi di una più ampia gamma di modi di sfruttamento economico del diritto di privativa, rispetto a quello diretto e personale, necessariamente limitato dalle sue individuali capacità industriali e finanziarie… (E del resto, anzi, non è proprio la titolarità del copyright che consente al licenziante Open Source di far rispettare le regole di “condivisione cooperativa” tipiche del sistema?!). D’altra parte, l’accesso dei terzi ai beni in cui le creazioni dell’ingegno umano – sia quelle di fruizione pratica, oggetto di brevetto, sia quelle di fruizione meramente intellettuale, tipicamente oggetto di diritto d’autore – è il culmine e insieme la condizione per la realizzazione concreta, da parte del titolare, del suo interesse economico, e altresì di quello morale – anzitutto all’attribuzione/riconoscimento di paternità della creazione, e della valorizzazione della reputazione come autore o inventore. Ed è al contempo, e ovviamente, la condizione che consente ai terzi il concreto godimento materiale dei beni della vita, ovvero la fruizione intellettuale della nuova “opera dell’ingegno”. 2. L’opera che il nostro “Osservatorio di proprietà intellettuale, concorrenza e comunicazioni” della Luiss Guido Carli qui presenta – e la realizzazione della quale si deve in ampia misura all’impegno e alla passione di Andrea Stazi – raccoglie una riflessione a più voci sulla tematica, cruciale per lo sviluppo insieme economico e democratico della comunità, dell’“accesso” all’informazione, nonché alla conoscenza e fruizione di nuove realizzazioni dell’umano ingegno, oggetto di diritti di proprietà intellettuale – copyright e brevetto. Una riflessione doppiamente moderna: perché è aggiornata alle evoluzioni normative, giurisprudenziali e dottrinali succedutesi, spesso impetuosamente, nell’ultimo decennio. E soprattutto perché riflette una prospettiva ermeneutica sollecitata dall’esigenza di (ri)equilibrare la tutela dei titolari con la garanzia della diffusione della cultura e lo stimolo del progresso culturale – in quell’unità «des sciences, des arts et des métiers» alla quale è consacrata l’Encyclopédie illuminista. L’esigenza, dunque, di valorizzare, oltre a quelli “strettamente” coinvolti nei conflitti interindividuali (fra titolari e imitatori, fra titolari e altri titolari, fra titolari e singoli fruitori non autorizzati), altri interessi d’ordine generale, o se si vuole “di sistema”, ai quali si riferiscono diverse tutele di rango costituzionale. 3. Prima ancora di ricordare alcune evidenze normative a conforto della urgente necessità di provvedere a siffatta esigenza di equilibrio, è opportuno richiamare l’attenzione – proprio a proposito del valore-obbiettivo della diffusione della cultura – su di un tratto differenziale che caratterizza, sul piano effettuale, la tematica dell’accesso dei terzi alle opere dell’ingegno rispetto all’accesso alle invenzioni industriali. L’accesso alla conoscenza di queste ultime è tipicamente interesse di concorrenti: un accesso “rivale”, dunque, che non si accompagna tipicamente ad una “ritrasmissione” diffusa della conoscenza stessa: per ovvie ragioni legate appunto al contesto competitivo. Viceversa, l’accesso alle opere oggetto classico del diritto d’autore, ossia quelle destinate a fruizione culturale e di entertainment (a noi – e alla Costituzione – premono soprattutto le prime), corrisponde tipicamente all’interesse di una platea non solo ben più vasta, potenzialmente illimitata, bensì anche ad una ove i fruitori (dagli studiosi ai musicofili) si fanno “moltiplicatori” delle conoscenze: il raggio delle quali si espande, per l’appunto, per trasmissione/comunicazione sociale diffusa. Questa differenza, dicevo, rende vieppiù rilevante la tutela delle ragioni dell’accesso a queste opere – laddove, per quelle di fruizione utilitaria, provvede abbastanza adeguatamente il paradigma brevettuale, soprattutto attraverso lo “scambio” fra privatizzazione dello sfruttamento economico e pubblicizzazione della conoscenza (conoscenza particolareggiata, grazie all’onere di “sufficiente descrizione” dell’invenzione) che caratterizza il paradigma stesso. 