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La tutela ultramerceologica del marchio di rinomanza. Nota alla sentenza della Corte di cassazione n. 13090, 27 maggio 2013

di Alessio Baldi Nota alla sentenza della Corte di cassazione n. 13090, 27 maggio 2013 (LEGGI LA SENTENZA) Sommario

  1. Iter processuale
  2. Il D.lgs. n. 480/1992 di attuazione della Direttiva n. 89/104/CEE, problemi di successione della legge nel tempo
  3. La tutela ultramerceologica e non, alla luce della Direttiva n. 89/104/CEE e del D.lgs. n. 480/1992
  4. Il marchio che gode di rinomanza e l’attuale articolo 20 lett. c) del Codice di Proprietà Industriale
  5. Conclusioni.

1. Iter processuale.  

La sentenza in commento ribadisce un orientamento giurisprudenziale che deve essere interpretato alla luce del particolare momento storico in cui i fatti di causa si sono svolti. Difatti, l’affermazione che “per i marchi celebri bisogna considerare il pericolo di confusione in cui il consumatore può cadere attribuendo al titolare del marchio celebre la fabbricazione anche di altri prodotti non rilevantemente distanti sotto il piano merceologico” [1], risulta comprensibile se inserita in un contesto normativo come quello oggetto di causa, mentre potrebbe apparire scorretta se letta alla luce della disciplina attuale in materia di tutela ultramerceologica del marchio notorio. E’ opportuna una seppur sommaria ricostruzione dei fatti controversi. Oramai oltre un decennio fa, la nota casa di moda britannica J. Barbour & Sons Ltd (per brevità, Barbour) citava in giudizio due società italiane (rispettivamente, la titolare del segno ritenuto in violazione della privativa di parte attrice e la società licenziataria dello stesso) per contraffazione del proprio marchio, nonché per contestare una loro responsabilità ai sensi dell’articolo 2598 n. 1 e n. 2 del codice civile [2], domandando al contempo la dichiarazione di nullità del marchio concesso alla convenuta. La vertenza in questione, nonostante sia giunta soltanto adesso a definizione [3], ha ad oggetto registrazioni risalenti: al settembre del 1986 quella della Barbour ed al novembre del 1992 quella della convenuta società italiana, titolare di un marchio identico a quello di parte attrice. Il Tribunale di Firenze, partendo dall’assunto che il marchio della Barbour godesse già di notorietà al momento dei fatti oggetto di causa, ha riconosciuto che controparte stava sfruttando la forza evocativa del medesimo segno, attraverso la produzione di articoli corrispondenti a classi merceologiche (la 16 e la 18) diverse da quella coperta dal diritto di esclusiva della Barbour (la 25). [4] Il giudice di prime cure, ritenuto provato l’uso del marchio da parte delle convenute a partire dall’autunno del 1995, posta la notorietà del segno e la sussistenza di affinità tra le classi 25 e 18, ha perciò stabilito l’applicabilità dell’articolo 1 lett. b) e c) della Legge Marchi come modificata dal D.lgs. n. 480 del 1992, così accogliendo le domande di parte attrice circa la distruzione e l’inibitoria di quanto era stato contraffatto. Con la medesima decisione il Tribunale non ha accolto però né la domanda di risarcimento né quella di nullità del brevetto di controparte, in virtù della disciplina transitoria disposta dall’articolo 89 del D.lgs. n. 480 del 1992 [5]. La due società italiane hanno proposto appello contro questa sentenza contestando gravi profili di contraddittorietà della decisione del Tribunale fiorentino – da un lato la riconosciuta illegittimità dell’uso del segno oggetto di giudizio e dall’altro la contestuale dichiarazione di “non nullità” del medesimo (equivalente ad una dichiarazione di legittimità della privativa in sé considerata) – nonché lamentando l’assenza di affinità tra la classe 25 e la classe 18. Poiché tutte queste censure sono state respinte dalla Corte di Appello di Firenze, le due società italiane soccombenti hanno proposto ricorso in Cassazione avverso la decisione di secondo grado, deducendo – in via preliminare – la carenza di motivazione in ordine alla notorietà del marchio, ed inoltre denunciando – nuovamente – i già citati profili di contraddittorietà della sentenza impugnata. La Suprema Corte ha invece accolto un solo motivo di doglianza, presentato in via incidentale dalla Barbour per contestare la mancata dichiarazione di nullità del marchio di controparte, relativo al fatto che già prima della riforma del 1992 era riconosciuta, da parte della giurisprudenza, la protezione dei marchi notori in relazione a prodotti non affini.

