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La stima e la ripartizione dell’attivo nelle procedure di Amministrazione Straordinaria

di Alberto Dello Strologo

Abstract: L’amministrazione straordinaria costituisce lo strumento tramite il quale è stato introdotto nell’ordinamento italiano quella cultura della conservazione dei valori d’impresa che costituisce attualmente uno dei pilastri delle legislazioni più evolute in tema di risoluzione delle crisi aziendali.
Nel presente contributo si è effettuata una disamina dei singoli aspetti giuridici ed economici della procedura; in particolare, si è analizzata la disciplina della “Ripartizione dell’attivo”.
Tale momento della procedura è regolamentato mediante un rinvio alla disciplina del fallimento. L’intento del legislatore, sostanzialmente, è stato quello di affidare all’autorità giudiziaria le scelte che attengono più propriamente alla tutela dei diritti soggettivi, nella prospettiva di garantire un’armonizzazione tra i poteri discrezionali dell’autorità amministrativa ed il riconoscimento di un ruolo significativo all’autorità giudiziaria.
Il sistema di ripartizione è modellato in maniera tale da soddisfare tre diverse esigenze quali:
– l’interesse dei creditori concorrenti a vedere soddisfatte nel più breve tempo possibile le proprie pretese;
– l’esigenza di assicurare la copertura, con le somme ottenute dalla liquidazione, delle spese della procedura (presenti e future) e dei crediti la cui posizione è incerta (ammessi con riserva, opponenti e contestati), momentaneamente esclusi dal riparto;
– l’interesse ad una celere chiusura della procedura, senza necessariamente attendere la definizione delle posizioni sub iudice.
Da un punto di vista economico aziendale, l’analisi è stata incentrata sulla stima degli asset che costituiscono i complessi aziendali coinvolti in procedure di amministrazione straordinaria. Ci si riferisce, in particolare, alla determinazione del perimetro patrimoniale che consente di identificare quali sono i beni oggetto di stima e alla scelta della metodologia valutativa da impiegare a tali fini.
Nello specifico si è condotta un’analisi dettagliata della metodologie di stima di quelle risorse «invisibili» che consentono all’azienda di acquisire un vantaggio competitivo durevole e stabile sul mercato: vale a dire, tutte quelle condizioni interne o esterne all’azienda che svolgono un ruolo fondamentale nella gestione di un’impresa e le consentono di raggiungere il successo, costituendo un importante elemento di differenziazione che si riflette sui risultati che l’azienda è in grado di raggiungere, ancorché spesso, a cagione di rigide regolamentazioni contabili, non sempre vengono compiutamente valorizzate nei bilanci della società. Con altra espressione tali risorse sono spesso definite le “più rilevanti per il successo a lungo termine”. In quest’ottica, l’impresa è dotata di un patrimonio di beni immateriali, che va conservato e accresciuto nel tempo: solo così essa mantiene la sua capacità di continuare a produrre redditi e flussi di cassa e quindi di generare valore.
Abstract: Extraordinary administration is the tool introduced into Italian law which embodies the culture of the conservation values of companies that is now considered one of the pillars of the most advanced laws in terms of business crisis resolution.
IThis article performs a detailed assessment of the legal and economic aspects of this procedure; in particular, an in-depth analysis of the  discipline of “Asset allocation”.
This phase of the procedure is regulated by reference to the discipline of business bankruptcy. The intent of the legislature, was essentially to entrust the judicial authority with choices that relate more specifically to the protection of individual rights with a view to ensuring harmonization between the discretionary powers of the administrative authority and the recognition of the significant role of the court. The allocation system is designed in such a way as to satisfy three different needs:
– The interests of competing creditors to have their claims fulfilled in the shortest possible time;
– The need to cover with the amounts obtained from the liquidation, the cost of the procedure (actual and future), of claims and of uncertain position (admitted conditionally, opponents and contested), currently excluded from the distribution;
– The interest in the expeditious conclusion of the proceedings, without necessarily waiting for the definition of “sub judice” positions.
From an economic viewpoint, the analysis has focused on the estimation of the assets that constitute the complex business processes involved in the special administration.
Particular emphasis is placed on the determination of the entity of capital that identifies which assets need to be estimated and the choice of evaluation methodology to be applied for such purposes.
Specifically, an analysis was carried out on the methodologies for estimating resources of those “invisible assets” that allow the company to gain a competitive edge which results in durable and stable advantages in the market: namely, all those conditions that perform a key role in running a business and allow it to achieve success.  Moreover, this competitive advantage constitutes an important element of differentiation that is reflected in the results that the company is able to achieve, although often, not fully valued in the accounts of companies.
In other words, these resources are often referred to as those “most relevant to long-term success.” In this perspective, the company has a wealth of intangible assets which must be preserved and enhanced over time. This is the only way it retains its ability to continue to produce income and cash flows and thus generate value.
Sommario: 1. Il contesto normativo; 2. L’accertamento del passivo; 3. La ripartizione dell’attivo: aspetti procedimentali; 4. Il rinvio alle norme della legge fallimentare. Difetto di coordinamento; 5. La stima e la ripartizione dell’attivo.
1. Il contesto normativo
La Legge Fallimentare dedica l’articolo 67 [1] alla disciplina della Ripartizione dell’attivo a vantaggio dei creditori ammessi nelle procedure di Amministrazione Straordinaria [2]. Tale categoria rappresenta i principali stakeholder [3] della Procedura, vale a dire i soggetti maggiormente interessati all’andamento di tale fase.
Come si desume dalla lettera della norma, il dato temporale di riferimento per il computo dei (primi) quattro mesi al termine dei quali il Commissario straordinario presenterà al giudice delegato il prospetto delle somme disponibili ed il collegato progetto di ripartizione delle medesime, coincide con la data di scadenza del programma di cessione dei complessi aziendali, ovvero con la data del deposito del decreto dichiarativo dell’esecutività dello stato passivo (a norma dell’articolo 97 L.F., riferimento che, più correttamente oggi, dopo la riforma della legge fallimentare, è da fare all’art. 96 L.F.), se successiva.
Il criterio temporale adottato dal legislatore individua, in tal modo, la necessaria premessa temporale/funzionale della ripartizione dell’attivo nella preventiva adozione di un indirizzo di cessione a terzi dei complessi aziendali: tale opzione, a mente del precedente art. 27, 2° comma, lett. a [4], torna a rafforzare proprio una delle tre prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali – giustappunto la “cessione dei complessi aziendali, sulla base di un programma di prosecuzione dell’esercizio dell’impresa di durata non superiore ad un anno”-  la quale, ove rispetti il canone della concretezza ex lege preteso, rappresenta anche una delle condizioni per l’ammissione alla procedura de qua.
Ove, invece, si sia verificato successivamente il deposito della dichiarazione di esecutività dello stato passivo, il dies a quo per il calcolo del termine di presentazione del progetto di ripartizione delle somme disponibili coinciderà con la data di tale deposito, in quanto il controllo giudiziale sarebbe senz’altro assorbente rispetto al controllo amministrativo esercitato sul programma di cessione.
Tuttavia, è opportuno considerare che l’apertura della fase di ripartizione dell’attivo non segue automaticamente al momento della scadenza del programma di cessione dei complessi aziendali: ciò a causa del fatto che condizione per procedere alla ripartizione dell’attivo è la realizzazione, entro la scadenza, del programma di cessione dei complessi aziendali. In tale ipotesi, ai sensi dell’art. 73, il tribunale dichiara con decreto la cessazione dell’esercizio dell’impresa e la procedura prosegue come «procedura concorsuale liquidatoria» [5].
Qualora non si verificasse l’ipotesi ora contemplata, si avrebbe la conversione delle procedura in fallimento ai sensi dell’art. 70 lett. a) [6] D.Lgs. n. 270 e, in tale prospettiva, non vi sarebbe possibilità di procedere alla ripartizione dell’attivo ex art. 67 [7].
La ratio dell’articolato normativo come sopra sintetizzato risiede nell’osservazione per cui l’indirizzo della ristrutturazione economico – finanziaria presuppone, in caso di raggiungimento degli obiettivi, il ritorno in bonis dell’imprenditore e, in caso contrario, la conversione dell’amministrazione straordinaria in fallimento.
Viepiù, ravvisandosi nella ripartizione dell’attivo una sorta di fase sub-procedimentale dotata di autonoma organicità, può considerarsi necessario che la distribuzione delle somme segua cronologicamente alla fase di accertamento della consistenza e delle composizione dello stato passivo.
Tale distribuzione, però, potrà ben svolgersi contemporaneamente alla fase di liquidazione in ragione della possibilità di effettuare riparti parziali in presenza di utilità economiche non convertite in denaro.
La ripartizione finale dell’attivo, d’altro canto, sembra assurgere, ex art. 74 D.Lgs. 270/1999, a modalità di chiusura della procedura di amministrazione straordinaria nella sola ipotesi di cessione dei complessi aziendali [8]. Ciò è dovuto al fatto che si ravvisano diverse modalità di soddisfacimento dei creditori: nel caso di scelta dell’indirizzo della cessione a terzi dei complessi aziendali, il soddisfacimento si realizza mediante e nell’ambito della procedura mentre, nel caso della ristrutturazione, esso si verifica per effetto e successivamente alla procedura stessa [9].
“Tale soluzione è coerente con la diversa fisionomia che connota i due alternativi indirizzi della procedura (corrispondenti alle due diverse graduazioni con le quali le potenzialità di recupero possono manifestarsi): l’uno diretto al risanamento dell’impresa, l’altro con vocazione prettamente liquidatoria; è di tutta evidenza che una vera e propria fase di distribuzione dell’attivo tra i creditori ha senso esclusivamente all’esito di un’attività di cessione dei beni aziendali, in cui i creditori si soddisfano sul ricavato della liquidazione. Nel caso della ristrutturazione, viceversa, il soddisfacimento dei creditori è rinviato al ritorno in bonis dell’imprenditore, ovvero, in caso di esito negativo del programma di ristrutturazione, alla sede fallimentare” [10].
Un’ulteriore considerazione concerne il fatto che, come si evince dal disposto normativo, anche il fenomeno della ripartizione dell’attivo nella procedura di Amministrazione Straordinaria è regolamentato mediante un rinvio alla disciplina del fallimento. L’intento del legislatore, sostanzialmente, è stato quello di affidare all’autorità giudiziaria le scelte che attengono più propriamente alla tutela dei diritti soggettivi, nella prospettiva di garantire un’armonizzazione tra i poteri discrezionali dell’autorità amministrativa ed il riconoscimento di un ruolo significativo all’autorità giudiziaria.
In dottrina [11], al riguardo, si è parlato di “giurisdizionalizzazione” della fase di ripartizione dell’attivo alla stregua del paradigma offerto dal fallimento e delle forme di “parziale giurisdizionalizzazione” [12] che si ravvisano anche nella procedura di liquidazione coatta amministrativa.
2. L’accertamento del passivo
L’esecutività dello stato passivo è altro momento essenziale alla ripartizione dell’attivo in quanto propedeutico e strumentale ai cosiddetti “riparti” .
“Il luogo, il giorno e l’ora dell’adunanza […] in cui si procederà all’esame dello stato passivo davanti al giudice delegato” viene stabilito nella medesima sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza, ai sensi dell’art. 8 D.Lgs. 270/1999 [13].
