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Il nuovo ruolo degli utenti nella generazione di contenuti creativi

di  Marco Scialdone Sommario:

  1. Premessa.
  2. La nozione di User Generated Content: problemi definitori.
  3. User Generated Content tra diritto d’autore e libertà di espressione.
  4. Gli utenti come “sperimentatori”: l’innovazione senza permesso.
  5. Conclusioni: uno sguardo sul futuro (prossimo), il ritorno dei makers.

1. Premessa. 

La digitalizzazione dell’informazione, da un lato, e la sempre maggiore penetrazione delle reti di comunicazione elettronica, dall’altro, hanno alterato in modo significativo il modo in cui le persone creano, distribuiscono, usano e accedono alle informazioni [1]. A tal proposito in dottrina si è parlato di un rinascimento digitale, perché i linguaggi abilitati dalle nuove tecnologie “pervadono l’orizzonte della co-evoluzione fra sistema dei media (nella sua compatezza e discontinuità tra old e new media) e società; innescano un cambiamento socio-antropologico in direzione postumana che riguarda la “forma persona”, elaborano il senso che presiede alle dinamiche relazionali e neo-tribali” [2]. Questa mutazione dei comportamenti ha posto in crisi la tradizionale dicotomia produttore/consumatore, originando la figura del “prosumer” [3], produttore e consumatore al tempo stesso. A livello sociale, si è assistito all’emersione di culture partecipative che hanno trovato nel crescente diffondersi di piattaforme di disintermediazione per la distribuzione di contenuti (Youtube, Flickr, Soundcloud, Facebook, Twitter ecc) il loro ideale terreno di coltura. È in un simile ambiente digitale che l’esplosione dei contenuti generati (o “rigenerati”) dagli utenti (c. d. User Generated Content – UGC) ha consentito di sperimentare forme nuove di partecipazione attorno alla condivisione di informazioni e pratiche di intrattenimento, innovando le occasioni di produzione culturale. Capire queste culture partecipative consentirà di capire i rapporti futuri tra istituzioni e cittadini, fra consumatori e mercato: ecco perché risulta decisiva la figura dell’user, evoluzione del consumatore dell’era analogica, il quale non si pone più quale soggetto passivo rispetto ai beni che acquista o di cui fruisce ma che pretende di interagire con gli stessi, di manipolarli, alterarli, sperimentarne le potenzialità e, se del caso, immaginarne di nuove, non concepite dallo stesso produttore.

2. La nozione di User Generated Content: problemi definitori. 

L’espressione “contenuti generati dagli utenti” (in inglese, “user generated content” o, in forma abbreviata, “UGC”) inizia a diffondersi nel 2005 in concomitanza con il successo di piattaforme web caratterizzate dalla presenza di contenuti realizzati al di fuori del circuito professionale e rispetto ai quali gli utenti assumono un ruolo attivo. Nel report OCSE del 2007 “Partecipative Web: User-Generated-Content” [4] sono stati, per la prima volta, individuati i tre tratti caratterizzanti degli UGC: 1) l’essere contenuti messi a disposizione del pubblico tramite la Rete Internet; 2) che siano in grado di riflettere un certo grado di sforzo creativo, e 3) che siano creati al di fuori di circuiti professionali [5]. Si tratta di una definizione certamente utile e che ha il pregio di circoscrivere il fenomeno distinguendolo, al contempo, da quello dei semplici “contenuti caricati dagli utenti” rispetto ai quali non è presente alcuno sforzo creativo, sia pur minimo, e ci si limita a condividere online contenuti realizzati da terzi (quasi sempre di tipo commerciale). I contenuti generati dagli utenti, dunque, in linea di principio, sono creati fuori dall’ambito di attività economiche o professionali per motivazioni che possono essere di diversa natura: da quella prettamente filantropica [6], a quella di autoaffermazione [7] o, ancora, a quella di appartenenza ad una community o al desiderio di crearla. In secondo luogo, come detto, gli UGC devono essere il frutto di un contributo dell’utente, pur residuando un margine di incertezza su quale sia il livello di sforzo creativo necessario affinché un certo contenuto caricato sul web possa dirsi “generato dall’utente” [8]. Secondo l’approccio