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Proprietà intellettuale e tutela dei consumatori: verso un nuovo framework?

di Andrea Stazi

 
Intervento al Workshop sul tema “Innovazione, concorrenza, benessere dei consumatori nella proprietà intellettuale: l’emersione di “altri” modelli normativi e stakeholders” tenutosi il 9 marzo 2012 presso la LUISS Guido Carli.
1. Proprietà intellettuale “sbilanciata”, economia della conoscenza e diritti fondamentali
I diritti di proprietà intellettuale sono caratterizzati da una tensione interna tra due obiettivi regolatori opposti: incentivo e accesso. Per ridurre gli impatti negativi del monopolio riconosciuto attraverso essi, in particolare, brevetti e diritti d’autore sono concessi per un periodo limitato, sono soggetti ad eccezioni e limitazioni, a licenze obbligatorie, a costi di rinnovo crescenti, etc.
D’altronde, nell’ambito di tali discipline si registrano norme considerate derivanti da fenomeni di “cattura del regolatore”: per il diritto d’autore, si cita ad esempio il passaggio da un limite di 14 anni a uno che si estende a 70 anni dopo la morte dell’autore; per i brevetti, l’ampliamento dell’ambito e del numero di essi, particolarmente evidente oggi (specie negli Stati Uniti) con l’esplosione del fenomeno dei “patent trolls”, che ottengono brevetti non per sviluppare l’invenzione, bensì per intentare azioni legali (in crescita esponenziale) contro terzi in modo aggressivo e opportunistico.
Negli ultimi anni, inoltre, la rivoluzione digitale sta avendo un impatto dirompente sulla proprietà intellettuale, rendendo non solo il costo della copia pressoché nullo, ma anche la qualità della copia identica a quella dell’originale. Le case di produzione cinematografiche o musicali, gli editori e le altre aziende dell’audiovisivo si trovano quotidianamente di fronte a nuove e rilevanti pressioni – od opportunità, a seconda del loro approccio – poste dai nuovi modelli di business digitali, relativi in particolare alla distribuzione e fruizione di video o musica on line [1].
Nell’economia della conoscenza, si verificano sempre più di frequente fattispecie in cui risulta evidente la necessità di bilanciare la tutela della proprietà intellettuale con altri diritti fondamentali degli interessati, siano essi le imprese o i consumatori/utenti [2].
Di recente, in materia di diritto d’autore, si sono registrate anzitutto le sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea rese nel caso Scarlet c. Sabam del novembre 2011 e Sabam c. Netlog del febbraio 2012, dai contenuti sostanzialmente analoghi. Nella prima, in particolare, la causa verteva sul rifiuto della Scarlet (fornitore di accesso a internet) di predisporre un sistema di filtraggio delle comunicazioni elettroniche realizzate tramite programmi per lo scambio di file (peer-to-peer), al fine di impedire gli scambi di file in violazione del diritto d’autore.
La Corte di Giustizia ha statuito che l’ingiunzione rivolta ad un fornitore di accesso a internet di predisporre un sistema di filtraggio (come quello che era stato imposto alla Scarlet nella causa principale) lo obbligherebbe a procedere ad una sorveglianza attiva su tutti i dati di ciascuno dei suoi clienti per prevenire qualsiasi futura violazione di diritti di proprietà intellettuale, in contrasto quindi con l’articolo 15 della direttiva 2000/31/CE sul commercio elettronico (nel diritto italiano, art. 17 del D. Lgs. 70/2003), che vieta alle autorità nazionali di adottare misure che impongano agli internet service provider di procedere a una sorveglianza generalizzata sulle informazioni trasmesse sulle proprie reti.
Secondo la Corte, un’ingiunzione di questo genere non rispetterebbe l’esigenza di garantire un giusto equilibrio tra, da un lato, la tutela del diritto di proprietà intellettuale, di cui godono i titolari dei diritti d’autore, e, dall’altro, quella della libertà d’impresa dei fornitori di accesso ad internet, poiché obbligherebbe questi ultimi a predisporre un sistema informatico complesso, costoso, permanente e unicamente a suo carico, in contrasto con quanto disposto all’art. 3 della direttiva c.d. enforcement, 2004/48/CE.