Il procedimento [14] de quo è disciplinato dall’art. 53 [15] del D.Lgs. 270/1999, il quale rinvia alla disciplina del fallimento ex art. 93 della L.F: si applicano, quindi, integralmente le disposizioni sulla formazione dello stato passivo dettate per il fallimento, con la sola variante costituita dall’attribuzione al Commissario dei compiti originariamente spettanti al Curatore. In tale prospettiva, per i richiami contenuti nell’art. 53, nell’art. 8, nell’art. 18, nell’art. 22 e nell’art. 31 del D.Lgs. 270/1999, valgono tutte le regole fissate per il fallimento.
Le disposizioni del D.Lgs. 270/1999 in tema di accertamento del passivo hanno rappresentato una novità nell’ambito della procedura.
Il legislatore delegato, infatti, ha sostanzialmente conferito all’accertamento del passivo anche nell’ambito dell’amministrazione straordinaria, un’impostazione giudiziale: il rinvio agli artt. 93 ss. L.F. si traduce in un procedimento caratterizzato dall’esclusività di un rito finalizzato all’accertamento dei crediti, delle cause di prelazione e dei diritti reali immobiliari.
Come noto, prima della riforma introdotta con il D.Lgs. 270/99, la cd “Legge Prodi”, in materia di accertamento del passivo, faceva, invece, specifico rinvio alla disciplina della liquidazione coatta amministrativa di cui agli artt. 194 ss. L.F..
La procedura dell’amministrazione straordinaria allora, da una parte, mancava di una disciplina autonoma del procedimento di accertamento dello stato passivo e, dall’altra, non consentiva, nella fase iniziale dello stesso, un legittimo ed essenziale contradditorio con i creditori. Quest’ultima lacuna – forse retaggio dell’approccio dei redattori delle prime norme speciali introduttive della liquidazione coatta amministrativa, secondo le quali la verifica fallimentare, con il relativo carico per i creditori, era inidonea a tutelare le masse dei creditori delle grandi imprese – discendeva dal fatto che il procedimento doveva essere avviato d’ufficio dal commissario straordinario, con ciò precludendosi una proposizione di domanda da parte dei creditori.
A fronte di questa situazione, il legislatore delegato del 1999 “ha recepito, sostanzialmente, le critiche quasi unanimi della dottrina che lamentava, nella legge Prodi, la obliterazione degli interessi dei creditori e, soprattutto, la sospensione sine die della garanzia giurisdizionale per tutta la prima fase amministrativa dell’accertamento del passivo. Si è, pertanto, garantita la verifica di ogni diritto di credito nell’ambito di un procedimento che si svolge, dapprima, con adeguato contradditorio avanti al giudice delegato, e che può, successivamente, sfociare in una fase contenziosa a cognizione piena per le eventuali contestazioni sull’esistenza del credito e della ragione di prelazione” [16].
L’aspetto rilevante della disciplina in oggetto è rappresentato dal fatto che il legislatore ha previsto che l’accertamento del passivo abbia luogo anche quando l’indirizzo della procedura sia quello della ristrutturazione.
Sul punto, la dottrina ha lungamente indagato le motivazioni che hanno indotto il legislatore delegato a prevedere tale procedimento nell’ambito di un indirizzo che, di fatto, non comporta il soddisfacimento dei creditori per il tramite della procedura e, in tale prospettiva, non richiederebbe l’identificazione puntuale e completa dei soggetti aventi diritto a tale soddisfacimento.
Invero, allorché la procedura di amministrazione straordinaria sia indirizzata alla ristrutturazione dell’attività economica dell’impresa, l’obiettivo perseguito è il ritorno in bonis dell’imprenditore insolvente, il quale dovrà procedere all’integrale soddisfacimento dei creditori.
Tuttavia, ancorché appaia discutibile l’opportunità di eseguire l’accertamento del passivo nell’ambito dell’indirizzo della ristrutturazione, tale scelta risulta razionale alla luce sia delle esigenze di rapidità ed efficienza della procedura, ritenute meritevoli di tutela per il caso di un insuccesso del tentativo di risanamento, sia dell’utilità di una precisa individuazione dell’esposizione debitoria, che permane anche nell’ambito del programma di ristrutturazione [17].
3. La ripartizione dell’attivo: aspetti procedimentali
L’art. 67 D.Lgs. 270/1999, sopra menzionato, richiama quanto statuito dall’art. 110 della Legge Fallimentare: la normativa in materia di Amministrazione straordinaria fa, infatti, specifico rinvio, in tema di ripartizione dell’attivo, al capo VII della Legge Fallimentare (artt. 110 – 117).
L’identità di disciplina vive momenti di differenziazione relativamente al fatto che, nell’Amministrazione Straordinaria, la ripartizione dell’attivo è prevista per il solo programma di cessione del complesso aziendale e che, in tale contesto, permane la previsione in ordine alla necessità di allegare al progetto di riparto il parere del comitato di sorveglianza, mentre l’attuale formulazione dell’art. 110 L.F. non prevede più l’audizione del comitato dei creditori da parte del giudice delegato prima che sia ordinato il deposito dello stato passivo.
Alla luce del disposto normativo dell’art. 110 L.F. (cui rinvia l’art. 67 del D.Lgs. 270/1999), il procedimento di ripartizione si articola in ripartizioni parziali e riparto finale: non è necessario attendere la fine delle operazioni di liquidazione dell’attivo per procedere alla distribuzione del ricavato.
Invero, l’art. 110 L.F., nel prevedere la presentazione di progetti di riparto delle somme disponibili ogni quattro mesi, implicitamente impone l’esecuzione di riparti parziali che consentono ai creditori di ottenere, in un momento anteriore, quello che percepirebbero alla chiusura della procedura, riducendo così il pregiudizio rappresentato dalla sospensione degli interessi.
Il sistema di ripartizione è modellato in maniera tale da soddisfare tre diverse esigenze quali:
– l’interesse dei creditori concorrenti a vedere soddisfatte nel più breve tempo possibile le proprie pretese;
– l’esigenza di assicurare la copertura, con le somme ottenute dalla liquidazione, delle spese della procedura (presenti e future) e dei crediti la cui posizione è incerta (ammessi con riserva, opponenti e contestati), momentaneamente esclusi dal riparto;
– l’interesse ad una celere chiusura della procedura, senza necessariamente attendere la definizione delle posizioni sub iudice.
Il soddisfacimento della prima esigenza è perseguito mediante la previsione dei riparti parziali; le ulteriori finalità, invece, mediante i meccanismi di accantonamento [18].
Come noto, la recente riforma del diritto fallimentare [19] ha rivisitato ad ampio raggio la materia, soprattutto con riguardo ai profili prettamente processuali, con una propagazione di effetti anche sul procedimento di accertamento del passivo.
Il procedimento di ripartizione dell’attivo [20] non presenta, invece, particolari novità per quanto attiene alle modalità di svolgimento e ai principi che regolano la graduazione dei crediti al di là di quelle concernenti una maggiore attenzione per il soddisfacimento delle esigenze di speditezza ed economicità che si traducono nella distribuzione dell’attivo, appena lo si realizzi, attraverso i riparti parziali.
La scelta del legislatore in ordine alla cadenza temporale – in base alla quale il Commissario Straordinario è tenuto a presentare ogni quattro mesi «un prospetto delle somme disponibili e un progetto di ripartizione delle medesime» – si giustifica, appunto, nella volontà di accelerare i tempi della distribuzione e, in tale prospettiva, limitare il danno subito dai creditori a causa della sospensione del decorso degli interessi.
Si tratta di un’opzione recente, introdotta nell’ambito della Legge Fallimentare solo a seguito della riforma del 2007: la scansione temporale delle ripartizioni parziali è passata da due a quattro mesi, “anche perché essendo stato mantenuto il potere del giudice delegato di stabilire una cadenza diversa, nel caso in cui vi siano somme rilevanti disponibili, è comunque possibile anticipare i tempi” [21].
Tale previsione ottimistica intende, allora, avallare l’opportunità di procedere alla liquidazione dell’attivo con la massima sollecitudine [22].
Il termine di quattro mesi risulta, dunque, meramente ordinatorio sussistendo la possibilità, prevista in modo implicito dall’art. 67 (a differenza del disposto dell’art. 110 della Legge Fallimentare), che il giudice delegato possa indicare, discrezionalmente, un diverso termine di presentazione del progetto di ripartizione [23].
Tenendo conto del fatto che ad ogni singolo riparto è connesso un costo in termini di attività degli organi della procedura ed in termini meramente economici, la natura ordinatoria del termine è tesa ad evitare la possibile “diseconomicità” che conseguirebbe alla presentazione di riparti in mancanza di disponibilità liquide distribuibili, ovvero, insufficienti a soddisfare una categoria di creditori o, in modo apprezzabile, un certo numero di essi.
La necessità di accantonare un patrimonio sufficientemente idoneo a garantire il soddisfacimento di intere categorie di creditori renderebbe inverosimile ipotizzare aprioristicamente il rispetto della scadenza indicata dalla normativa [24].
I creditori interessati possono tutelare i propri diritti proponendo reclamo [25] al giudice delegato avverso il progetto di riparto depositato dal commissario.
Il reclamo può avere ad oggetto il quantum delle somme da distribuire: per esempio, i creditori possono lamentare l’esclusione dal progetto di ulteriori somme distribuibili che, in tale prospettiva, risulterebbero non proficuamente immobilizzate, oppure, l’insufficiente accantonamento per il pagamento dei creditori incerti o ancora l’errata applicazione dei criteri di riparto di cui agli artt. 111 ss..
Avverso il decreto del giudice delegato che decide sul reclamo è ammesso il ricorso al tribunale e quindi il ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost., trattandosi di provvedimento di natura decisoria [26].
Decorso il termine a disposizione dei creditori per presentare reclamo, il giudice delegato dichiara esecutivo il progetto di ripartizione. «Se sono proposti reclami il progetto di ripartizione è dichiarato esecutivo con accantonamento delle somme corrispondenti ai crediti oggetto di contestazione» (art. 110, 4° comma) [27].
La formulazione di quest’ultima norma (art. 110, 4° comma) risulta ambigua in quanto non chiarisce a quali «reclami» si faccia riferimento, ovvero, se si faccia riferimento a quelli presentati anteriormente al decreto di esecutività, avverso il progetto di riparto del commissario straordinario, oppure, a quelli proponibili successivamente al decreto del giudice delegato che lo rende esecutivo.
In considerazione del fatto che il giudice delegato non può modificare il progetto di riparto del commissario straordinario (i.e. curatore nella Legge Fallimentare) in sede di pronuncia del decreto di esecutività dello stesso, sembra doversi escludere l’impugnazione del decreto di esecutività in quanto tale, eccetto che nell’ipotesi in cui il decreto stesso contraddicesse gli effetti dell’intervenuta proposizione di reclami contro il progetto di riparto del commissario straordinario (i.e. curatore nella legge fallimentare).
Al di là dell’ipotesi dianzi accennata, la mancata impugnazione del progetto di riparto del curatore fallimentare (i.e. commissario straordinario nell’amministrazione straordinaria), sembrerebbe precludere la impugnabilità del decreto del giudice delegato che l’abbia reso esecutivo conformemente alle determinazioni assunte dal commissario straordinario [28].