della scienza sociologica [9], nella definizione di UGC viene fatto rientrare qualsiasi contenuto che rifletta i gusti e la personalità dell’utente e, dunque, anche quelli che costituiscono semplicemente il frutto di un lavoro di selezione e valorizzazione di materiali esistenti. Più di recente, anche in considerazione del tempo intercorso, ci si è interrogati sul permanere della validità della definizione [10] elaborata dall’OCSE nello studio sopra citato o, se al contrario, la stessa necessiti di un aggiornamento alla luce dell’evoluzione degli strumenti tecnologici e delle piattaforme di diffusione online delle informazioni. Sotto tale profilo, gli studi più recenti [11] suggeriscono di pensare agli UGC come ad una serie di sequenze ininterrotte, due delle quali di maggiore importanza: la sequenza dell’impegno e quella della professionalità. Nel rapporto OFCOM del 21 giugno 2013, “The Value of User-Generated Content”, ai fini di una definizione maggiormente flessibile, si suggerisce l’adozione dei seguenti criteri: − La presenza di uno sforzo che conduca alla creazione di un contenuto mediale: testo, audio, video, giochi, dati o software oppure una combinazione di essi; − Il contenuto di cui al punto che precede venga reso disponibile sul web o altre piattaforme connesse in rete; − L’attività di produzione del contenuto, pur non essendo prettamente amatoriale, non rappresenti la principale fonte di guadagno per l’autore. Come si può notare, la principale novità definitoria è rappresentata dal fatto che si prende atto che il fenomeno degli UGC non sia più relegato entro gli angusti confini dell’amatorialità, ma possa essere anche il frutto di un’attività professionale (sia pur non direttamente retribuita) che si avvalga della viralità del contributo come forma di promozione o di incremento della propria reputazione online.

3. User Generated Content tra diritto d’autore e libertà di espressione. 

Passando ora all’analisi giuridica del fenomeno degli User Generated Content, essa si presenta di particolare interesse perché in grado di ricomprendere tutte le problematiche emerse in seguito alla digitalizzazione delle opere dell’ingegno, con particolare riferimento alla disciplina dettata in materia di diritto d’autore (o copyright, nell’esperienza anglosassone) e al suo potenziale conflitto con nuove modalità di manifestazione del pensiero. Se per lungo tempo si è guardato al diritto d’autore come al “motore stesso della libertà di espressione” [12], è giusto interrogarsi se tale connubio resti ancora valido o se, al contrario, il mutato contesto tecnologico non sia tale da generare potenziali situazione di frizione (o finanche di contrapposizione) tra tutela autoriale e nuove modalità comunicative abilitate dalla Rete. Se guardiamo alla storia del diritto d’autore, non si potrà che convenire che essa è sempre stata profondamente intrecciata allo sviluppo tecnologico: a fronte di una “nuova tecnologia” in grado di rendere agevole la produzione di copie a partire dall’originale, si è storicamente chiesto al legislatore di ricreare quella scarsità della risorsa che, altrimenti, sarebbe andata irrimediabilmente persa con conseguente decremento del suo valore di mercato. Rispetto, infatti, alla normale evoluzione del diritto, che comincia a formarsi più di duemila anni fa, il diritto d’autore affonda le sue radici nell’età moderna, allorquando con l’invenzione della stampa e con la conseguente crescita dell’attività editoriale si determina il prodursi di forti interessi economici legati alla circolazione di un elevato numero di esemplari stampati. Può ben dirsi, a tal proposito, che la regolamentazione della riproduzione e della circolazione delle opere ha preceduto il formarsi di un complesso normativo organico preposto alla tutela delle opere dell’ingegno. L’importanza della stampa fu tale che per lungo tempo l’evoluzione del diritto d’autore coincise con quella dei cosiddetti “privilegi librari” predecessori dell’attuale diritto di riproduzione [13]. Allo stesso modo la storia moderna del diritto d’autore è quella che si sviluppa a partire dalla diffusione di una nuova tecnologia: Internet. Ancora una volta è l’avvento di questa “nuova tecnologia” (come