2. Il D.lgs. n. 480/1992 di attuazione della Direttiva n. 89/104/CEE: problemi di successione della legge nel tempo

2. Ai fini di una compiuta analisi di questa sentenza è doveroso, in primo luogo, analizzare brevemente le successive modifiche intervenute nella normativa richiamata dai giudici di Cassazione. Il marchio di titolarità della Barbour è stato concesso nel 1986, mentre la registrazione dell’altro identico, della convenuta, risale al novembre del 1992. Posto che il D.lgs. n. 480, emesso al fine di dare attuazione alla Prima Direttiva del Consiglio delle Comunità Europee del 21 dicembre del 1988 sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa (Direttiva n. 89/104/CEE), è entrato in vigore a dicembre del 1992, la Corte di Cassazione ha correttamente definito per la sua non applicabilità al caso di specie. Tuttavia, considerando che al momento in cui si son svolti i fatti la Direttiva era già stata emanata, i giudici della Suprema Corte hanno stabilito che il caso in esame era da decidersi tenendo conto di quanto in essa disposto. In altre parole, la Corte ha affermato che l’ordinamento previgente rispetto al D.lgs. n. 480 del 1992, deve essere interpretato in modo conforme alla direttiva n. 89/104/CEE, adottando per i marchi celebri “un criterio più largo di quello adoperato per i marchi comuni”.[6]

3. La tutela ultramerceologica, alla luce della Direttiva n. 89/104/CEE e del D.lgs. n. 480/1992

Ciò premesso, non è possibile esimersi dal chiarire quali modifiche sono state apportate dalle normative appena citate. Partendo dalla prassi giurisprudenziale nazionale precedente all’entrata in vigore del D.lgs. n. 480 del 1992, si nota che già allora alcune sentenze avevano riconosciuto la protezione dei marchi notori in relazione a prodotti non affini.[7] La tutela ultramerceologica del marchio celebre era riconosciuta dai giudici nazionali e spesso a condizioni non troppo dissimili da quelle di cui alla Direttiva n. 89/104/CEE (e dunque al D.lgs. n. 408 del 1992). Tuttavia, fino all’entrata in vigore della normativa comunitaria appena richiamata, il criterio fondamentale per riconoscere una più ampia protezione al marchio celebre consisteva nel “pericolo di confusione in cui il consumatore medio può cadere attribuendo al titolare del marchio celebre la fabbricazione di altri prodotti, o ritenendo falsamente l’esistenza di legami giuridici o economici fra le due imprese”.[8] Tale requisito della tutela ultramerceologica del marchio celebre era stato, appunto, elaborato dalla giurisprudenza e non trovava riscontro positivo a livello nazionale o sovranazionale.[9] Con la nuova legge del 1992 è stato posto un discrimine tra marchi notori o meno, sia sotto il profilo della sussistenza del rischio di confusione sull’origine del prodotto, sia in merito all’ambito di applicabilità ai prodotti o servizi identici o affini piuttosto che a quelli non affini. In merito al “pericolo di confusione”, il legislatore non ha inserito tale elemento tra i requisiti dell’articolo 1 lett. c) del D.lgs. n. 480 del 1992 così da escluderne la sussistenza al fine di poter garantire ai marchi di rinomanza la tutela “allargata” ivi prevista. Al contrario tale requisito era stato invece inserito nella lett. b) del medesimo articolo, relativamente ai marchi non notori. [10]. Se il legislatore avesse voluto dichiarare necessaria la sussistenza del “rischio di confusione” anche per i marchi notori, non avrebbe certo esitato a legiferare sul punto come ha fatto per i “non notori” di cui alla lettera b), inserendo detto requisito nella norma in oggetto. Tale assenza ha dunque fatto presumere che la tutela ultramerceologica riconosciuta ai marchi notori fosse disposta a prescindere dalla sussistenza del pericolo di confusione per il consumatore.[11] Per quanto concerne l’ambito di applicabilità della tutela in esame, con l’articolo 1 lett. c) del D.lgs. n. 480 del 1992, è stato stabilito che “il titolare [di un marchio notorio] ha il diritto di vietare ai terzi, salvo il proprio consenso, di usare […]”  c) un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi non affini, se il marchio registrato goda nello Stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio”. La norma ha quindi richiamato espressamente i “prodotti o servizi non affini”. Diversamente detta tutela è stata limitata a “prodotti o servizi identici o affini” per i marchi non notori. [12] Da ciò, è sorto il dubbio circa la possibilità di estendere anche ai prodotti o servizi “affini”, la tutela prevista dall’articolo 1 lett. c) a favore dei marchi notori per prodotti o servizi non affini. La dottrina è stata fin da subito (ed a ragion veduta, noti gli sviluppi normativi che sono poi intervenuti sul punto) chiara ad interpretare l’articolo 1 lett. c) nel punto in cui si riferisce solo ai “prodotti e servizi non affini”, nel senso di considerare sottintesa a tale statuizione, la volontà del legislatore di tutelare il marchio notorio anche nei confronti di prodotti o servizi affini a quelli corrispondenti alla registrazione della privativa. [13] Questa interpretazione è coerente con la volontà della Direttiva n. 89/104/CEE, di prevedere una c.d. “tutela allargata” del marchio notorio, anche per un suo uso non confusorio su prodotti affini a quelli per cui il segno è stato registrato [14]. Ciò, a condizione che l’utilizzo fattone sia idoneo a determinare un indebito vantaggio a favore dell’utilizzatore o quantomeno un pregiudizio alla notorietà o alla distintività del segno contraffatto. Il risultato normativo è stato il frutto della volontà, storicamente perseguita dal legislatore comunitario e poi di conseguenza da legislatori nazionali – di estendere l’ambito di protezione del marchio oltre il principio di specialità, così passando da una tutela collegata meramente alla funzione distintiva o d’origine ad una funzione pubblicitaria; il marchio è così venuto ad assumere un intrinseco valore quale “collettore di clientela”. [15]