L’art. 110 L.F. in chiusura specifica che «il provvedimento che decide sul reclamo dispone in ordine alla destinazione delle somme accantonate».
4. Il rinvio alle norme della legge fallimentare. Difetto di coordinamento
Il rinvio operato dall’art. 67, 2° comma del D.Lgs. 270/1999 alle norme della legge fallimentare in materia di riparto dell’attivo, non si limita al richiamo dell’art. 110 L.F., commi 2° e 3°, bensì involve anche le norme successive concernenti le modalità di svolgimento della ripartizione quali gli articoli 111 “Ordine di distribuzione delle somme” [29], 112 “Partecipazione dei creditori ammessi tardivamente” [30], 113 “Ripartizioni parziali”, 114 “Restituzioni di somme riscosse”, 115 “Pagamento ai creditori”, 117 2° e 3° comma, “Ripartizione finale”.
Tuttavia, è dato ravvisare un difetto di coordinamento tra le due normative, in quanto l’art. 67 non estende esplicitamente il rinvio anche agli articoli 111 bis “Disciplina dei crediti prededucibili” [31], 111 ter, “Conti speciali” [32], 111 quater, “Crediti assistiti da prelazione”, e 113 bis, “Scioglimento delle ammissioni con riserva”. L’omissione è dovuta al fatto che la formulazione dell’art. 67 precedeva cronologicamente l’introduzione di queste ulteriori previsioni da parte del D.Lgs. 5/2006.
Alla fase di ripartizione dell’attivo è riservata unicamente la collocazione dei crediti ammessi e la graduazione delle prelazioni accertate nella fase di verificazione dello stato passivo. Invero, all’atto delle ripartizioni non possono essere esaminate le questioni “concernenti l’esistenza o l’ammontare di cause di prelazione, stante l’intangibilità dello stato passivo non impugnato nelle forme e nei termini previsti dalla legge fallimentare”, (Cass. 11 gennaio 1995, n. 257) [33].
In tale prospettiva, determinata la somma ripartibile, nell’ambito del prospetto delle somme disponibili [34], il progetto di ripartizione deve essere predisposto con semplici operazioni contabili, che tengano conto delle risultanze dello stato passivo relative all’ esistenza e all’ammontare dei crediti, nonché dell’ordine dei diritti di prelazione.
Pertanto, le somme ricavate dalla liquidazione devono essere distribuite ai creditori che compongono la massa passiva fallimentare, così come individuati nello stato passivo.
Tuttavia, l’unitarietà della massa perde consistenza, in questa fase, poiché si frantuma in tante «sottomasse» quante sono le categorie di creditori che partecipano alla distribuzione.
L’art. 111 L.F. prevede un ordine di distribuzione delle somme articolato su una gerarchia di crediti ammessi al soddisfacimento: ancorché l’art. 111 riservi ai crediti assistiti da pegno, ipoteca, privilegio generale e speciale il secondo posto nell’ordine di soddisfacimento, non è possibile affermare che la soddisfazione dei crediti privilegiati sia sempre postergata a quella dei crediti prededucibili, in quanto quest’ultima sarà successiva nel caso dei crediti assistiti da ipoteca o pegno.
In via generale, dunque, i crediti assistiti da garanzie reali sono preferiti nella ripartizione dell’attivo agli altri crediti concorrenti solo se il bene oggetto di prelazione è presente nella massa attiva e viepiù nei limiti in cui lo stesso è capiente relativamente al credito vantato; nel caso in cui il bene risulti incapiente o non fosse stata ancora realizzata la garanzia, i crediti in oggetto sono considerati alla stregua dei crediti chirografari (art. 111, 1° comma, n. 3).
Il soddisfacimento dei creditori “privilegiati” è in qualche modo agevolato dalla circostanza che, a norma dell’art. 111 ter L.F., il commissario straordinario è obbligato a tenere i cosiddetti conti speciali e a suddividere le attività liquide in due sottomasse, la cd “massa attiva immobiliare” e la cd “massa attiva mobiliare” [35].
È opportuno accennare, in questa sede, che l’art. 111 quater [36] L.F. tratta specificatamente dei crediti assistiti da prelazione favorendo l’esatta attuazione del privilegio: in particolare, con riguardo agli interessi, la norma fa specifico riferimento agli artt. 54 e 55 della Legge Fallimentare, così come novellati dal D.Lgs., 9 gennaio 2006, n. 5, aventi ad oggetto rispettivamente il “Diritto dei creditori privilegiati nella ripartizione dell’attivo” e gli “Effetti del fallimento sui debiti pecuniari”.
In tale prospettiva, ai sensi dell’art. 54, 3° comma, la prelazione si estende agli interessi dovuti per l’anno in corso alla data di apertura della procedura e a quelli dell’anno precedente; gli interessi successivamente maturati hanno privilegio nella misura legale fino alla data del deposito del progetto di riparto nel quale il credito è soddisfatto anche parzialmente [37].
Come precedentemente illustrato, nell’ambito del soddisfacimento delle pretese dei creditori “privilegiati”, individuate le due masse distinte, ovvero “i crediti con prelazione sulla massa attiva mobiliare” e “i crediti con prelazione sulla massa attiva immobiliare”, relativamente alla massa attiva mobiliare, i privilegi speciali e i privilegi generali concorrono in un’unica graduatoria: l’ordine di preferenza nei rapporti tra privilegiati generali e speciali mobiliari è indicato nell’art. 2778 c.c.; quello esistente tra privilegiati speciali mobiliari e pignoratizi dall’art. 2781 c.c..
Per quanto concerne, invece, i crediti attinenti alla massa attiva immobiliare, non esiste un’unica graduatoria, pertanto, si individuano tante graduatorie quanti sono gli immobili venduti, ponendo al primo posto i privilegiati speciali immobiliari, successivamente i creditori ipotecari, secondo l’ordine di iscrizione e, infine, i titolari di crediti con collocazione sussidiaria sugli immobili.
La sussistenza di tali ultimi crediti, impone che si provveda prima alla graduazione dei crediti con prelazione sulla massa mobiliare al fine di accertare se i crediti con collocazione sussidiaria possono essere integralmente soddisfatti con il ricavato mobiliare, oppure, debbano concorrere sul residuo immobiliare per la parte residua.
È necessario accennare brevemente al meccanismo che governa le ripartizioni parziali: queste devono avvenire nel rispetto dell’ordine di soddisfacimento dei creditori e non possono superare l’80% delle somme da ripartire, ovvero quelle da cui è stato prelevato il necessario occorrente alla procedura ed alla amministrazione, a norma dell’art. 113 L.F., 1° comma.
Infatti, l’esecuzione dei riparti parziali non deve ledere la capacità della Procedura di fronteggiare tutte le “spese future”, il cui importo totale è noto solo al termine della procedura medesima.
È proprio per evitare tale possibile inconveniente che il legislatore ha previsto all’art. 113 L.F. l’obbligo di trattenere e depositare, nei modi statuiti dal giudice delegato, le quote assegnate:
– ai creditori ammessi con riserva;
– ai creditori opponenti a favore dei quali sono state disposte misure cautelari;
– ai creditori opponenti la cui domanda è stata accolta ma la sentenza non è passata in giudicato;
– ai creditori nei cui confronti sono stati proposti i giudizi di impugnazione e di revocazione.
In via indiretta, il legislatore ha in realtà previsto due forme di accantonamento: l’una, funzionale alla copertura delle future spese di procedura, del compenso del commissario e di ogni altra spesa; l’altra, predisposta per far fronte agli eventi, non ancora verificatisi, relativi ai creditori incerti.
La prima fattispecie si realizza “a priori”, nel senso che la legge impedisce che si possa procedere alla distribuzione di più dell’80% delle somme disponibili. In tale prospettiva, in ogni riparto parziale, almeno il 20% delle somme deve essere trattenuto.
La seconda tipologia di accantonamento viene effettuata direttamente sulle somme distribuibili ed ha ad oggetto tutti gli accantonamenti di cui all’art. 113 1° comma, nonché l’accantonamento delle «somme ricevute dalla procedura per effetto di provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato» [38].
È evidente l’intento del legislatore di evitare la ripartizione di somme la cui disponibilità è del tutto incerta, posto che si tratta di importi acquisiti in virtù di un provvedimento provvisoriamente esecutivo suscettibile di modifiche.
L’attenzione che il legislatore riserva agli accantonamenti assume particolare rilievo, laddove si consideri che l’art. 114 della L.F. prevede l’irripetibilità dei pagamenti effettuati in esecuzione dei piani di riparto, «salvo il caso dell’accoglimento di domande di revocazione».
In tal caso, «i creditori che hanno percepito pagamenti non dovuti, devono restituire le somme riscosse, oltre agli interessi legali dal momento del pagamento effettuato a loro favore».
Il legislatore ha, in tal modo, eliminato ogni dubbio interpretativo stabilendo che oltre alla sorte capitale indebitamente ricevuta i percettori devono, altresì, restituire gli interessi legali maturati dalla data di pagamento a loro favore [39].
Si ritiene che l’ipotesi di eventuali errori verificatisi nell’ambito dei riparti parziali già eseguiti possa essere affrontata a mezzo dei necessari conguagli nei successivi riparti, senza però consentire la ripartizione delle somme eventualmente già distribuite ai creditori.
L’intangibilità dei riparti parziali determina l’ulteriore corollario per cui i creditori ammessi al passivo tardivamente, anche se per causa ad essi non imputabile, partecipano solo sull’attivo che residua come disponibile nel riparto successivo all’ammissione, senza la possibilità di ottenere la restituzione degli importi distribuiti nei riparti già muniti di esecutività: si realizza, dunque, un effetto negativo per i creditori tardivi, i quali oltre a scontare il ritardo con il quale si è proceduto alla presentazione delle domande subiscono anche il ritardo connesso alla durata del procedimento di ammissione, atteso che la partecipazione ai riparti riguarda solo le distribuzioni operate dopo l’ammissione, non essendo sufficiente la presentazione della domanda [40].
Quanto al riparto finale, l’art. 115 della L.F. prevede che, dopo la dichiarazione di esecutività del progetto di ripartizione da parte del giudice delegato, il commissario straordinario possa procedere al pagamento «delle somme assegnate ai creditori nel piano di ripartizione nei modi stabiliti dal giudice delegato, purché tali da assicurare la prova del pagamento stesso».
In ordine alle effettive modalità dei pagamenti, si rileva come gli stessi vengano eseguiti dal commissario straordinario in virtù del rilascio di un apposito mandato del giudice delegato ai sensi dell’art. 34 [41] L.F..
Pertanto, il commissario viene autorizzato al prelievo delle somme necessarie e provvede ad effettuare direttamente il pagamento emettendo assegni circolari a favore dei diversi beneficiari, con contestuale rilascio di quietanza da parte di questi ultimi.
Per quanto concerne il riparto finale, a norma dell’art. 67 del D.Lgs. 270/1999, la ripartizione finale ha luogo dopo l’approvazione del conto della gestione e la liquidazione del compenso al liquidatore da parte del Ministero (art. 75 D.Lgs. 270/1999).