fu la stampa a caratteri mobili nel 1450) a scuotere dalle fondamenta l’assetto normativo, a metterlo in dubbio e, dunque, ad originare la richiesta di nuove regole che siano in grado di “ricreare la scarsità”. Tuttavia, se la stampa consentì, per la prima volta nella storia dell’umanità, una facile riproduzione dei contenuti, la digitalizzazione delle opere dell’ingegno e la loro diffusione tramite Internet hanno prodotto un risultato ulteriore: hanno reso possibile un’interazione con il prodotto culturale fino a quel momento completamente sconosciuta. In estrema sintesi, sono stati abilitati nuovi comportamenti di consumo. Si assiste al passaggio da quella che il Prof. Lawrence Lessig ha definito Read Only Culture, ovverosia una cultura di sola fruizione dei contenuti, ad una Read-Write Culture, in cui gli stessi contenuti fruiti diventano la base per nuove creazioni [14]. Vi è di più: la facilità con cui le tecnologie consentono una simile manipolazione (tant’è che si può parlare di una Remix Culture, una cultura del remix) trasforma siffatte “variazioni sul tema” in una vera e propria forma di linguaggio, nell’espressività delle nuove generazioni. Si pensi alle Fan Fiction [15], agli Anime Music Video [16], al Machinima [17] ed in generale all’uso dei software di editing audio/video per la creazione di contenuti cosiddetti generati dagli utenti Pur essendo tecnicamente collocabili, secondo il prevalente orientamento dottrinario e giurisprudenziale, all’interno di quelle che la normativa internazionale e nazionale individua come opere derivate [18] (e che, dunque, subordina al preventivo consenso dell’autore [19] ) appare di tutta evidenza quanto riduttivo sia limitarsi ad inquadrare come tali i fenomeni sopra descritti e, conseguentemente, condannarli come “atti di pirateria”. Si tratta, al contrario, di nuovi linguaggi, che non aggrediscono i diritti dell’autore, ma parlano attraverso di essi. Sono le citazioni dell’era digitale. L’obiezione che potrebbe essere mossa a siffatto ragionamento è che il diritto d’autore già prevede al suo interno meccanismi di bilanciamento, rappresentati dalle disposizioni in materia di utilizzazioni libere, ovverosia quelle norme che pongono un limite alle prerogative esclusive dell’autore laddove sussista un interesse superiore della collettività alla libera fruizione dell’opera o di parte di essa (si pensi alle eccezioni in materia di diritto di cronaca [20], a quelle relative agli usi didattici o per finalità di critica o di discussione [21] ). Purtuttavia tali disposizioni appaiono del tutto inadeguate o insufficienti rispetto al mutato contesto tecnologico e necessiterebbero di un radicale ripensamento al fine di mantenerne inalterata la finalità principe. Non a caso già nel 2008 la Commissione Europea pubblicava il libro verde “Il Diritto d’Autore nell’economia della conoscenza”, avente lo scopo di dibattere sul ruolo che il Diritto d’Autore era chiamato ad interpretare nella produzione culturale e sulla necessità di modificare la normativa vigente al fine di garantire la libera diffusione online della conoscenza per la ricerca, la scienza e l’insegnamento. La prima parte del libro verde esponeva questioni generali relative alla direttiva 2001/29/CE, riguardanti le eccezioni ai diritti esclusivi. La seconda parte verteva, invece, sulla necessità di riformare le eccezioni e limitazioni in merito alla circolazione del sapere in vista della digitalizzazione della comunicazione. In particolare, si chiedeva espressamente agli stakeholder la loro opinione circa l’eventuale introduzione di un’eccezione per i contenuti generati dagli utenti [22]. Per quanto concerne quest’ultimo argomento, come noto, la direttiva 2001/29/CE non prevede alcuna eccezione riguardante l’uso di materiale protetto per generare opere nuove o derivate [23]. In verità, a parere di chi scrive, l’introduzione a livello comunitario (tuttavia con carattere vincolante per gli stati membri in sede di recepimento) di un’eccezione per i contenuti generati dagli utenti sarebbe ormai fondamentale per permettere la piena legittimazione e “legalizzazione” di un fenomeno culturale che non può essere relegato ai margini della discussione giuridica [24].