In materia di brevetti genetici, poi, negli Stati Uniti si è registrato il caso Myriad, in cui si è posta in discussione la validità di un insieme di brevetti su geni relativi a test diagnostici per la predisposizione al cancro al seno e alle ovaie.
Nel luglio 2011, la Court of Appeals for the Federal Circuit ha affermato che le rivendicazioni che coprono sequenze di geni isolate sono valide, in quanto non esistenti in natura. Inoltre, ha negato che la rivendicazione del metodo per monitorare potenziali terapie contro il cancro sulla base dei tassi delle mutazioni cellulari sia riconducibile a un principio scientifico non brevettabile. Viceversa, il Federal Circuit ha confermato che le rivendicazioni per i metodi diagnostici i quali si limitino a comparare o analizzare sequenze, senza avere uno step trasformativo, sono invalidi.
Qualora la Supreme Court optasse per la conferma di quest’ultima posizione espressa dalla District Court (e dal Department of Justice in un apposito amicus brief), i geni in sé potrebbero essere esclusi dalla brevettazione, e di conseguenza è difficile immaginare come qualsiasi test che compari sequenze di geni possa risultare ancora brevettabile, dal momento che non comporterebbe alcuna attività inventiva. Le imprese che si occupano della scoperta di geni e dello sviluppo di test genetici che confrontano sequenze di DNA potrebbero comunque immettere nel mercato questi ultimi, dovendo però affrontare la concorrenza molto prima di quanto avrebbero fatto in passato. In questo modo, da un lato, potrebbe aversi l’effetto della promozione dello sviluppo di test meno cari e quindi più accessibili per i pazienti; dall’altro, essendovi un minore numero di rivendicazioni brevettuali a livello di scienza di base, le sequenze non tutelate potrebbero essere liberamente oggetto di studi, così da accelerare l’evoluzione della conoscenza e migliorare le prospettive delle imprese interessate a creare terapie basate su queste informazioni.
Peraltro, al di là degli interessi economici, la questione solleva altresì questioni essenziali di consumer welfare. In proposito, ad esempio, recenti studi della Duke University hanno rilevato che molti ospedali non possono offrire un servizio di diagnosi – spesso fondamentale come quello d’individuare una predisposizione o la presenza di una grave patologia – poiché altrimenti dovrebbero rispondere alle imprese titolari dei brevetti sui singoli geni interessati nel caso di specie.

2. Proprietà intellettuale e tutela dei consumatori/utenti: la Direttiva 2011/83/UE
Nel complesso scenario degli interessi in gioco nell’economia della conoscenza, un approccio pragmatico per contribuire al bilanciamento degli stessi potrebbe essere basato – quanto meno in prima battuta – sull’integrazione tra proprietà intellettuale e tutela dei consumatori. Ciò non significherebbe necessariamente l’inclusione di quest’ultima nel corpus normativo della proprietà intellettuale. Entrambe le discipline, mantenendo la loro autonomia, potrebbero contribuire al bilanciamento degli interessi dei vari player in gioco: produttori, fornitori, consumatori/utenti, etc.
La soluzione può non essere considerata la migliore possibile – in particolare poiché non si occupa degli interessi non economici dei consumatori/utenti (diritto alla privacy, libertà di espressione, etc.) – ma appare comunque utile per consentire un accesso informato ai prodotti dell’attività inventiva o creativa, e la possibilità per i consumatori di essere tutelati nei loro rapporti contrattuali con i fornitori dei prodotti.
In questa direzione di “integrazione proattiva” tra proprietà intellettuale e protezione dei consumatori, deve rilevarsi che la nuova direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori, adottata il 25 ottobre scorso, prevede espressamente l’estensione della tutela dei consumatori ai rapporti relativi ai contenuti digitali.