4. Peraltro, è proprio nel campo del diritto d’autore che, come noto, la tensione fra “right” e “access” si è fatta più intensa, e complessa, in conseguenza dell’affermazione delle tecniche digitali di riproduzione e di trasmissione telematica: tecniche che consentono di realizzare e diffondere in “tempi reali” perfette riproduzioni di opere di ogni tipo a platee planetarie di fruitori. Si giustifica dunque, in linea di principio, che le tecnologie di contrasto mediante criptaggio, dunque operanti ex ante (le c.d. misure tecnologiche di protezione, MTP, il profilo tecnologico del più ampio orizzonte del c.d. Digital Rights Management, DRM) siano state avallate dalla normativa comunitaria (Direttiva 2001/29/CE, c.d. sulla “Società dell’informazione” – Infosoc) e poi dai legislatori nazionali (su alcuni tratti del recepimento italiano, v. fra breve), sancendosi la illegittimità di rimozioni non autorizzate dal titolare. Non si giustifica affatto, invece, che la disciplina foggiata in sede comunitaria proponga un modello normativo per più versi squilibrato in danno degli interessi dell’accesso dei terzi (beninteso: dell’accesso “ buono”, corrispondente a interessi di fondamento costituzionale – non all’accesso dei free riders commerciali, sempre da contrastare). Per più versi, dicevo: a) perché la Direttiva, mentre impone agli Stati membri (“shall”: art. 2.1, 3.1, 4.1) di garantire la protezione dei titolari dei diritti d’autore e connessi (anche vietando, come ricordato, la rimozione dei sistemi di criptaggio) consente agli stessi (“may”: art.5.2, 5.3) di riconoscere con piena discrezionalità (salvo un caso) sia nell’an e sia nel quo-modo, limitati (e tassativamente enumerati nel “massimo”) spazi di libertà di accesso dei terzi, “permitted” (sic: considerando 14) ora a titolo gratuito (“eccezioni”), ora dietro compenso (“limitazioni”: rinvio qui al magistrale saggio di Mario Fabiani che apre questo volume); b) perché, come appena accennato, il riconoscimento di siffatte “eccezioni” (un tempo si sarebbe detto “libere utilizzazioni”…) è rimesso alla discrezione dei legislatori nazionali anche quando il godimento di spazi di libertà da parte dei terzi coinvolga valori- obbiettivo di indiscutibile fondamento costituzionale, come la libertà di informazione, di ricerca, di insegnamento; c) perché si sanzionano solo le “forzature” non autorizzate dei sistemi di criptaggio, mentre non una parola è spesa per prevenire o reprimere l’abusiva apposizione di siffatte misure per escludere l’accesso a contenuti che siano in pubblico dominio – in particolare per scadenza dei termini di protezione esclusiva; d) perché la pur facoltativa e limitata previsione di “eccezioni e limitazioni” viene rimessa, quanto a concreta effettiva applicazione, ad un ulteriore vaglio giudiziario – espresso da un c.d. three-step test – per verificare che quello spazio di libertà – pur in linea di principio fruibile – non pregiudichi, in quel particolare caso, gli interessi del titolare (cfr. art. 5.5). 5. È appena il caso di ricordare che la nostra legge sul diritto d’autore mantiene o introduce (dopo la Direttiva Infosoc) diversi “aggravamenti” dell’impostazione protezionistica della normativa comunitaria. Fra gli altri, basti qui richiamare, ad esempio, la limitazione della libertà di riproduzione di testi a fini (anche) di ricerca scientifica a “brani” o “parti” di essi (art. 70.1 LA): limitazione non contenuta nella Direttiva, e intrinsecamente grottesca in relazione alla materia: come si fa a mettere in discussione una dimostrazione matematica citandola “a brani”?! E sempre a proposito di cose grottesche, che dire della “libertà” di pubblicare, attraverso Internet, a scopi – si badi – didattici o scientifici – musiche e immagini, purché “a bassa risoluzione o degradate” (art. cit., 1-bis): per la soddisfazione dei fruitori e degli stessi autori…1 (sui possibili conflitti d’interesse fra autori ed editori v. ancora il cenno infra, § 7). (*) 6. L’impostazione squilibrata della disciplina comunitaria – ed altresì, anche di riflesso, di quella nazionale – si svela anche sotto un profilo diverso. Dette normative non prestano alcuna attenzione ai nuovi modelli di distribuzione e finanche di produzione delle opere dell’ingegno in formato digitale sulle reti telematiche. Modelli di distribuzione e produzione che propongono la condivisione come “leva” dello sviluppo della creatività, in particolare rispetto alle “opere derivate”, moltiplicando l’offerta culturale (vien fatto di evocare il paradosso aritmetico della parabola evangelica dei pani e dei pesci: per moltiplicare si deve [con]dividere…). Nessuna attenzione, dunque, per i modelli di distribuzione c.d. Open Source (che pure, come ricordato, postulano, per l’enforcement delle regole proprie del sistema – la titolarità di copyright in capo al licenziante “originario”). Nessuna, parimenti, per il fenomeno, in (pluriforme) crescita, del c.d. user generated content. Orbene, una tale disattenzione non svela solo un deficit di cultura “industriale “rispetto a modelli di circolazione che un crescente numero di imprenditori ha fatto propri o sui quali, comunque, riesce ad innestare nuove iniziative, trasformando le “minacce” in opportunità. Opportunità, insisto, sia autoriali in senso stretto, sia imprenditoriali: come ben vide, sin dal 2003, quel fogliaccio sovversivo di “The Economist”, allorquando in un suo editoriale auspicò con forza la rimozione delle troppe chiusure che caratterizzano il paradigma legale generale: e proprio allo scopo di «foster creativity in the digital age». 