4. Gli utenti come “sperimentatori”: l’innovazione senza permesso.  

Se nel paragrafo precedente si è preso in considerazione l’utente come creatore di opere dell’ingegno “remixate”, va detto che la sua progressiva emersione nel mondo della proprietà intellettuale è avvenuta e sta avvenendo anche sotto un diverso profilo: quello di sperimentatore/innovatore senza permesso, con particolare riferimento al mondo del software (inteso in senso lato e, dunque, comprensivo anche dei giochi elettronici – c. d. Videogames [25] ). Non si tratta, invero, di un fenomeno del tutto inedito: negli Stati Uniti la produzione di massa dell’acciaio intorno al 1870 e l’invenzione dei personal computer negli anni Settanta furono precedute da lunghi periodi di sperimentazione aperta alle sollecitazioni degli utenti, oltre che dei tecnici.”In tutti questi casi la tecnologia trovò un’applicazione pratica ed emersero rapidamente nuovi settori, dal momento che i tecnici discutevano apertamente delle loro sperimentazioni e le condividevano liberamente” [26]. Più di recente, la Lego, grande multinazionale dei giocattoli, è diventata un modello di come si possa coinvolgere gli utenti nella co-creazione e nella co-innovazione dei propri prodotti: quando nel 1998 fu lanciato sul mercato il prodotto Lego Mindstorm [27], gli addetti marketing rimasero sorpresi nello scoprire che questi giocattoli riscuotevano un grande successo soprattutto tra gli hobbisti adulti che ne modificavano le caratteristiche, smontando, rimontando e riprogrammando i sensori, i motori e gli strumenti di controllo che stavano alla base del sistema automatico di Mindstorm. Come si riferisce nel volume Wikinomiks, “quando gli utenti inviarono i loro suggerimenti a Lego, l’azienda inizialmente minacciò di trascinarli in Tribunale. Gli utenti si ribellarono e, alla fine, l’azienda cedette, tanto che integrò le loro idee nel prodotto. Anzi inserì addirittura il “diritto alla manipolazione” all’interno della licenza del software di Mindstorm, autorizzando esplicitamente gli hobbisti a scatenare la loro creatività” [28]. Oggi la Lego utilizza il sito www. mindstorms. lego. com per incoraggiare gli utenti a manipolare il suo software ai fini di sperimentazione. Sul sito è, infatti, presente un vero e proprio kit di sviluppo software scaricabile gratuitamente e risultano, al contempo, pubblicate le descrizioni delle creazioni degli utenti basate su Mindstorm, nonché il codice software. Ad analogo processo (con trasformazione dell’utente da mero fruitore e innovatore/sperimentatore) si è assistito con riferimento ai videogames dove fin da subito i giocatori si sono mostrati desiderosi di portare l’esperienza e la trama del gioco al di là dei parametri approntati dal produttore, arricchendo gli scenari di gioco con nuovi oggetti, nuove sfide o nuove scelte [29]. La tematica del contributo apportato dai giocatori alla sequenza del gioco è stato affrontato per la prima volta in modo diretto nell’opinion di una corte d’appello federale degli Stati Uniti nel caso Microstar v. Formgen, Inc. [30]. In questo caso la Corte ha affrontato il tema della qualificazione giuridica dei livelli aggiuntivi generati dai giocatori del videogame “Duke Nukem”. L’originario produttore aveva incoraggiato i giocatori a creare e a scambiare livelli aggiuntivi oltre quelli già programmati nel gioco. Una società terza aveva raccolto questi livelli aggiuntivi e li aveva messi in vendita senza il consenso del produttore originario: i livelli aggiuntivi erano costituiti da file “MAP” che richiamavano elementi grafici dalla libreria di immagini standard del gioco, e solo tali MAP files, non i file degli elementi grafici proprietari, erano stati copiati. Nonostante questo, la Corte affermò che i livelli creati dai giocatori costituivano una forma di opera derivata dal gioco, ritenendo che i MAP files potessero essere paragonati a dei “sequel” letterari: conseguentemente, come nella narrazione, chi li aveva sviluppati originariamente aveva il diritto di controllarne la distribuzione [31]. I due casi sopra citati evidenziano un tratto comune: l’utente non vuole soltanto ricevere una proposta commerciale, un prodotto di cui fruire. Egli, al contrario, vuole essere parte attiva che usa il bene in quanto instrumentum per la soddisfazione di un bisogno altro. Da qui nasce il c. d. dilemma del prosumo [32]: le aziende devono permettere ai clienti, mediante l’adozione di apposite licenze, di manipolare liberamente i prodotti (correndo il rischio di vedere cannibalizzato il proprio business), oppure combattere legalmente i comportamenti abilitati dalle tecnologie informatiche e che rappresentano una violazione della loro proprietà intellettuale (con gravi contraccolpi sulla propria reputazione e ponendo un freno all’innovazione dal basso)? Il futuro sarà caratterizzato da piattaforme hacker-friendly che lascino fare ai clienti tutto ciò che vogliono, attingendo così ad uno sconfinato bacino di innovazione gratuita. Sotto tale profilo il fenomeno dell’hacking non può essere arginato perché, lungi dal porsi come atteggiamento di contrasto all’altrui proprietà intellettuale, è oggi modalità alternativa di “consumo” del bene che si è acquistato.