4. Il marchio che gode di rinomanza e l’articolo 20 lett. c) del Codice di Proprietà Industriale

La Direttiva prima e il D.lgs. n.480 del 1992 poi, si sono posti come prototipi per l’articolo 20 lett. c) del Codice di Proprietà Industriale, che attualmente disciplina la tutela ultramerceologica per i marchi che godono di rinomanza [16]. L’articolo in questione, infatti, nello stabilire che “i diritti del titolare del marchio d’impresa registrato consistono nella facolta’ di fare uso esclusivo del marchio. Il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nell’attività economica […] c) un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi”, statuisce proprio che la caratteristica fondamentale di tale tutela è quella di non essere minimamente condizionata dalla sussistenza o meno del rischio di confusione sull’origine né dalla presenza o assenza di affinità tra prodotti o servizi; ciò, purché tuttavia sussistano situazioni di agganciamento parassitario al marchio notorio oppure effetti pregiudizievoli per il medesimo segno [17]. Per quanto attiene alla estensione merceologica di detta tutela, la norma in esame ha eliminato qualsiasi dubbio circa la sua applicabilità ai casi di affinità o non affinità di prodotti o servizi. Aver espressamente introdotto nell’articolo 20 lett. c) la parola “anche” in riferimento ai prodotti e servizi non affini ha certamente chiarito che la protezione merceologica è estesa sia oltre sia nell’ambito della o delle classi per cui un marchio è registrato.

5. Conclusioni

In conclusione, in presenza di un marchio che gode di rinomanza, si deve soltanto considerare se l’identità o somiglianza dei segni distintivi posti a raffronto comporti o meno, anche in alternativa tra loro: 1) il pregiudizio all’immagine del marchio derivante da un indesiderato accostamento; 2) l’indebito e ingiustificato vantaggio conseguito parassitariamente dal contraffattore. [18] Dunque, la sentenza che ci occupa nel considerare il rischio di confusione come requisito necessario per il riconoscimento della tutela ultramerceologica dei marchi notori o di rinomanza, richiama – a ragione – la disciplina applicabile al caso di specie al momento in cui si è verificata la violazione oggetto di controversia, cioè nel particolare momento dopo l’emanazione della Direttiva ma prima del suo recepimento con il Decreto legislativo. Ed in tale ottica soltanto deve essere considerata.