In tema di riparto, si applica quanto statuito dall’art. 117 L.F. il cui secondo comma dispone che “nel riparto finale vengono distribuiti anche gli accantonamenti precedentemente fatti”. Tuttavia, se la condizione non si è ancora verificata, ovvero se il provvedimento non è ancora passato in giudicato, la somma è depositata nei modi stabiliti dal giudice delegato, perché, verificatisi gli eventi indicati, possa essere versata ai creditori cui spetta o fatta oggetto di riparto supplementare fra gli altri creditori. Gli accantonamenti non impediscono la chiusura della procedura».
La disposizione in esame potrebbe indurre a ritenere che tutti gli accantonamenti eseguiti ai sensi dell’art. 113 L.F. debbano essere distribuiti in sede di riparto finale; ciò ovviamente non appare condivisibile atteso che nel momento in cui si verifica l’evento che implica la certezza del credito, lo stesso deve essere soddisfatto nel primo riparto utile, come qualunque altro credito concorrente e quindi anche prima del riparto finale.
In tale prospettiva, si ritiene che nel riparto finale debbano essere distribuite le seguenti somme:
1. quelle ottenute dal completamento della liquidazione dei beni;
2. l’eccedenza di quelle accantonate per le spese di procedura;
3. quelle accantonate per i creditori “incerti” e quelle trattenute in attesa del passaggio in giudicato del provvedimento ex art. 113, 3° comma, se l’evento che consente di svincolare le somme si verifica nel periodo intercorrente tra l’ultimo riparto parziale e il riparto finale
La legge prevede, altresì, che gli accantonamenti possano “sopravvivere” al di là della procedura, qualora ad esempio non si sia verificato l’evento o la condizione idonei a “svincolare” le somme accantonate. La ragione di tale scelta risiede nella volontà del legislatore di non ostacolare la chiusura della procedura causando, peraltro, il sostenimento di costi aggiuntivi per la massa.
Per quanto attiene, poi, ai creditori irreperibili, la disposizione in commento prevede che le somme dovute siano depositate presso un istituto di credito ed il certificato di deposito costituisce quietanza [42].
La distribuzione dell’attivo può avvenire oltre che mediante i riparti parziali e il riparto finale, anche per il tramite dei cosiddetti acconti.
Il legislatore del 1999 ha previsto, infatti, che il commissario straordinario possa procedere alla distribuzione di acconti nel corso della procedura di Amministrazione Straordinaria, qualunque sia l’indirizzo adottato e, dunque, anche qualora sia adottato l’indirizzo della ristrutturazione economica e finanziaria dell’impresa, sulla falsariga di quanto stabilito dall’art. 212 L.F. in materia di liquidazione coatta amministrativa.
In particolare, l’art. 68 del D.Lgs. 270/1999 statuisce al primo comma che «in qualunque momento nel corso della procedura, tenuto conto delle esigenze connesse all’esercizio dell’impresa, il commissario straordinario, sentito il parere del comitato di sorveglianza e con l’autorizzazione del giudice delegato, può distribuire acconti parziali ai creditori, o ad alcune categorie di essi, sulle somme che saranno prevedibilmente attribuite in via definitiva nel rispetto delle cause legittime di prelazione».
Rispetto alla precedente disciplina contenuta nell’art. 2, 7° comma, della L. 95/1979, è stata ridotta la discrezionalità del commissario straordinario, il cui operato nell’ambito della distribuzione degli acconti è sottoposto al “controllo” del comitato di sorveglianza e viepiù all’autorizzazione del giudice delegato. Anche in questo caso, è evidente l’intento del legislatore di «giurisdizionalizzare» il procedimento al fine di garantire il pieno rispetto delle finalità e dei presupposti previsti dalla Legge; pertanto, tale tipologia di pagamenti riceve attualmente una disciplina più dettagliata e conforme alla concezione giurisdizionalizzata della procedura [43].
Difformemente dai riparti, gli acconti rappresentano erogazioni provvisorie, cioè caratterizzate da revocabilità in quanto divengono definitive solo in sede di approvazione del bilancio finale di liquidazione e, dunque, suscettibili di conguaglio e di recupero in sede di ripartizioni.
Al secondo comma dell’art. 68, il legislatore ha previsto, altresì, che gli acconti debbano essere distribuiti preferenzialmente «ai crediti dei lavoratori subordinati ed ai crediti degli imprenditori per le vendite e somministrazioni di beni e per le prestazioni di servizi effettuate a favore dell’impresa insolvente nei sei mesi precedenti la dichiarazione dello stato di insolvenza».
Anche nella distribuzione degli acconti, il commissario dovrà procedere agli opportuni accantonamenti, ferma restando l’impossibilità di destinare le somme ricavate dalla vendita dei beni oggetto di garanzia o privilegio ad altre categorie di creditori.
Inoltre, in analogia a quanto disposto in tema di riparti dall’art. 110 L.F., si ritiene che il Commissario debba predisporre un progetto di distribuzione degli acconti, da depositare presso la cancelleria del Tribunale competente, che abbia ad oggetto l’attivo già realizzato con l’indicazione delle somme destinate al pagamento degli acconti e quelle oggetto di accantonamenti.
Si dovrà altresì indicare la graduazione dei crediti, specificandone la collocazione, atteso che l’eventuale preferenza ex art. 68, secondo comma, non può che operare all’interno della medesima categoria di crediti, ossia di crediti che si collocano nello stesso grado, ma non può sovvertire l’ordine di soddisfacimento [44].
5. La stima e la ripartizione dell’attivo
Un aspetto essenziale e prodromico alla ripartizione dell’attivo risiede nella individuazione e nella valutazione degli asset che costituiscono i complessi aziendali coinvolti in procedure di amministrazione straordinaria [45]. Ci si riferisce, in particolare, alla determinazione del perimetro patrimoniale che consente di identificare quali sono i beni oggetto di stima e alla scelta della metodologia valutativa da impiegare a tali fini.
Come noto, infatti, la struttura delle aziende e, più precisamente, la tipologia e le caratteristiche degli elementi che la compongono, ha subito una metamorfosi nel tempo, in linea con il progressivo mutamento dei rapporti esistenti tra i protagonisti dello scenario economico.
In particolare, l’acuirsi del livello della concorrenza tra imprese appartenenti anche a Paesi e a settori diversi, concomitantemente con la liberalizzazione degli scambi e con l’evoluzione registrata nel campo dei trasporti e delle telecomunicazioni, e i mutamenti nei gusti e nella sensibilità dei consumatori hanno contribuito “a far emergere nello scenario produttivo moderno, imprese di notevoli dimensioni, capaci […] di sopportare gli oneri ed i rischi che accompagnano i loro investimenti […] in grado di reperire gli ingenti capitali da investire nelle loro coordinazioni tecnico-economiche […] e di controllare e d’influenzare l’ambiente in senso conforme alle loro particolari finalità” [46].
In tale contesto, l’ampliamento delle dimensioni del mercato ha operato una sorta di selezione naturale che ha favorito le aziende dotate di notevole potenza finanziaria [47], in grado di creare prodotti e processi ad elevata “carica innovativa”, la cui realizzazione richiede rilevanti quantità di capitale e di tempo, un’accentuata specializzazione dei beni materiali ed immateriali e del fattore umano, oltre a elevate capacità organizzative e direzionali [48].
La concomitanza di tali fattori implica, altresì, notevoli rischi [49] e incertezze [50] per l’impresa [51], che risulta caratterizzata da imponenti immobilizzazioni tecniche, che limitano l’elasticità aziendale, vincolando le scelte imprenditoriali future e rendendo assai difficile modificare prontamente il sistema gestionale per adattarlo alle mutevoli esigenze del mercato [52].
Si può, pertanto, definire l’impresa come un “sistema organizzativo aperto, finalizzato, eccessivamente complesso, probabilistico, dotato di particolari vie di regolazione e della prerogativa di influenzare l’ambiente esterno” [53]. L’impresa/sistema risulta, quindi, costituita da un insieme di elementi fortemente coordinati e complementari e rappresenta un “sistema dinamico nel quale si realizzano in sintesi vitale l’unità nella molteplicità, la permanenza nella mutabilità” [54 ] e, in tale prospettiva, l’azienda altro non è che un insieme di elementi coordinati [55] mediante un complesso di relazioni interne ed esterne che influenzano in maniera determinante il comportamento aziendale [56].
In tale contesto, “l’azienda costituisce o tende a costituire un complesso esteso nello spazio e nel tempo e nel quale elementi molteplici operano avvinti da relazioni di complementarietà, di connessione, d’interdipendenza: relazioni che qualificano il complesso non meno degli elementi costitutivi e senza l’intelligenza delle quali nulla può comprendersi dell’azienda» [57].
Alla luce di tali considerazioni, ai fini della stima del capitale economico [58] di un’azienda in Amministrazione straordinaria [59], l’individuazione degli asset che compongono il patrimonio di un complesso aziendale, non può essere orientata esclusivamente all’analisi dei beni cosiddetti “tangibili”, ma deve essere necessariamente effettuata tenendo in debita considerazione l’insieme di quelle risorse “invisibili” [60] che consentono all’azienda di acquisire un vantaggio competitivo [61] durevole e stabile sul mercato [62]: vale a dire, tutte quelle condizioni interne o esterne all’azienda che svolgono un ruolo fondamentale nella gestione di un’impresa e le consentono di raggiungere il successo, costituendo un importante elemento di differenziazione che si riflette sui risultati che l’azienda è in grado di raggiungere [63], ancorché spesso, a cagione di rigide regolamentazioni contabili, non sempre vengono compiutamente valorizzate nei bilanci della società [64]. “Con altra espressione tali risorse sono spesso definite le «più rilevanti per il successo a lungo termine». In quest’ottica, l’impresa è dotata di un patrimonio di beni immateriali, che va conservato e accresciuto nel tempo: solo così essa mantiene la sua capacità di continuare a produrre redditi e flussi di cassa e quindi di generare valore” [65].
La dottrina si è ampiamente occupata delle immobilizzazioni immateriali, inizialmente considerate come fattori produttivi di tipo intangibile identificabili nella distinzione: beni immateriali e costi ad utilizzazione pluriennale [66]. Il tradizionale concetto di fattori produttivi porta a considerare tali soltanto gli elementi che, oltre ad esercitare un’influenza sul processo economico aziendale e a generare un’opportunità e convenienza all’utilizzo per l’azienda, sono suscettibili di misurazione attraverso unità economiche. In tal senso, restano esclusi dalla categoria delle risorse immateriali quegli elementi intangibili che, pur apportando un vantaggio economico alla combinazione produttiva e all’attività aziendale, non possono essere espressi in unità monetarie né per via oggettiva, in quanto oggetto di scambio, né per via di stima [67].
La peculiarità di tali risorse risiede nella difficoltà di acquisizione o di creazione da esse presentata, alle molteplicità di possibili impieghi contemporanei e, infine, alla loro incrementabilità, vale a dire al fatto che possano costituire input o output del sistema produttivo [68].
La complessità dianzi citata risiede, per un verso, nella difficoltà nell’acquisire un asset che risulti pienamente compatibile con il tessuto organizzativo e produttivo dell’impresa acquirente e, d’altro canto, nella rischiosità di effettuare un investimento volto alla creazione interna di un bene immateriale, che richiede tempi e costi particolarmente elevati [69], laddove, generalmente, le risorse intangibili di un’impresa sono frutto della storia, dei comportamenti e dell’immagine dell’azienda [70].