Una prima previsione rilevante della Direttiva concerne i generali obblighi d’informazione che i fornitori sono tenuti a rispettare nei confronti dei consumatori prima della stipula del contratto: per i contenuti digitali, in aggiunta alle previsioni generali, il fornitore deve informare il consumatore riguardo alle loro caratteristiche di funzionalità ed interoperabilità.
Riguardo al diritto di recesso riconosciuto ai consumatori per i contratti stipulati a distanza o fuori dei locali commerciali, se il contenuto digitale è fornito attraverso un mezzo tangibile (come un cd o dvd), il periodo di recesso previsto scade dopo 14 giorni da quando il consumatore ha acquisito il possesso del bene; se il contenuto non è fornito tramite un mezzo tangibile, il periodo decorre dalla stipulazione del contratto.
Quindi, la Direttiva incarica la Commissione europea di valutare la necessità di ulteriori previsioni armonizzate per i contenuti digitali, ed eventualmente presentare una proposta legislativa in materia.
Infine, occorre notare come la Direttiva specifichi che, ove le sue previsioni contrastino con quelle di altri atti normativi dell’UE concernenti settori specifici, queste ultime dovranno prevalere. Una simile applicazione del principio di specialità, evidentemente, potrebbe produrre in concreto l’effetto di limitare i casi di applicazione delle suddette norme della Direttiva riguardo ai contenuti digitali.
Ad ogni modo, tali previsioni rappresentano un contributo importante nell’ottica della tutela dei consumatori/utenti anche rispetto ai prodotti oggetto di diritti di proprietà intellettuale [3].

3. L’estensione della figura del consumatore al contraente debole/cliente
Attualmente, peraltro, a rendere più complesso il quadro, si registra un focus crescente di attenzione legislativa che transita dal consumatore a qualunque “contraente debole”, o “cliente”, sia esso persona fisica, sia entità organizzata, sia operatore professionale, sia, pure, imprenditore.
I segnali al riguardo sono contenuti, a livello del diritto dell’Unione Europea, nel regolamento CE 593/2008 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (cosiddetto “Roma I”), e, soprattutto, in un insieme di recenti direttive che presentano la triplice caratteristica di a) riguardare servizi, b) contenere nuclei di disciplina di rapporti contrattuali, e c) orientare questa disciplina verso l’obiettivo della protezione del contraente debole. In tal senso, rilevano in particolare la direttiva generale sui servizi (2006/123/CE), le direttive settoriali sui servizi assicurativi vita e non vita (88/357/CEE e 2002/83/CE); la direttiva sull’e-commerce (2000/31/CE); la direttiva sui servizi di pagamento (2007/64/CE); le direttive sui servizi d’investimento (Mifid, 2004/39/CE e 2006/73/CE), che disciplinano una molteplicità di rapporti contrattuali – relativi essenzialmente alla fornitura di servizi (protagonisti dell’odierna economia della conoscenza) – in funzione della protezione del contraente debole.
A quale titolo si ritiene, quindi, che (non più il consumatore in senso tradizionale bensì) il contraente debole sia da reputarsi parte meritevole di tutela? In tal senso, si pone l’accento in particolare sulla diversa posizione del fornitore del servizio e del contraente debole, là dove la superiorità del fornitore risiede nel fatto che esso ha il controllo sulla prestazione caratteristica del contratto: rende disponibile ed offre tale prestazione, ne ha il dominio tecnico ed informativo. Il fornitore è l’“insider”, mentre il cliente è l’“outsider”, privo di conoscenze che gli permettano di porsi in posizione di parità nel rapporto contrattuale.
Nell’ordinamento italiano, nella medesima direzione possono citarsi i decreti”Bersani” (d.l. n. 223/2006 e d.l. n. 7/2007), che hanno la caratteristica singolare di essere formalmente orientati alla protezione del consumatore, non presentando però alcuna norma che lo riguardi ove inteso in senso tecnico, ed esprimendo piuttosto una disciplina che attiene ai contraenti deboli/clienti tout court, per i rapporti assicurativi, di telecomunicazione, etc., in quanto la figura tutelata è quella di qualunque soggetto che accede al mercato; peculiarità analoga è possibile rilevare ancora in ambito comunitario, là dove, nella direttiva 90/314/CEE sui pacchetti turistici, il destinatario dichiarato è il consumatore, ma la disciplina, poiché i criteri definitori non sono quelli codificati per il consumatore, investe la posizione del contraente debole [4].