5. Conclusioni: uno sguardo sul futuro (prossimo), il ritorno dei makers. 

Cosa ci aspetta nel futuro? Quale sarà il ruolo degli users e come si evolverà la loro interazione con i prodotti di cui sono acquirenti? Lo scenario più affascinante è quello fornito da Chris Anderson [33] nel suo recente volume “Makers, il ritorno dei produttori. Per una nuova rivoluzione industriale” nel quale l’user diventa producer. L’avvento delle stampanti 3D, secondo Anderson, consentirà di completare la rivoluzione del DIY (do it yourself) cara alla cultura “punk” [34]: il consumatore, dapprima mutatosi geneticamente in utente grazie all’avvento delle tecnologie digitali, completerà la sua trasformazione divenendo egli stesso produttore di quei beni di cui necessiterà di volta in volta. I maker non sono soltanto degli smanettoni, ma diventeranno, secondo l’autore, la prossima “next big thing” perché rimetteranno la creatività umana e le modalità della sua tutela al centro del dibattito culturale. Ancora una volte le sfide che la normativa in materia di diritto d’autore e di proprietà intellettuale in genere si appresta ad affrontare appaiono di elevata difficoltà e, proprio per questo, di straordinario interesse. Note: [*] Il presente contributo è stato preventivamente sottoposto a referaggio anonimo affidato ad un componente del Comitato di Referee secondo il Regolamento adottato da questa Rivista. [1] U. Gasser, S. Ernst, Da Shakespeare a Dj Danger Mouse. Un rapido sguardo al copyright e alla creatività dell’utente nell’era digitale, in G. Ziccardi (a cura di), Nuove Tecnologie e Diritti di liberà nelle teorie nordamericane, Modena, 2007, p. 109-143. [2] G. Boccia Artieri, Share This! Le culture partecipative nei media. Una introduzione a Henry Jenkins, in H. Jenkins, Fan Blogger e Videogamers, Milano, 2008. [3] D. Tapscott – A. D. Williams, Wikinomics. La collaborazione di massa che sta cambiando il mondo, Milano 2007, “Si può dire che i consumatori siano anche produttori, o prosumer […] nel suo libro del 1996 The Digital Economy, Don – Tapscott, n. d. r. – introdusse il termine prosumption (che potremmo tradurre con prosumo) per descrivere come il divario fra i produttori e i consumatori sia sempre più sfumato. Sebbene molti, oggi, riconoscano l’importanza di questo fenomeno, la maggioranza delle persone continua a confondere il “prosumo” con la centralità del cliente”, un concetto secondo cui le imprese stabiliscono gli elementi di base e i clienti possono modificare determinati elementi, come se personalizzassero la loro automobile direttamente dal concessionario”. Secondo gli autori il concetto di prosumer è legato a quello di innovazione senza permesso: “Gli utenti più avanzati non aspettano più che qualcuno li inviti a trasformare un prodotto in una piattaforma sulla base della quale sviluppare le proprie innovazioni. Piuttosto danno vita a community di prosumer nell’ambito delle quali condividono tutte le informazioni relative ai prodotti, collaborano alla realizzazione di progetti personalizzati, commerciano e si scambiano suggerimenti, strumenti e trucchi da hacker consumati”. [4] Il report è disponibile al seguente indirizzo http://www.oecd.org/internet/ieconomy/38393115.pdf (sito consultato il 5 settembre 2013) [5] There is no widely accepted definition of UCC, and measuring its social, cultural and economic impacts are in the early stages. In this study UCC is defined as: i) content made publicly available over the Internet, ii) which reflects a certain amount of creative effortî, and iii) which is ìcreated outside of professional routines and practices” [6] Si pensi a Wikipedia, la nota enciclopedia online costruita interamente grazie all’apporto dei suoi utenti. In questo caso i contributi vengono pubblicati addirittura senza la menzione del relativo autore, con la possibilità di essere modificati da qualsiasi altro utente. [7] Si pensi ai video amatoriali caricati su YouTube o sui contenuti inseriti sui propri blog personali. [8] A tal proposito può risultare interessante la lettura dei “Principles for User Generated Content” elaborati da alcuni dei maggiori Internet Service Provider insieme ai titolari dei diritti. Suddetti principi sono consultabili all’indirizzo http://www. ugcprinciples. com (sito consultato il 6 settembre 2013), [9] F. Comunello, Reti nella Rete. Teorie e definizioni tra tecnologie e società, Milano 2006 [10] Si veda a tal proposito il recente