Di converso, le risorse in parola risultano suscettibili di usi alternativi, il che consente all’impresa che le detiene di conseguire vantaggi competitivi in termini di differenziazioni rispetto alla concorrenza e, nel contempo, notevoli economie di costi, come nel caso in cui si apponga il marchio aziendale anche a nuovi prodotti, così da attribuire loro tutte le caratteristiche di qualità proprie di beni già da tempo affermati sul mercato, ovvero la possibilità di applicare nuove tecnologie possedute contemporaneamente in diverse aree produttive [71].
Alla luce di quanto rilevato, è di tutta evidenza che non tutti i beni immateriali rappresentano quei fattori critici di successo che permettono all’azienda che li detiene di conseguire un vantaggio competitivo rispetto ai propri competitor e, in tale prospettiva, possano essere considerati meritevoli di stima autonoma.
In particolare, la dottrina [72] ha individuato tre criteri essenziali che devono contraddistinguere ciascun bene immateriale, affinché possa essere commensurato nella determinazione del valore economico del capitale di un’impresa:
1. deve essere oggetto di un significativo flusso di investimenti, cioè deve essere un centro di costo; il che vale a dire che l’impresa deve sostenere sforzi economici per acquisire, creare e sviluppare tale risorsa;
2. deve essere all’origine di benefici economici differenziali, cioè deve essere in grado di garantire un flusso economico-finanziario tale da coprire non solo i costi sostenuti, ma anche un differenziale economico positivo all’impresa rispetto all’ipotesi in cui l’azienda non si avvalga di tale risorsa;
3. deve essere trasferibile, in via autonoma oppure concomitantemente alla cessione di un ramo di azienda che deve possedere l’intangible.
Per quanto concerne la classificazione dei beni immateriali, la dottrina si è lungamente soffermata sulle caratteristiche di tali asset e sono state proposte svariate modalità di rappresentazione in funzione delle peculiarità che li connotano [73].
Ai fini del presente lavoro, si ritiene preferibile fare riferimento ad una classificazione finalizzata all’analisi e alla soluzione di tematiche inerenti la valutazione del capitale economico, che distingue i beni immateriali in due aree fondamentali [74]:
1. la prima individua quelle risorse intangibili, cd “strutturali”, quali il capitale umano, le licenze e la tecnologia, che esprimono, per un verso, il valore delle capacità interne ad un’impresa che si realizza nelle mutue e reciproche relazioni che si instaurano tra i diversi elementi aziendali, aggregandoli in un complesso sistemico di beni, persone ed operazioni finalizzato al conseguimento di risultati economici; per altro verso, in quanto consentono all’azienda di acquisire le condizioni giuridico-amministrative necessarie per operare nel settore economico di appartenenza;
2. la seconda area, rappresentata essenzialmente da beni legati al marketing, annovera i cd “beni immateriali non strutturali”, vale a dire quegli intangible che traggono il proprio valore dalle relazioni che si instaurano tra l’impresa ed il mercato.
Alla luce di tali considerazioni, ai fini della stima dell’attivo da ripartire e, in specie, dei complessi aziendali che costituiscono l’oggetto delle procedure di amministrazione straordinaria, l’interpretazione della previsione normativa, che statuisce che “per le aziende e i rami di azienda in esercizio la valutazione effettuata a norma dell’art. 63, comma 3, tiene conto della redditività, anche se negativa, all’epoca della stima e nel biennio successivo” [75], ad avviso di chi scrive, sembra far propendere la scelta della tecnica di stima da utilizzare in siffatto contesto verso metodologie di tipo patrimoniale complesso con correzione reddituale [76], da intendersi nel senso che la stima debba essere mirata a definire l’effettivo valore di mercato dell’azienda considerata in going concern [77].
Tali metodologie di valutazione, infatti, costituiscono una mediazione tra i metodi patrimoniali e i metodi fondati su grandezze flusso (segnatamente i metodi reddituali). La caratteristica di questi procedimenti è quella di determinare il valore dell’azienda/ramo d’azienda ponderando la componente patrimoniale (rappresentata dal patrimonio netto riespresso a valori correnti ed eventualmente comprensivo del valore economico dei beni immateriali non contabilizzati) e la componente reddituale della gestione rappresentata dal sovra/sottoreddito atteso [78].
Nel caso di specie, in considerazione della particolare circostanza in cui viene calcolato il capitale economico e, più precisamente, del fatto che nella valutazione delle aziende in amministrazione straordinaria l’oggetto della stima è il firm value del complesso aziendale, la formula originaria viene generalmente modificata, nel senso che l’impresa viene valutata mediante il c.d. entity approach, il quale è costituito dalla somma del valore economico del capitale e del valore di mercato dei debiti finanziari [79]. Pertanto, il valore dell’azienda verrà calcolato evitando di considerare il valore dei debiti finanziari (D), il cui valor viene fatto pari a zero, in considerazione del fatto che, generalmente, non vengono ceduti, ma rimangono in capo alla procedura,  sulla base del seguente algoritmo:
dove:
W è il valore del capitale economico del Ramo d’azienda;
CIN’ è il valore corrente delle attività operative, comprensivo del valore economico dei beni immateriali non contabilizzati;
ROj sono i redditi operativi attesi del Ramo d’azienda negli anni di previsione esplicita;
WACC è il costo medio ponderato del capitale;
i è il saggio di interesse utilizzato per l’attualizzazione dei sottoredditi/sovraredditi stimati ai fini della determinazione della correzione reddituale. Generalmente, la dottrina [80] prevede che, nel caso in cui il confronto tra il reddito operativo atteso e quello ritenuto “congruo” evidenzi un sottoreddito (reddito operativo atteso inferiore al reddito operativo congruo), ai fini dell’attualizzazione di tale valore si fa ricorso, quale tasso, al risk free rate; nel caso, invece, in cui il confronto tra il reddito operativo atteso e quello ritenuto “congruo” mostri l’esistenza di un sovrareddito (reddito operativo atteso superiore al reddito operativo congruo), si impiega, quale tasso di attualizzazione, il costo del capitale proprio.
Come si è avuto di accennare in precedenza, il valore corrente dei debiti finanziari è fatto pari a zero, in quanto, generalmente, non oggetto di cessione.
In merito alla determinazione del capitale investito, esso è rappresentato dalle attività dell’impresa, rettificate ai fini della riespressione a valori correnti, al netto delle disponibilità liquide, dei beni accessori e dei debiti di funzionamento.
Per quanto attiene alla nota questione inerente la possibilità di stimare in via autonoma i beni immateriali non contabilizzati (i c.d. intangibile asset) in una impresa che si trova in procedura concorsuale, e che pertanto, versando in condizioni di stabile disequilibrio economico, non soddisfa il principio della continuità dell’attività aziendale, permangono dubbi e interrogativi. La dottrina [81] più autorevole ritiene che la questione non possa essere risolta in via astratta ma vada affrontata caso per caso, tenendo conto dei requisiti che la dottrina considera fondamentali al fine di reputare un bene immateriale degno di autonoma stima, precedentemente citati [82].
Pur tuttavia, non va sottaciuta la circostanza che la valutazione di tali intangible asset avviene nell’ambito di complessi aziendali oggetto di cessione e che, pertanto, presumibilmente, non appena perfezionato il passaggio verso una nuova entità, si verranno a trovare nuovamente in condizioni di equilibrio economico. In tale prospettiva, la circostanza che il soggetto che “deteneva” tali asset abbia avuto difficoltà economiche e/o finanziarie tali da determinare una situazione di crisi non impatta necessariamente con il valore economico dell’immaterialità oggetto di stima, la quale, in tale nuova condizione, potrebbe soddisfare il requisito di “assicurare al patrimonio, il cui valore concorre a costituire, un adeguata redditività, cioè risultati storici e prospettici «in linea» col rischio attribuibile all’investimento in tali beni” [83] e risultare, pertanto, meritevole di stima in via autonoma.
È di tutta evidenza, infatti, che in taluni recenti casi, anche particolarmente noti, l’interesse degli acquirenti per l’acquisizione di rami di azienda o di intere imprese verteva non tanto sulle componenti materiali che costituivano il complesso aziendale oggetto di cessione (in taluni casi, peraltro, dotate di scarso valore, in considerazione dell’usura o dell’obsolescenza che le caratterizzavano), quanto piuttosto dalla possibilità di entrare in possesso di immaterialità particolarmente affermate, quali il marchio, il portafoglio clienti/lavori, il know how, o il capitale umano.
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Note:
[1]«Ogni quattro mesi a partire dalla data di scadenza del programma di cessione dei complessi aziendali, ovvero dalla data di deposito del decreto che dichiara esecutivo lo stato passivo a norma dell’art. 97 della legge fallimentare, se successiva, il commissario straordinario presenta al giudice delegato un prospetto delle somme disponibili ed un progetto di ripartizione delle medesime, corredato dal parere del comitato di sorveglianza.
Le ripartizioni hanno luogo secondo le disposizioni degli articoli 110, secondo e terzo comma, 111, 112, 113, 114, 115 e 117, secondo e terzo comma, della legge fallimentare.
La ripartizione ha luogo dopo l’approvazione del conto della gestione e la liquidazione del compenso al commissario straordinario a norma dell’art. 75».
[2] Per approfondimenti in tema di amministrazione straordinaria si vedano, M. Galioto, L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, Milano, 2003; L. PONTI – F. SPADETTO, L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese, Padova, 2006; C. COSTA, L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza dopo il D. Lgs. 12.9.2007, n. 169 – Il nuovo diritto, Torino, 2008; G. FAUCEGLIA, Fallimento e altre procedure concorsuali, III, a cura di L. PANZANI, Torino, 2009.