Infine, sempre sul piano della normativa nazionale, si pensi all’aggiunta, effettuata nel 2007, dell’art. 32-bis al testo unico finanziario (d.lgs. n. 164/2007), con cui si è estesa la tutela originariamente fornita ai soli consumatori a tutti gli investitori, nonché, da ultimo, alla previsione nel recente disegno di legge sulle liberalizzazioni dell’estensione delle tutele previste dal Codice del consumo alle microimprese che esercitano anche a titolo individuale o familiare con meno di 10 persone e con fatturato annuo non superiore a 2 milioni di euro [5].

4. Conclusioni
L’integrazione tra la proprietà intellettuale e la tutela dei consumatori appare un fenomeno assai utile per contribuire al ribilanciamento degli interessi in gioco.
In questo senso, la direttiva n. 2011/83/UE compie un passo importante, che potrebbe essere il primo verso un nuovo framework integrato di tutela del consumatore/utente dei contenuti e servizi digitali.
Peraltro, questo processo è reso più complesso (sebbene potenzialmente più efficace) dal fatto che nel frattempo la figura del consumatore tende a “dilatarsi” verso la più ampia categoria del contraente debole/cliente.
Occorre, dunque, un’armonizzazione delle evoluzioni normative in corso nelle materie della proprietà intellettuale e della tutela dei consumatori, al fine di consentire che la tutela del contraente debole del rapporto possa riguardare ogni soggetto che accede o intende accedere al mercato – poiché tale comunque è – della proprietà intellettuale.
Soltanto in questo modo, sembra possibile muovere un piccolo – ma rispetto alla situazione attuale già grande – passo verso la piena attuazione dei principi della promozione dell’arte, della cultura e della scienza, della libertà di espressione, e della tutela dell’iniziativa economia privata (nei limiti dell’utilità sociale), previsti quali fondamentali sia nel diritto dell’Unione Europea sia in quello italiano.

__________
Notes:
[1] Su questi temi, sia consentito rinviare, tra gli altri, a: A.M. Gambino, A. Stazi (con la collaborazione di D. Mula), Diritto dell’informatica e della comunicazione, Giappichelli, 2012 (II edizione), p. 143 ss.; A. Stazi, Intellectual Property and Consumer law in the Knowledge economy, in Il diritto di autore, n. 4/2010, p. 342 ss.
[2] In proposito si veda, tra gli altri: G. Ghidini, Introduzione, in G. Ghidini, A. Stazi (a cura di), Accesso a informazione e conoscenza nell’era multimediale. Libertà di espressione, libertà di concorrenza e proprietà intellettuale, LUISS University Press, 2011, p. 1 ss.
[3] Per più ampie considerazioni in argomento, sia consentito rinviare a: A. Stazi, Digital copyright and consumer/user protection: moving toward a new framework?, in Queen Mary Journal of Intellectual Property, Vol. 2 n. 2, p. 158 ss.
[4] Cfr.: V. Roppo, Relazione tenuta in occasione dell’Incontro di studi: ”Squilibrio contrattuale e tutela del contraente debole”, Roma, 20 ottobre 2010, Aula Magna della Corte Suprema di Cassazione, consultabile qui p. 4 ss.
[5] Attraverso un’aggiunta all’art. 18, comma 1, del d.lgs. 206/2005, in cui si innesta la lettera d-bis), che definisce le «microimprese» quali entità, società di persone o associazioni, che, a prescindere dalla forma giuridica esercitano un’attività economica artigianale e altre attività a titolo individuale o familiare. Rientrano nella definizione ad esempio, tra le altre, le ditte individuali, le snc e le sas.
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