rapporto OFCOM del 21 giugno 2013, “The Value of User-Generated Content”, disponibile al seguente indirizzo http://stakeholders.ofcom.org.uk/market-data-research/other/research-publications/user-generated-content/ (sito consultato il 6 settembre 2013), “So an up-to-date definition of the area under consideration was a pressing one for us. But instead of trying to pin down a fixed definition we have begun to think of UGC as a set of continua. The two that have been most important are: The continuum of engagement – from a light-touch engagement such as a Foursquare check-in to a fuller engagement such as creating and releasing an album on Bandcamp or making a podcast; The continuum of professionalism – ranging from completely un-remunerated activity to the bordering-on-professional, as in paid-for”. [11] Cfr. nota 6. [12] Harper & Row V. Nation Enterprises, 471 U. S. 539 (1985), “In our haste to disseminate news, it should not be forgotten that the Framers intended copyright itself to be the engine of free expression. By establishing a marketable right to the use of one’s expression, copyright supplies the economic incentive to create and disseminate ideas. This Court stated in Mazer v. Stein, 347 U. S. 201, 209 (1954): “The economic philosophy behind the clause empowering Congress to grant patents and copyrights is the conviction that encouragement of individual effort by personal gain is the best way to advance public welfare through the talents of authors and inventors in Science and useful Arts.”, http://caselaw.lp.findlaw.com/scripts/getcase.pl?court=us&vol=471&invol=539 (sito consultato il 7 settembre 2013) [13] P. Carretta, V. Di Cicco, T. Succi, Il diritto d’autore: tutela penale e amministrativa, Macerata, 2006, p. 53. [14] Cfr. L. Lessig, Remix: Making Art and Commerce Thrive in the Hybrid Economy, Penguin Press, 2009; M. Mason, Punk Capitalismo, come la pirateria crea innovazione, Feltrinelli 2009. [15] Una fanfiction o fan fiction (abbreviato comunemente in fanfic, FF o fic) è un’opera scritta dai fan (da qui il nome) prendendo come spunto le storie o i personaggi di un’opera originale, sia essa letteraria, cinematografica, televisiva o appartenente a un altro medium (fonte Wikipedia, voce consultata il 7 settembre 2013). [16] Gli Anime Music Video (AMV) sono filmati di breve durata, di carattere amatoriale, costituiti da un musica montata su immagini e video tratti da anime (cartoni animati giapponesi). Attraverso il video editing l’autore del filmato combina il video con un brano musicale di sua scelta, al fine di creare un vero e proprio videoclip. Tuttavia, trattandosi di opere che manipolano altre opere audio e video originali coperte dal diritto d’autore, se non debitamente autorizzati gli AMV sono illeciti. (fonte: Wikipedia, voce consultata il 7 settembre 2013). [17] Il machinima è un “film animato in tempo reale creato con il medesimo software usato per creare e utilizzare i computer game”(o per usare le parole di John Seely Brown: “Basically, you can take Second Life or Worlds of Warcraft and have a set of avatars run all over the world, that come together and create their own movie and then you can “YouTube” the movie”) e come tale si inquadra tra le pratiche di fruizione alternativa dei videogiochi. L. Lowood, La cultura del replay. Performance, spettatorialità, gameplay, in M. Bittanti (Eds.), Schermi Interattivi, Roma, 2008, p. 69-94. [18] Secondo la Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie ed artistiche, “Si proteggono come opere originali, senza pregiudizio dei diritti dell’autore dell’opera originale, le traduzioni, gli adattamenti, le riduzioni musicali e le altre trasformazioni di un’opera letteraria o artistica” (art. 2, punto 3). Nell’ordinamento italiano, ai sensi dell’articolo 4, L. 633/1941 e s. m. i. (c.d. Legge sul diritto d’autore, o in forma abbreviata L. d. A.) sono considerate elaborazioni creative di opere dell’ingegno, “le traduzioni in altra lingua, le trasformazioni da una in altra forma letteraria od artistica, le modificazioni ed aggiunte che costituiscono un rifacimento sostanziale dell’opera originaria, gli adattamenti, le riduzioni, i compendi, le variazioni non costituenti opera orginale”. Tali elaborazioni sono protette autonomamente dalla legge, senza “pregiudizio dei diritti esistenti sull’opera originaria”. L’elaborazione creativa è caratterizzata (e in ciò distinguibile dall’opera originaria) dalla presenza di un apporto creativo riconoscibile sia pur minino, “apporto che può essere identificato anche nella semplice forma soggettiva di espressione dell’idea. È pacifico, del resto, che la stessa idea può essere oggetto di diverse opere dell’ingegno. È escluso, invece, che l’elaborazione creativa debba presentare differenze individualizzanti, tali da escludere la confondibilità con l’opera originaria (Cass. 27. 