[3] Ampia è la letteratura esistente con riguardo alla figura degli stakeholder. Tale concetto è già implicito in importanti concezioni teoriche degli anni trenta (in particolare C. BARNARD, The Functions of the Executive, Harvard University Press, Cambridge, 1938; A. BERLE, G. MEANS, The Modern Corporation and Private Property, Commerce Clearing House, New York 1932), ma il termine pare comparire esplicitamente per la prima volta nella letteratura economico – aziendale solo nel 1963, in un memorandum dello Stanford Research Institute (ora SRI International Inc.). In tale contesto gli stakeholder designano “quei gruppi senza il cui appoggio le organizzazioni cesserebbero di esistere”. H.I. ANSOFF, in un suo lavoro, Strategia Aziendale, Etas, Milano, 1968, pp. 39-40, si esprime su tale teoria nei seguenti termini: “Sebbene come meglio vedremo più oltre, responsabilità ed obiettivi non siano sinonimi, essi sono stati conglobati nella teoria dei partecipanti (stakeholder theory); la quale sostiene che gli obiettivi dell’impresa si dovrebbero conseguire equilibrando le opposte pretese dei vari interessati all’impresa stessa: i dirigenti, i lavoratori, gli azionisti, i fornitori e i venditori. L’impresa ha una propria responsabilità verso tutti costoro e deve configurare i propri obiettivi in modo tale da dare a ciascuno un certo grado di soddisfazione. Il profitto, che per gli azionisti è una remunerazione del capitale da essi investito, è uno di tali strumenti di soddisfazione, ma non gli compete necessariamente uno speciale predominio nella struttura degli obiettivi”. In realtà, per Ansoff, gli stakeholder non partecipano alla formazione degli obiettivi, ma rappresentano solo dei vincoli alla funzione teleologica fissata autonomamente dai responsabili d’impresa. Col passare degli anni, tuttavia, il concetto di stakeholder conosce una sempre maggiore diffusione, anche come schema autonomo di analisi. F.W. TAYLOR, The Future Development of Corporate Strategy, in The Journal of Business Policy, vol. 2, n. 2, 1971, sostiene con singolare capacità previsiva, che l’importanza degli azionisti è destinata a diminuire nel futuro, a tutto vantaggio degli altri stakeholder. Oltre a D. HEENAN, H. PERLMUTTER, Multinational Organizational Development, Addison-Wesley, Reading, 1979; W. KING, D. CLELAND, Strategic Planning and Policy, Van Nostrand Reinhold Co., New York, 1978; J. PFEFFER, G.R. SALANCIK, The External Control of Organizations, Harper and Row, New York, 1978, altri Autori adottano tale termine, o fanno riferimento a concetti analoghi. In Italia, G. ZANDA, La grande impresa. Caratteristiche strutturali e di comportamento, Giuffrè, Milano, 1974, p. 489, già nel 1974, rileva con chiarezza la dimensione psicologica e fattuale degli stakeholder riferendosi ai “gruppi d’interesse” che “formulano delle attese nei riguardi del comportamento dell’organizzazione e che condizionano l’attività aziendale”. Una trattazione completa del significato degli stakeholder nello strategic management è rappresentata dall’opera di R.E. FREEMAN, Strategic Management. A Stakeholder approach, Pitman, Marshfield Mass., 1984, nella quale, a pagina 24, definisce stakeholder “ogni gruppo od individuo che può influenzare il raggiungimento degli obiettivi dell’impresa o ne è influenzato”. Scrive Clarkson: «Si qualificano come stakeholder tutte le persone o gruppi che hanno pretese, titoli di proprietà, diritti o interessi, relativi a un’impresa e alle sue attività passate, presenti». M.B.E. CLARKSON, A Stakeholder Framework for Analyzing and Evaluting Corporate Social Performance, in Academy of Management Review, vol. 20, n. 1, 1995. Si veda sul tema anche l’interessante rassegna proposta in R. Trequattrini, Economia Aziendale e nuovi modelli  di corporate governance: esperienze a confronto, Giappichelli, Torino, 1999, pp. 12-17.
[4] “Art. 27. Condizioni per l ‘ammissione alla procedura.
1. Le imprese dichiarate insolventi a norma dell’articolo 3 sono ammesse alla procedura di amministrazione straordinaria qualora presentino concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali.
2. Tale risultato deve potersi realizzare, in via alternativa:
a) tramite la cessione dei complessi aziendali, sulla base di un programma di prosecuzione dell’esercizio dell’impresa di durata non superiore ad un anno («programma di cessione dei complessi aziendali»);
b) tramite la ristrutturazione economica e finanziaria dell’impresa, sulla base di un programma di risanamento di durata non superiore a due anni («programma di ristrutturazione»);
c) per le società operanti nel settore dei servizi pubblici essenziali anche tramite la cessione di complessi di beni e contratti sulla base di un programma di prosecuzione dell’esercizio dell’impresa di durata non superiore ad un anno («programma di cessione dei complessi di beni e contratti»)”.
[5] Occorre precisare che, solo nell’ipotesi in cui la cessazione della procedura dovesse avvenire per «compiuta ripartizione dell’attivo», l’art. 77 contempla la riapertura della procedura, ovvero, «il tribunale, entro cinque anni dal decreto di chiusura, su istanza dell’imprenditore dichiarato insolvente o di qualunque creditore, può ordinare la riapertura della procedura di amministrazione straordinaria, convertendola in fallimento, quando risulta che nel patrimonio dell’imprenditore esistono attività in misura tale da rendere utile il provvedimento o quando l’imprenditore offre garanzia di pagare almeno il dieci per cento ai creditori vecchi e nuovi (…)».
[6] Titolare a richiedere la conversione della procedura in fallimento è il commissario straordinario, la stessa è tuttavia disposta dal Tribunale il quale provvede con decreto motivato, sentiti anche il Ministero delle Attività produttive e l’imprenditore dichiarato insolvente. Con medesimo decreto, il Tribunale nomina il giudice delegato e il curatore e, in tale prospettiva, contestualmente cessano le funzioni del commissario straordinario e del comitato di sorveglianza. Avverso il decreto che dispone la conversione o rigetta la richiesta del commissario straordinario, chiunque vi abbia interesse può proporre reclamo alla Corte d’Appello nel termine di quindici giorni decorrente, per l’imprenditore insolvente dalla comunicazione del decreto e, per ogni altro interessato, dalla sua affissione. La Corte provvede in Camera di Consiglio, sentiti il commissario straordinario, l’imprenditore ed il reclamante. La conversione della procedura in fallimento, sia in corso di procedura che al termine del programma, ha rappresentato una novità rispetto alla legislazione previgente, che contempla l’intento del Legislatore di garantire un’equa ripartizione degli intereventi tra l’Autorità amministrativa e quella giudiziaria. In tal senso: A. PALUCHOWSKI, Codice del fallimento, a cura di PAJARDI, Milano, 2004; R. MARRAFFA, Amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi e tutela dei creditori, Giuffrè, Milano, 2005.
[7] Cfr. A. NIGRO, D. VATTERMOLI, Diritto della crisi delle imprese – Le procedure concorsuali – , Il Mulino, Urbino, 2009, p. 463.
[8] Sul tema: D. MAZZOCCA, L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi. Il D.Lgs. 270/99 commentato anche in riferimento alla procedura di fallimento, Jovene, Napoli, 2001.
[9] Per maggiori approfondimenti si veda: L. FARENGA, L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, Giuffrè, Milano, 2005; A. CASTAGNOLA, R. SACCHI, La nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, Giappichelli, Torino, 2000.
[10] Cfr. G. ALESSI, L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi. Commento sistematico al D.Lgs. 8.7.1999, n. 270, Giuffrè, Milano, 2000, p. 345.
[11] “Si è pertanto scelto di «giurisdizionalizzare» la ripartizione dell’attivo modellandola sul paradigma procedimentale del fallimento, introducendo le stesse modalità e pienezza di garanzie della legge fallimentare. Seguendo la strategia di attribuire all’autorità giudiziaria le fasi della procedura in cui sono coinvolti i diritti soggettivi, la competenza per la distribuzione dell’attivo viene sottratta all’autorità amministrativa, come avveniva nella previgente disciplina, ed è invece attribuita al giudice delegato, che rende esecutivi i piani di riparto ed autorizza gli acconti. La distribuzione dell’attivo costituisce inoltre, coerentemente con la finalità essenzialmente liquidatoria del risanamento mediante cessione dei complessi aziendali, una vera e propria fase sub procedimentale, dotata di organicità che si colloca in via di successione necessariamente consequenziale a quella di accertamento del passivo ed ordinariamente si accompagna nello svolgimento, senza attenderne l’esaurimento, a quella di liquidazione dell’attivo”, sic in L. PANZANI, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, in Il diritto privato nella giurisprudenza (a cura di) Paolo Cendon, Utet, Torino, 2002, p. 346.
[12] SCHIANO DI PEPE, Il diritto fallimentare riformato, Padova, 2007, 696. Si veda anche su tema, BONSIGNORI, Processi concorsuali minori, Padova, p. 117, 501.
[13] “Art. 8, Sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza.
1. Con la sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza il tribunale:
a) nomina il giudice delegato per la procedura;
b) nomina uno o tre commissari giudiziali, in conformità dell’indicazione del Ministro dell’industria, ovvero autonomamente, se l’indicazione non è pervenuta nel termine stabilito a norma dell’articolo 7, comma 3;
c) ordina all’imprenditore di depositare entro due giorni in cancelleria le scritture contabili e i bilanci, se non vi si è provveduto a norma dell’articolo 5, comma 2;
d) assegna ai creditori e ai terzi, che vantano diritti reali mobiliari su beni in possesso dell’imprenditore, un termine non inferiore a novanta giorni e non superiore a centoventi giorni dalla data dell’ammissione della sentenza per la presentazione in cancelleria delle domande;
e) stabilisce il luogo, il giorno e l’ora dell’adunanza in cui, nel termine di trenta giorni da quello indicato nella lettera d), si procederà all’esame dello stato passivo davanti al giudice delegato;
f) stabilisce se la gestione dell’impresa, fino a quando non si provveda a norma dell’articolo 30, è lasciata all’imprenditore insolvente o è affidata al commissario giudiziale.
2. La nomina di tre commissari giudiziali è limitata ai casi di eccezionale rilevanza e complessità della procedura.
3. La sentenza è comunicata ed affissa nei modi e nei termini stabiliti dall’articolo 17, primo e secondo comma, della legge fallimentare, salvo quanto previsto dall’articolo 94 del presente decreto. A cura del cancelliere, essa è altresì comunicata entro tre giorni al Ministro dell’industria”.
[14] La fase propriamente giurisdizionale prende avvio con le domande di insinuazione al passivo mediante le quali i creditori concorsuali diventano creditori concorrenti ovvero acquistano il diritto a partecipare alle ripartizioni dell’attivo.
Il procedimento in parola prosegue con l’esame delle domande presentate dai creditori a cura del commissario straordinario, il quale predispone il progetto di stato passivo; successivamente, si procede all’adunanza di verificazione, durante la quale il giudice delegato si pronuncia su ciascuna domanda con decreto. Completato l’esame di tutte le domande, e assunte tutte le decisioni ad esse relative, il giudice delegato, alla stessa udienza lo rende esecutivo con decreto depositato in cancelleria (art. 96, co. 5).
Il commissario straordinario deve, dunque, dare sollecita comunicazione a ciascun creditore dell’esito della sua domanda e dell’avvenuto deposito dello stato passivo in cancelleria, informandolo del diritto di proporre opposizione in caso di mancato accoglimento. Sul punto cfr. F. ALDRIGHETTI- R. SAVARIS, I sistemi di gestione delle crisi di impresa, Dipartimento di informatica e Studi aziendali,  Università di Trento, 2008.
[15]“Art. 53. Accertamento del passivo.
1. L’accertamento del passivo prosegue sulla base delle disposizioni della sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza, secondo il procedimento previsto dagli articoli 93 e seguenti della legge fallimentare, sostituito al curatore il commissario straordinario.
2. Se è ammessa all’amministrazione straordinaria una società con soci illimitatamente responsabili si applicano altresì le disposizioni dell’articolo 148, terzo, quarto e quinto comma, della legge fallimentare.”
[16] Cfr. L. PANZANI, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, in Il diritto privato nella giurisprudenza (a cura di) PAOLO CENDON, cit., p. 280.