Note

[*] Il presente contributo è stato preventivamente sottoposto a referaggio anonimo affidato ad un componente del Comitato di Referee secondo il Regolamento adottato da questa Rivista. [1] Così I. Nocera, Una tutela più ampia per i marchi celebri, Diritto & Giustizia, Giugno 2013. Per un inquadramento circa la tutela ultramerceologica dei marchi che godono di rinomanza, Diritto industriale, proprietà intellettuale e concorrenza, quarta edizione, TORINO, 2012, P. 182. [2] Si riporta il testo integrale dell’articolo 2598 c.c. “atti di concorrenza sleale. Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque: 1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente; 2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinare il discredito o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente; 3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”. [3] I giudici della Suprema Corte hanno cassato la sentenza impugnata, decidendo per il suo rinvio alla Corte d’Appello di Firenze, affinché quest’ultima emetta una nuova decisione ridefinendo il merito della controversia. [4] La registrazione della convenuta ed anche i prodotti di fatto realizzati dalla stessa, ricadevano nelle classi 16 e 18 (cartolibreria, pelletteria, valigeria, etc.) a differenza di quanto tutelato con la registrazione della Barbour per la classe 25 (abbigliamento, scarpe e cappelleria). [5] Si legge nella sentenza della Corte di Cassazione n. 13090 del 2013, che il Tribunale di Firenze ha ritenuto non accoglibile la domanda di nullità “ostandovi la norma transitoria dell’art. 89 D.lgs. 480/92 che, per i marchi concessi prima dell’entrata in vigore della nuova normativa, rinviava alle norme precedenti, non contemplanti le ipotesi di nullità invocate dall’attrice”. [6] In tal senso la Corte di Cassazione ha così enunciato il principio di diritto (che la Corte di Appello di Firenze, quale giudice del rinvio dovrà tenere presente per la sua futura decisione nel merito della controversia): “la sentenza impugnata va pertanto cassata in relazione alla censura accolta  […] con rinvio […] alla Corte d’Appello di Firenze in diversa composizione che dovrà valutare – dandone atto con adeguata motivazione – circa l’esistenza di un rapporto di affinità tra i prodotti cui si riferisce il marchio della Barbour Ltd e quelli cui si riferisce il marchio [di controparte] tenendo conto del principio di diritto […] che il giudizio di affinità di un prodotto rispetto ad altro, coperto da marchio notorio o rinomato, deve essere formulato, secondo il sistema previgente interpretato in modo conforme alla direttiva n. 89/104/CEE secondo un criterio più largo di quello adoperato per i marchi comuni”. [7] Si veda quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 2060 del 1983: “i marchi celebri, pur esplicando prevalentemente funzione distintiva del prodotto, specie quando si risolvono nel nome patronimico dell’imprenditore, tendono altresì a diffondere e far conoscere la provenienza dei prodotti o merci al consumo e vengono presi in considerazione dal pubblico per ricollegarvi non solo un prodotto, ma un prodotto di qualità soddisfacente. Essi, pertanto, estendono il campo di protezione al di là dei prodotti uguali o strettamente affini (secondo la nozione di affinità che interessa i marchi ordinari), dovendosi al loro riguardo accogliersi una nozione più ampia di affinità che tenga conto del pericolo di confusione, in cui il consumatore medio può cadere attribuendo al titolare del marchio celebre la fabbricazione di altri prodotti ovvero ritenendo falsamente l’esistenza di legami giuridici od economici tra le due imprese, sempre che non esista una rilevante distanza merceologica tra il vecchio ed il nuovo prodotto ovvero l’uno o l’altro siano altamente specializzati”. [8] In tal senso, ibidem, Cass. 2060/1983: “la protezione del marchio celebre, da realizzare secondo una nozione di affinità più ampia che tenga conto del pericolo di confusione in cui il consumatore medio può cadere attribuendo al titolare del marchio celebre la fabbricazione di altri prodotti, o ritenendo falsamente l’esistenza di legami giuridici o economici fra le due imprese, non ha luogo, né ove esiste una rilevante distanza merceologica fra il vecchio e il nuovo prodotto né qualora l’uno o l’altro prodotto siano altamente specializzati.” [9] Autorevole dottrina si era espressa a riguardo affermando che “nel vigore della vecchia legge un rischio di confusione non era esplicitamente contemplato come elemento costitutivo della fattispecie illecita, e tanto meno vi si parlava di una confondibilità sull’origine”, La nuova legge marchi, seconda