10. 2005, n. 20925, FI, 2006, I, 2080; Trib. Roma, 22. 1. 2001, Gius, 2002, 971)”, B. M. Gutierrez, La tutela del diritto d’autore (seconda edizione), Milano 2008, p. 56. [19] Ai sensi dell’articolo 18 L. d. A. l’autore di un’opera dell’ingegno protetta dal diritto d’autore ha il diritto esclusivo di elaborare la stessa, comprendendo tale prerogativa tutte le forme di modificazione, di elaborazione e di trasformazione dell’opera previste nell’art. 4 della medesima legge. A tal proposito si consideri che, secondo parte della dottrina, il lavoro non autorizzato che impieghi illegittimamente materiali pre-esistenti non può essere oggetto di protezione tramite il diritto d’autore. Cfr., in tal senso, E. Piola Caselli, Codice del Diritto d’Autore, Torino 1943, p. 234. [20] Art. 65, L. d. A. ”1. Gli articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali, oppure radiodiffusi o messi a disposizione del pubblico, e gli altri materiali dello stesso carattere possono essere liberamente riprodotti o comunicati al pubblico in altre riviste o giornali, anche radiotelevisivi, se la riproduzione o l’utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato. 2. La riproduzione o comunicazione al pubblico di opere o materiali protetti utilizzati in occasione di avvenimenti di attualità è consentita ai fini dell’esercizio del diritto di cronaca e nei limiti dello scopo informativo, sempre che si indichi, salvo caso di impossibilità, la fonte, incluso il nome dell’autore, se riportato”. [21] Art. 70, L. d. A. “1. Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l’utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. 1-bis. È consentita la libera pubblicazione attraverso la rete internet, a titolo gratuito, di immagini e musiche a bassa risoluzione o degradate, per uso didattico o scientifico e solo nel caso in cui tale utilizzo non sia a scopo di lucro. Con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali, sentiti il Ministro della pubblica istruzione e il Ministro dell’università e della ricerca, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, sono definiti i limiti all’uso didattico o scientifico di cui al presente comma. 2. Nelle antologie ad uso scolastico la riproduzione non può superare la misura determinata dal regolamento, il quale fissa la modalità per la determinazione dell’equo compenso. 3. Il riassunto, la citazione o la riproduzione debbono essere sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell’opera, dei nomi dell’autore, dell’editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull’opera riprodotta”. [22] Occorrono regole più precise in merito agli atti che gli utenti finali possono o non possono compiere quando fanno uso di materiali protetti dal diritto d’autore?” e “È opportuno introdurre nella direttiva un’eccezione per i contenuti creati dagli utenti?”. Va detto che la maggior parte delle risposte pervenute alla Commissione (a titolo di esempio: Mediaset, Microsoft e l’Associazione Italiana Editori) sono state caratterizzate da un approccio conservatore, essendo così sintetizzabili: l’attuale scenario normativo (ovvero la direttiva 2001/29/CE) deve restare invariato, poiché soddisfa gli interessi degli autori originari e li protegge contro le violazioni del copyright (dovute essenzialmente dall’utilizzo non autorizzato di materiali protetti). Per questo motivo non c’è bisogno di introdurre alcuna eccezione per i contenuti generati dagli utenti. [23] È possibile comunque ravvisare nella direttiva alcune eccezioni che garantiscono possibili riproduzioni delle opere. L’articolo 5, paragrafo 3, lettera d) indica la critica e la rassegna come esempi di possibili giustificazioni per le citazioni così come sono permessi, alla lettera k), gli usi a scopo di caricatura, parodia o pastiche. [24] Per il raggiungimento del medesimo obiettivo parte della dottrina ipotizza di rivoluzionare addirittura il paradigma alla base del Diritto d’Autore: la condivisione deve essere libera, salvo che l’autore non si esprima in senso difforme. A