[17] “Si è voluto, anticipando comunque i tempi di verifica dei crediti, specificatamente evitare in partenza i ritardi che invece si produrrebbero se si dovesse attendere l’insuccesso del tentativo di risanamento in senso proprio per iniziare tale verifica. D’altra parte, anche nell’ambito del programma di ristrutturazione la verifica dei crediti ha una sua utilità: perché ovviamente consente di individuare con precisione l’esposizione debitoria alla quale si dovrà far fronte”, in A. NIGRO, D. VATTERMOLI, Diritto della crisi delle imprese – Le procedure concorsuali – , cit., pag.462.
[18] Sul tema si veda: C. FERRI, La ripartizione dell’attivo nel fallimento, in Riv. Dir. Proc., 2006, p. 1281 ss..
[19] Le modifiche alla legge fallimentare succedutesi negli ultimi anni sono state apportate attraverso i seguenti interventi normativi: D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito in L. 14 maggio 2005, n. 80; D.L. 30 dicembre 2005, n. 273 convertito in L. 23 febbraio 2006, n. 51; D. lgs. 9 gennaio 2006, n. 5; D. lgs. 12 settembre 2007, n. 169; L. 18 giugno 2009, n. 69; e, infine, D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni in L. 30 luglio 2010, n.122.
Il processo riformatore è sintetizzabile in tre step, in particolare:
– il d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. con la l. 14 maggio 2005, n. 80, che ha modificato in alcune parti la disciplina della revocatoria fallimentare e quella del concordato preventivo;
– il d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 – emanato in attuazione della delega contenuta nell’art. 1, co. 5 e 6, della l. n. 80/2005 e intitolato «riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali» – che ha innovato in molti aspetti la disciplina del fallimento ed ha soppresso l’amministrazione controllata;
– il D.Lgs. 12 settembre 2007, n.169, c.d. «correttivo» – emanato in attuazione dell’art. 1, co. 5 – bis della l. n. 80/2005 (inserito nell’art. 1 L. 12 luglio 2006, n. 228), che ha previsto la possibilità di emanare disposizioni «correttive ed integrative» del D.Lgs. n. 5/2006 – che ha integrato, talvolta modificandolo, il decreto del 2006, intervenendo altresì sulla disciplina della liquidazione coatta amministrativa.
Sulla riforma fallimentare, si ritiene opportuno citare, fra gli altri, A. NIGRO, D. VATTERMOLI, Diritto della crisi delle imprese – Le procedure concorsuali – ,cit., p. 28 ss.; PICCININNI C.-SANTARONI M., (a cura di) Crisi d’impresa e riforma della legge fallimentare, Bancaria Editrice, 2002; NIGRO-SANDULLI (a cura di), La riforma della legge fallimentare, Torino, 2006; S. AMBROSINI, La riforma della legge fallimentare. Profili della nuova disciplina, Torino, 2006; S. BONFATTI – P.F. CENSONI, Le disposizioni correttive ed integrative della riforma della legge fallimentare (manuale di diritto fallimentare), Padova, 2008; G. FAUCEGLIA, Fallimento e altre procedure concorsuali, (a cura di) L. PANZANI, Torino, 2009; S. AMBROSINI, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Padova, 2008; L. GUGLIELMUCCI, Diritto fallimentare, Torino, 2008; P. PAJARDI, Codice del fallimento, (a cura di) M. BOCCHIOLA e A. PALUCHOWSKI, Milano, 2009; P. DEMARCHI, Fallimento ed altre procedure concorsuali, Milano, 2009.
[20] Il progetto di ripartizione è presentato al giudice delegato il quale ne ordina il deposito in cancelleria disponendo che tutti i creditori, compresi quelli il cui credito sia in contestazione in un giudizio di opposizione, di impugnazione dell’ammissione o di revocazione, Cfr. M. MONTANARI, I procedimenti di liquidazione e ripartizione dell’attivo fallimentare, Cedam, Padova, 1995, p. 408.
L’avviso deve essere dato con raccomandata con avviso di ricevimento o con altra modalità telematica con garanzia di avvenuta ricezione. In merito alla comunicazione per via informatica, la stessa deve ritenersi possibile solo se il creditore abbia richiesto tale modalità indicando nella domanda di ammissione l’indirizzo di posta elettronica.
[21] Cfr. V. ZANICHELLI, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali dopo il D.Lgs. 12.9.2007 n.169, Utet, Torino, 2008, p. 317.
[22] Cfr. L. GUGLIELMUCCI, Diritto fallimentare, Giappichelli, Torino, 2008, p. 245.
[23] Peraltro, come rilevato da parte della Dottrina, ai sensi dell’art. 152 c.p.c. i termini stabiliti dalla legge per il compimento degli atti del processo sono da considerarsi ordinatori salva la diversa previsione ex lege, L. PANZANI, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, in Il diritto privato nella giurisprudenza (a cura di) Paolo CENDON, cit., p. 347 ss..
[24] Cfr. G. Lo CASCIO, Commentario alla legge sull’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, Ipsoa, Milano, 2000.
Ne consegue che, al di là del termine previsto dalla legge, “i riparti debbono essere fatti ogniqualvolta l’attivo realizzato lo giustifichi e sul puntuale adempimento di tale potere il giudice può effettuare un opportuno controllo”, Cfr. V. ZANICHELLI, op. cit., p. 317.
[25] Effettuato il deposito, ai sensi dell’art. 110 c. 3°, «i creditori entro il termine perentorio di quindici giorni dalla ricezione della comunicazione di cui al c. 2°, possono proporre reclamo al giudice delegato contro il progetto di riparto ai sensi dell’art. 36», che disciplina il reclamo contro gli atti del curatore (sostituito dal commissario straordinario nell’ambito della procedura di amministrazione straordinaria).
Si rammenta che, in virtù del rinvio di cui all’art. 67 D.Lgs. 270/1999, devono ritenersi in via interpretativa estensibili all’amministrazione straordinaria le opzioni interpretative adottate in ambito fallimentare con riferimento al reclamo ex art. 36 L.F. avverso il progetto di riparto, nonché alla disciplina degli accantonamenti. Per quanto concerne la disciplina del reclamo, prima del «decreto correttivo» del 2007, lo stesso andava proposto nelle forme di cui all’art. 26, che disciplina il reclamo avverso i provvedimenti del giudice delegato. In tale prospettiva, si accreditava l’idea che, una volta comunicato, il progetto di riparto divenisse atto del giudice delegato e non del curatore (i.e. commissario straordinario nella procedura di amministrazione straordinaria).
Tuttavia, al giudice delegato non è richiesto di approvare il progetto, egli emette un mero ordine di deposito, pertanto la conseguenza della previsione normativa ante – riforma era che veniva ad essere reclamato un provvedimento dovuto e sostanzialmente di natura amministrativa (ordine di deposito), quale mezzo indiretto per impugnare il vero oggetto della contestazione e cioè il progetto predisposto dal curatore.
Nonostante tale riforma, sussiste il problema connesso al fatto che il giudice delegato, se riscontra un errore di diritto nel progetto, non può intervenire per correggerlo, ma deve limitarsi a disporre il deposito dello stesso in cancelleria. Di talché, nella fase dei riparti, la tutela dei diritti dei creditori e, quindi, affidata ai creditori medesimi mediante la proposizione di reclami. Gran parte della dottrina, ritiene tuttavia che non si possa negare al giudice il potere di non ordinare il deposito del progetto se ritiene violato non già l’interesse del singolo creditore, al quale solo è riservata la facoltà di contestare, ma l’interesse della massa come può avvenire nel caso in cui non sia stata rispettata la riserva minima obbligatoria nelle ripartizioni parziali.
Per approfondimenti sul tema si consultino: V. ZANICHELLI, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali dopo il D.Lgs. 12.9.2007, n, 169,Utet, Torino, 2008; A. RUGGERO, Il nuovo diritto fallimentare, diretto da A. JORIO, coordinato da M. FABIANI, Tomo II, Bologna, 2006, p. 1825 e ss.; G. BOZZA, La tutela dei diritti nella ripartizione dell’attivo, in La tutela dei diritti nella riforma fallimentare, Scritti in onore di G. LO CASCIO, a cura di M. FABIANI e A. PATTI, Vicenza, 2006, p. 201 e ss..
[26] “È ammissibile il ricorso per cassazione a norma dell’art. 111 Cost. contro il provvedimento pronunciato dal tribunale in sede di reclamo avverso il decreto del giudice delegato che approva e rende esecutivo il piano di riparto, trattandosi di provvedimento idoneo ad incidere in via definitiva e con forza di giudicato sostanziale sui diritti del creditore”, (Cass. Civ.,sez. I  21-2-2001, n. 2493, MGC, 2001, 287).
[27] Per quanto concerne l’accantonamento operato dal giudice delegato, occorre precisare, che lo stesso si riferisce alle somme indicate nel progetto e di cui un terzo eventualmente contesta l’attribuzione al creditore; se, invece, a proporre reclamo è un creditore pretermesso le somme eventualmente a lui spettanti devono essere prelevate, in caso di accoglimento del reclamo, da quelle accantonate e non destinate alla ripartizione, poiché, diversamente, dovrebbe essere rimodulato l’intero progetto.
[28] Cfr. S. BONFATTI, P. F. CENSONI, Manuale di diritto fallimentare – Terza Edizione – , CEDAM, Padova, 2009, p. 402.
[29] L’art. 111 della L.F. prevede che «le somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo siano erogate nel seguente ordine:
– per il pagamento dei crediti prededucibili;
– per il pagamento dei crediti ammessi con prelazione sulle cose vendute secondo l’ordine assegnato dalla legge;
– per il pagamento dei creditori chirografari, in proporzione all’ammontare del credito per cui ciascuno di essi fu ammesso, compresi i creditori indicati al n. 2, qualora non sia ancora stata realizzata la garanzia, ovvero per la parte per cui non rimasero soddisfatti da questa.
Sono considerati debiti prededucibili quelli così qualificati da una specifica disposizione di legge, e quelli sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla presente legge; tali debiti sono soddisfatti con preferenza ai sensi del primo comma n.1».
Sul tema si veda: F. LAMANNA, La disciplina della ripartizione dell’attivo, in Fallimento, 2005, p. 1069 ss.
In A. NIGRO – D. VATTERMOLI, Diritto della crisi delle imprese – Le procedure concorsuali, cit., a pagina 248, si legge l’osservazione a mente della quale “È questa la disciplina che traduce sul piano del diritto positivo il principio della par condicio creditorum che assume il rango di principio organizzativo centrale del fallimento (e, più in generale di tutte le procedure concorsuali), fondamentale anche quale canone di ricostruzione, interpretazione ed applicazione della disciplina che governa la crisi di impresa”. Occorre osservare, inoltre, che l’art. 20, nonché l’art. 52 del D.Lgs. 270/1999, statuiscono che «i crediti sorti per la continuazione dell’esercizio dell’impresa e la gestione del patrimonio del debitore dopo la dichiarazione dello stato di insolvenza sono soddisfatti in prededuzione, a norma dell’art. 111, primo comma, numero 1) della legge fallimentare». Per maggiori approfondimenti sul tema si veda: E. MARINELLI, I crediti prededucibili nel fallimento, Cedam, Padova, 1998; G. ALESSI, I debiti di massa nelle procedure concorsuali, Giuffrè, Milano, 1987.