7. Vi è di più. “Scavando”, in materia di diritto d’autore, nella problematica dell’accesso, emerge un profilo poco analizzato, al quale mi limito qui ad accennare (e proporre ai giovani come meritevole di organici approfondimenti): il diverso atteggiarsi dell’interesse dell’autore- persona rispetto a quello degli editori/produttori/distributori che organizzano ed attuano la immissione e circolazione sul mercato delle nuove creazioni intellettuali, rispetto appunto all’interesse del pubblico, e suoi segmenti specifici (studiosi, operatori dell’informazione…) ad una diffusa – permanentemente diffusa – conoscenza delle opere. Mi limito a pochi cenni. Anzitutto sotto l’aspetto “morale”, è abbastanza ovvio osservare che l’interesse dell’autore- persona si dirige verso la massimizzazione illimitata della conoscenza da parte dei terzi, in quanto postulato della massimizzazione della reputazione personale. Quello dell’imprenditore trova un limite fisiologico nella convenienza economica della pubblicazione e circolazione del “prodotto” (come certi manager, as distinguished dagli editori e dai librai veri, chiamano i libri). Ancora: come tutti purtroppo spesso constatiamo, opere importanti, libri di grande spessore culturale, sono “fuori catalogo” dell’editore – di quell’editore che ancora detiene i diritti, magari per decine d’anni. Se le previsioni sul rapporto costi/ricavi lo sconsigliano, l’editore non ripubblica. Né vi è modo di forzare il blocco: se un editore diverso chiede di ripubblicare, il primo può semplicemente replicare “no, tu no” – magari per ragioni di ostilità concorrenziale. Nel copyright, infatti, non vige la regola brevettuale per la quale l’inerzia nel porre, ovvero mantenere sul mercato l’invenzione viene sanzionata con il venir meno dell’assolutezza del potere escludente e con il “passaggio di mano”del diritto di produrre e vendere prima a licenziatari “obbligatori”, poi eventualmente, a tutti gli operatori. E così, tanto per fare alcuni esempi, l’odierno frequentatore di librerie italiane è costretto a stilare un… processo verbale di vane ricerche per opere di narratori come Gorkji, Majakovskji, Pearl S. Buck, Horace McCoy, Dos Passos, Doctorow, etc. etc. – per non parlare di clamorose assenze nella poesia (è sparito Heine!), nel teatro, nella saggistica… Analoghe riflessioni riguardano la traduzione, l’“opera derivata” che per eccellenza accresce il prestigio dell’autore e diffonde la cultura sul piano internazionale. Qui, l’indistinto allineamento della facoltà di tradurre nel novero di quelle garantite da esclusiva per i fatidici 70 anni dalla morte dell’autore – allineamento frutto di un increscioso révirement normativo rispetto all’originaria regola di Berna, che limitava a dieci anni il diritto esclusivo di tradurre – fa sì che anche sotto questo profilo sia la legge del conto economico a prevalere su quella della circolazione della cultura. Di nuovo, l’interesse morale dell’autore e quello conoscitivo del pubblico soccombono a quello aziendale. Rectius, a quello aziendale dell’“originario” editore: senza alcuna garanzia di poter dare luce verde ad altri editori che nel caso concreto potessero attivarsi per diffondere la conoscenza dell’opera sul piano internazionale. La dialettica degli interessi è dunque duplice: fra autori ed editori, e, fra gli editori, fra competitors dinamici e beati possidentes. Qui mi fermo: anche per non rischiare che il mio carissimo amico Mario Fabiani sospetti ch’io voglia seminare zizzania nel composito mondo associativo al quale egli da sempre presta, con tanta intelligente generosità, la sua dottrina… (*) Al di là della “irricevibile” angustia di una simile previsione rispetto agli standard di qualità richiesti – proprio a scopi didattici o scientifici – in certe materie, ad esempio in medicina o nelle arti figurative, risulta decisiva, e probante, l’assenza di una definizione della qualità della risoluzione “originaria” rispetto alla quale individuare una misura accettabile di “bassa risoluzione” o “degradazione”.

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