tal proposito, uno dei maggiori studiosi italiani di tale tematica, il Prof. Marco Ricolfi, parla di Copyright 2.0. Cfr. A. Ardizzone – L. Benussi – C. Blengino – A. Glorioso – G. B. Ramello – G. Ruffo – M. Travostino, Copyright Digitale. L’impatto delle nuove tecnologie tra economia e diritto (presentazione di M. Ricolfi), Torino 2009, “Il Copyright 2.0 non è nulla di più che la presa di atto sul piano giuridico di un dato economico e sociale: se in passato pochi creatori accedevano al grande pubblico attraverso pochissime imprese, oggi hanno accesso alla Rete infinite opere che i moltissimi creatori hanno interesse a far circolare piuttosto che mettere sotto chiave. Si pensi a Wikipedia, ai blog, al software libero, alle opere sotto licenza creative commons, a YouTube”. [25] La giurisprudenza ha oscillato nella qualificazione dei videogiochi in termini di software (Cass. pen. del 4 luglio 1997 n. 8236) piuttosto che di immagini in movimento (cfr. Cass. pen. del 15 dicembre 2006, n. 2304). Secondo l’orientamento più recente (Cass. Pen., n. 33768 del 25 maggio 2007; in senso conforme, Cass. Pen, n. 1243 del 14 gennaio 2009 e, da ultimo, Cass. Pen., n. 8791 del 4 marzo 2011) i videogiochi sono da considerarsi “opere multimediali complesse”, poiché “la Corte ritiene sia oramai evidente che i “videogiochi” rappresentano qualcosa di diverso e di più articolato rispetto ai programmi per elaboratore comunemente in commercio, così come non sono riconducibili per intero al concetto di supporto contenente “sequenze d’immagini in movimento”. Essi, infatti, si “appoggiano” ad un programma per elaboratore, che parzialmente comprendono, ma ciò avviene al solo fine di dare corso alla componente principale e dotata di propria autonoma concettuale, che è rappresentata da sequenze di immagini e suoni che, pur in presenza di molteplici opzioni a disposizione dell’utente (secondo una interattività, peraltro, mai del tutto libere perchè “guidata” e predefinita dagli autori), compongono una storia ed un percorso ideati e incanalati dagli autori del gioco. Ma anche qualora lo sviluppo di una storia possa assumere direzioni guidate dall’utente, è indubitabile che tale sviluppo si avvalga della base narrativa e tecnologica voluta da coloro che hanno ideato e sviluppato il gioco, così come nessuno dubita che costituiscano opera d’ingegno riconducibili ai loro autori i racconti a soluzione plurima o “aperti” che caratterizzano alcuni libri. In altri termini, i videogiochi impiegano un software e non possono essere confusi con esso. Appare, dunque, corretta la definizione che una parte della dottrina ha dato dei “videogiochi” come opere complesse e “multimediali”: vere e proprie opere d’ingegno meritevoli di specifica tutela anche sotto la formulazione dell’art. 71 ter, lett. d) nella formulazione in vigore all’epoca dei fatti.” [26] D. Tapscott, A. D. Williams, op. cit., pag 143. [27] Con Lego Mindstorm era possibile costruire veri e propri robot utilizzando dei mattoncini programmabili. [28] D. Tapscott, A. D. Williams, op. cit., pag 147. [29] Ciò non deve sorprendere perché il videogioco nasce come spazio di performance e il videogiocatore come performer. Si pensi a Spacewar! Il primo computer game della storia sviluppato da un gruppo di studenti del MIT di Boston nel 1962, per i quali esso costituiva innanzitutto un programma dimostrativo delle potenzialità del computer (“Il videogioco delle origini non è dunque fine a se stesso, ma esiste per dimostrare qualcosa, nella fattispecie, i possibili usi del computer” Lowood L., op. cit., p. 72). [30] 154 F. 3d 1107 (9th Cir. 1998), testo disponibile al seguente indirizzo http://www.utexas.edu/law/journals/tlr/sources/Issue%203/Shah/fn77.microstar.pdf (sito consultato l’8 settembre 2013). [31] D. L. Burk, I giochi elettronici: alcune problematiche giuridiche ed etiche con riferimento alla «proprietà» delle informazioni e dei contenuti generati dagli utenti. In G. Ziccardi, op. cit., pp. 145-160. [32] D. Tapscott, A. D. Williams, op. cit., pag 153. [33] Chris Anderson (1961) è un giornalista e saggista statunitense, direttore di Wired USA dal 2001 al 2012. (fonte Wikipedia, voce consultata l’8 settembre 2013). [34] M. Mason, Punk Capitalismo. Come e perché la pirateria crea innovazione, Milano, 2009. Scarica il contributo [Pdf] Scarica il quaderno Anno III – Numero 4 – Ottobre/Dicembre 2013 [pdf]

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