edizione aggiornata con i d.lgs. nn. 198/96 e 447/99, A. VANZETTI, C. GALLI, MILANO, 2001, P. 27. In merito si veda anche la sentenza n. 2060 del 1999 con la quale si è pronunciata la Corte di Cassazione affermando che “Il giudizio di “affinità” di un prodotto rispetto ad un altro coperto da un marchio notorio o rinomato deve essere formulato – anche nel sistema normativo previgente alle modifiche introdotte con il d.lgs. n. 480 del 1992, e così come da interpretarsi conformemente alla direttiva n. 89/104/Cee – secondo un criterio più largo di quello adoperato per i marchi comuni. In relazione ai marchi cosiddetti “celebri”, infatti, deve accogliersi una nozione più ampia di “affinità” la quale tenga conto del pericolo di confusione in cui il consumatore medio può cadere attribuendo al titolare del marchio celebre la fabbricazione anche di altri prodotti non rilevantemente distanti sotto il piano merceologico e non caratterizzati – di per sé – da alta specializzazione”. [10] Si riporta integralmente il testo dell’articolo 20 del Codice di Proprietà Industriale: “diritti conferiti dalla registrazione. 1. I diritti del titolare del marchio d’impresa registrato consistono nella facolta’ di fare uso esclusivo del marchio. Il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nell’attività economica: a) un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato; b) un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identita’ o somiglianza fra i segni e dell’identita’ o affinita’ fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che puo’ consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni; c) un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi. 2. Nei casi menzionati al comma 1 il titolare del marchio può in particolare vietare ai terzi di apporre il segno sui prodotti o sulle loro confezioni; di offrire i prodotti, di immetterli in commercio o di detenerli a tali fini, oppure di offrire o fornire i servizi contraddistinti dal segno; di importare o esportare prodotti contraddistinti dal segno stesso; di utilizzare il segno nella corrispondenza commerciale e nella pubblicità. 3. Il commerciante può apporre il proprio marchio alle merci che mette in vendita, ma non può sopprimere il marchio del produttore o del commerciante da cui abbia ricevuto i prodotti o le merci”. [11] In merito si veda, per tutte, “Adidas-Salomon del 23 ottobre 2003, pronunciata dalla Corte di Giustizia della Comunità Europea nel procedimento C-408/01, nel punto in cui conclude affermando che “la tutela prevista dall’art. 5, n. 2, della direttiva 89/104 non è subordinata alla constatazione di un grado di somiglianza tra il marchio notorio e il segno tale da generare, nel pubblico interessato, un rischio di confusione tra gli stessi. E’ sufficiente che il grado di somiglianza con il marchio notorio ed il segno abbia come effetto che il pubblico interessato stabilisca un nesso tra il segno ed il marchio d’impresa”. Conclusione peraltro in linea con quanto attualmente pacifico per i marchi di rinomanza alla luce dell’articolo 20 lett. c del Codice di Proprietà Industriale ed anche con la giurisprudenza maggioritaria. In tal senso, chiaro era l’orientamento dei giudici comunitari già dalla fine degli anni ’90; si veda per tutte la decisione del 14 settembre 1999 emessa nella causa C-375/97. “La fattispecie [i marchi che godono di rinomanza] rappresenta uno scavalcamento del principio di relatività e della stessa possibilità di confusione, attribuendo a certe condizioni la capacità di sottrarre novità, e quindi un potere invalidante, a marchi anteriori registrati per prodotti o servizi non affini”, così in Manuale di diritto industriale, A. VANZETTI, V. DI CATALDO, MILANO, 2012, p. 203. [12] Sul punto si veda la sentenza Davidoff del 9 gennaio 2003, pronunciata nel procedimento C-292/00, con la quale è stato ribadito in merito all’ambito di applicazione dell’articolo 5.2 della Direttiva, l’orientamento della medesima Corte sulla “questione se il testo dell’art. 5, n. 2, della direttiva, in quanto si riferisce espressamente soltanto all’uso di un segno per prodotti o servizi non simili, osti all’applicazione di tale disposizione anche in caso di uso del segno per prodotti o servizi identici o simili. 24. A questo proposito occorre subito rilevare che l’art. 5, n. 2, della direttiva non dev’essere interpretato esclusivamente alla luce del suo testo, ma anche in considerazione dell’economia generale e degli obiettivi del sistema del quale fa parte. 25. Orbene, in considerazione di questi elementi, non si può fornire del detto articolo un’interpretazione che comporti una tutela dei marchi notori minore in caso di uso di un segno per prodotti o servizi identici o simili rispetto al caso di uso di un segno per prodotti o servizi non simili”. [13] Così si è espresso A. Vanzetti, affermando che “anche se questa disposizione è dettata per estendere merceologicamente la protezione del marchio rinomato a prodotti o servizi non affini a quelli per i quali è stato registrato, sembra ragionevole ritenere che essa posso a più forte ragione trovare applicazione nell’ipotesi in cui i prodotti o i servizi del contraffattore siano dello stesso genere di quelli del titolare del marchio e, ciò nonostante, non vi sia pericolo di confusione, purché si verifichino le condizioni cui il legislatore subordina l’operatività della norma e cioè da una parte la notorietà del segno imitato e dall’altra parte l’esistenza di un pregiudizio o di un approfitta mento”, in La nuova legge marchi, seconda edizione aggiornata con i d.lgs. nn. 198/96 e 447/99, A. VANZETTI, C. GALLI, MILANO, 2001, P. 40; sul punto si veda anche Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza  a cura di L. C. Ubertazzi, G. E. SIRONI, PADOVA, P. 890. [14] Sul punto ibidem, sentenze Davidoff e Adidas-Salomon. [15] In Italia il marchio ha sempre assunto la funzione di indicazione di origine del prodotto o servizio fornito da una determinata impresa, poiché il segno distintivo è sempre stato collegato inscindibilmente a quest’ultima. In relazione al principio di specialità si veda Il diritto dei marchi. Marchio nazionale e marchio comunitario, G. SENA, MILANO, 2007, P. 147 e ss.. [16] E’ opportuno sottolineare che la specifica disciplina a favore dei marchi di rinomanza è giustificata in considerazione del vantaggio che il terzo può conseguire dall’adozione di un segno distintivo che “è già nell’orecchio del pubblico”: risparmiando per l’affermazione del suo prodotto sul mercato e godendo degli effetti derivanti dall’agganciamento parassitario alla buona fama del titolare della privativa. Il quale potrà così subire un “offuscamento dell’immagine del suo marchio per l’adozione di esso da parte del terzo per prodotti non affini, ma di natura vile, di qualità scadente o comunque non in linea con l’immagine connessa al marchio; sia [un] indebolimento del carattere distintivo del marchio a causa del venire meno della sua unicità sul mercato, sul punto si veda Manuale di diritto industriale, A. VANZETTI, V. DI CATALDO, MILANO, 2012, p. 263; Diritto industriale, proprietà intellettuale e concorrenza, quarta edizione, TORINO, 2012, P. 74 E ss.. [17] La legge non dice espressamente cosa si debba intendere per marchio che goda di rinomanza. Autorevole dottrina si è espressa in merito affermando che “si potrebbe perciò pensare che la rinomanza sia un dato da accertare di volta in volta, ad esempio mediante indagini demoscopiche dirette a stabilire quale percentuale del pubblico conosce un determinato marchio”, così in Manuale di diritto industriale, A. VANZETTI, V. DI CATALDO, MILANO, 2012, p. 261. Si riporta l’articolo 20 lett. c) per esteso: “diritti conferiti dalla registrazione. 1. I diritti del titolare del marchio d’impresa registrato consistono nella facolta’ di fare uso esclusivo del marchio. Il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nell’attività economica: a) un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato; b) un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identita’ o somiglianza fra i segni e dell’identita’ o affinita’ fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che puo’ consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni; c) un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi. 2. Nei casi menzionati al comma 1 il titolare del marchio può in particolare vietare ai terzi di apporre il segno sui prodotti o sulle loro confezioni; di offrire i prodotti, di immetterli in commercio o di detenerli a tali fini, oppure di offrire o fornire i servizi contraddistinti dal segno; di importare o esportare prodotti contraddistinti dal segno stesso; di utilizzare il segno nella corrispondenza commerciale e nella pubblicità. 3. Il commerciante può apporre il proprio marchio alle merci che mette in vendita, ma non può sopprimere il marchio del produttore o del commerciante da cui abbia ricevuto i prodotti o le merci”. [18] In tal senso si veda Codice della Proprietà Industriale, A. VANZETTI, Milano, 2013, pagg. 368 e segg.; Protezione allargata del marchio di rinomanza e prodotti affini, in Rivista di diritto industriale, G. SOTRIFFER, 2010, pag. 5. Scarica il quaderno Anno III – Numero 2 – Aprile/Giugno 2013 [pdf]

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