Per quanto attiene ai crediti prededucibili, ai sensi dell’art. 111 L.F., gli stessi sono considerati “al primo posto” nell’ordine dei pagamenti. Il Ferraro osserva al riguardo che”qualora il commissario non si attenga a queste regole di soddisfacimento incorre in responsabilità personale. Tuttavia, perché si verifichi un inadempimento, devono sussistere sia la scadenza del debito, sia la disponibilità di mezzi liquidi utilizzabili per il suo soddisfacimento. Al riguardo, assume importanza la natura conservativa e risanatoria dell’amministrazione straordinaria che, di per sé, lascia ampi margini di discrezionalità agli organi della procedura. Ciò nonostante, la discrezionalità del commissario straordinario non è assoluta e insindacabile, nel senso che può sfociare in mero arbitrio, ma è una discrezionalità tecnica, vincolata a quanto espressamente stabilito nel programma e nel piano di risanamento. Di talché, fino a quando sussiste incapienza dell’attivo, in quanto si dà regolare corso alla fase risanatoria, non è configurabile un inadempimento degli organi della procedura per crediti prededucibili scaduti. In particolare, non vi è mora debendi nel caso in cui, nonostante la scadenza del debito, il commissario non abbia potuto liquidare ancora l’attivo perché costituito da beni aziendali indispensabili per la continuazione dell’esercizio dell’impresa oppure non abbia liquidato l’attivo senza nessuna negligenza, ad esempio per l’infruttuoso esperimento della vendita dei beni o della cessione dell’azienda. Di converso il commissario diventa inadempiente quando avendo disponibilità liquide sufficienti non provveda al pagamento dei debiti della massa”, P. P. FERRARO, I debiti di massa nell’amministrazione straordinaria: ancora una questione di legittimità costituzionale, in Rivista giur. di merito, n. 2, Marzo – Aprile 2001.)
A differenza delle altre procedure concorsuali, e soprattutto del fallimento, nell’ambito della procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, il legislatore ha individuato specificatamente i crediti afferenti alla classe dei crediti in prededuzione, non lasciando alcuno spazio a possibili dubbi interpretativi.
Invero, alla luce del disposto normativo dianzi illustrato, la prededucibilità è collegabile a tutti i crediti sorti dopo la dichiarazione dello stato di insolvenza, per la gestione del patrimonio del debitore e la continuazione dell’impresa, a prescindere dall’effettiva apertura della procedura, nonché quelli qualificati come crediti prededucibili da una specifica disposizione di legge.
Si rileva, altresì, che la disciplina della prededucibilità è applicabile sia nell’ipotesi in cui la gestione dell’impresa venga lasciata all’imprenditore (debitore), sia nell’ipotesi di affidamento della gestione al commissario giudiziale. Al riguardo occorre, tuttavia, precisare che il debitore può dar luogo a debiti rientranti nella categoria dei crediti prededucibili sino al termine ultimo in cui può mantenere la gestione, ossia sino all’apertura della procedura di amministrazione straordinaria, ovvero, sino alla dichiarazione di fallimento. Inoltre, relativamente ai crediti prededucibili sorti per effetto di atti posti in essere dal debitore non autorizzati dal giudice delegato, si è sostenuta la tesi secondo cui, in mancanza di dichiarazione di inefficacia, i crediti prededucibili devono comunque ricevere tutela, finché i soggetti legittimati (ovvero i creditori anteriori alla dichiarazione dello stato di insolvenza), non facciano valere l’inefficacia relativa degli atti non autorizzati.
Occorre precisare che, nonostante l’interpretazione letterale della norma, la prededucibilità potrebbe essere sostenuta anche per alcuni crediti sorti prima della dichiarazione dello stato di insolvenza, purché sostenuti al fine di consentire l’apertura della procedura di amministrazione straordinaria (ad esempio, gli oneri sostenuti per la presentazione del ricorso per la dichiarazione dello stato di insolvenza. Sul tema si veda, per Tutti, C. COSTA, L’amministrazione straordinaria della grandi imprese in stato di insolvenza, UTET, Torino, 2008, p. 122.
La ratio del disposto normativo sin qui analizzato è da ricercare nell’esigenza di facilitare la prosecuzione dell’attività di impresa e rendere possibile l’obiettivo del risanamento.
Un altro aspetto rilevante riguarda la circostanza che ai crediti prededucibili non si applica la sospensione degli interessi ex art. 55, primo comma, L.F., in quanto quest’ultima concerne esclusivamente i crediti sorti anteriormente alla dichiarazione dello stato di insolvenza e non quelli sorti successivamente; viepiù, con riferimento a detti crediti non è possibile che si configuri una situazione di inadempimento o ritardo nell’adempimento imputabile agli organi della procedura. “Tale principio, tuttavia, conosce talune eccezioni: (a) allorché il ritardo sia imputabile a negligenza del curatore (Cass. 4957/92, GC, 1993, I); ovvero (b) venga disposta la continuazione dell’esercizio dell’impresa: in tal caso la procedura risponde direttamente delle obbligazioni ad essa inerenti come debiti di massa onde per questi crediti il trattamento del credito principale si estende agli accessori (Cass. 10639/97, MGC, 1997)”, L. PANZANI, Il fallimento e le l altre procedure concorsuali, in Il diritto privato della giurisprudenza, cit., p. 349.
[30] La disciplina che i crediti tardivi ricevono nel fallimento si applica anche nell’ambito della procedura di amministrazione straordinaria, atteso che, come più volte rilevato, l’art. 67 del D.Lgs. 270/1999 fa specifico rinvio all’art. 112 L.F.: ivi si statuisce, con prescrizione che risulta riguardare solo i creditori chirografari, che «i creditori ammessi a norma dell’articolo 101 concorrono soltanto alle ripartizioni posteriori alla loro ammissione in proporzione del rispettivo credito, salvo il diritto di prelevare le quote che sarebbero loro spettate nelle precedenti ripartizioni se assistiti da cause di prelazione o se il ritardo è dipeso da cause ad essi non imputabili”.
[31] Per quanto attiene alle modalità di accertamento della sussistenza e dell’entità dei crediti, l’articolo 111 bis L.F. prevede, al primo comma, che i crediti prededucibili siano assoggettati al procedimento di accertamento dello stato passivo, ovverosia, «devono essere accertati con le modalità di cui al capo V («Dell’accertamento del passivo e dei diritti mobiliari di terzi» esso comprende gli articoli 92 -103”) con esclusione di quelli non contestati per collocazione e ammontare, anche se sorti durante l’esercizio provvisorio, e di quelli sorti a seguito di provvedimenti di liquidazione di compensi dei soggetti nominati ai sensi dell’art. 25; in quest’ultimo caso, se contestati devono essere accertati con il procedimento di cui all’art. 26». Dalla previsione normativa in esame si evince che i crediti attinenti a soggetti che prestano la loro opera all’interno della procedura (ossia, delegati, avvocati, coadiutori, stimatori ecc.), il cui compenso è liquidato dal giudice delegato ex art. 25, comma 1, n. 4, non sono soggetti ad accertamento e, dunque, non sono tenuti all’insinuazione al passivo secondo le norme del Capo V, salvo contestazioni, in tal caso, sono soggetti a “controllo” ai sensi dell’art. 26 L.F.. Tutti gli altri crediti, salvo quelli contestati per collocazione e ammontare, sono assoggettati alla procedura prevista dagli art. 92 e ss. L.F..
I crediti prededucibili subiscono il procedimento di accertamento dello stato passivo, con la modalità delle insinuazioni tempestive oppure tardive anche per quanto attiene al momento in cui sono sorti. Relativamente a tale punto occorre rilevare che la disciplina introdotta dalla riforma del 2006 (l’art. 111 bis L.F. è stato introdotto dall’art. 100 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, e disponeva al secondo comma che «per i crediti prededucibili sorti dopo l’adunanza di verificazione dello stato passivo ovvero dopo l’udienza alla quale essa sia stata differita, si provvede all’accertamento ai sensi del secondo comma dell’art. 101». Tale comma è stato abrogato, successivamente, dall’art. 8 del D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169) condusse ad una duplice problematica:
a) il mancato coordinamento della disciplina generale dell’accertamento dello stato passivo con le disposizioni speciali concernenti la verifica dei crediti prededucibili;
b) un errore concettuale sulle cause di insinuazione tardiva al passivo fallimentare.
Per quanto attiene al punto sub a), l’art. 111 bis, co. 2 L.F., nel disporre l’applicabilità delle disposizioni in materia di insinuazione tardiva ai soli crediti prededucibili sorti e, conseguentemente, insinuati «dopo l’adunanza di verificazione dello stato passivo ovvero dopo l’udienza alla quale essa sia stata differita», comportava che tutti i crediti prededucibili insinuati precedentemente dovessero essere assoggettati alla disciplina di domande di ammissione tempestive (a norma dell’art. 101 L.F., si possono ritenere tempestive le domande depositate in cancelleria entro il termine «di trenta giorni prima dell’udienza fissata per la verifica dello stato passivo»).
Relativamente al punto sub b), l’art. 111 bis statuiva l’applicabilità delle disposizioni sulla verifica delle domande tardive per i crediti prededucibili «sorti» dopo un determinato momento.
L’errore concettuale risiede nella terminologia utilizzata dal legislatore, in quanto, laddove vi fossero stati crediti «sorti» prima dell’adunanza di verificazione dello stato passivo e, comunque, non insinuati, si poteva presumere che gli stessi non potessero essere assoggettati alla disciplina delle domande tardive di cui all’art. 101 L.F., ancorché, appaia ovvio che la disciplina in parola debba essere applicata a tutte le pretese (incluse quelle prededucibili) insinuate oltre il termine di trenta giorni prima dell’udienza fissata per la verifica del passivo.
Il D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169 ha posto fine alle difficoltà interpretative relative al secondo comma dell’art. 111 bis L.F., in quanto ha previsto l’abrogazione dello stesso uniformando, in tal modo, la disciplina dell’accertamento dei crediti prededucibili a quella dei crediti non prededucibili, anche sotto il profilo dei presupposti di applicabilità della disposizioni della verifica tempestiva o tardiva, F. BONFATTI, P. F. CENSONI, Le disposizioni correttive ed integrative della riforma della legge fallimentare, cit., p.404.
L’art. 111 bis dispone al secondo comma che «I crediti prededucibili vanno soddisfatti per il capitale, le spese e gli interessi con il ricavato della liquidazione del patrimonio mobiliare e immobiliare, tenuto conto delle rispettive cause di prelazione, con esclusione di quanto ricavato dalla liquidazione dei beni oggetto di pegno ed ipoteca per la parte destinata ai creditori garantiti». Su tale aspetto, si evidenzia come il legislatore abbia accolto un orientamento che si andava sempre più affermando in giurisprudenza, ovvero, che ai crediti prededucibili dovevano essere anteposti quelli assistiti da garanzie reali speciali, sui quali potevano essere fatte gravare solo le spese relative all’amministrazione e liquidazione del bene oggetto della prelazione. Questo orientamento era fondato oltre che sulla norma dell’art. 109, 2°comma, relativa al ricavato dei beni immobili, anche e, soprattutto, sulla considerazione che le spese generali dell’amministrazione fallimentare vengono sostenute nell’interesse della collettività dei creditori e non possono perciò essere fatte gravare sui creditori assistiti da garanzie reali speciali, portatori di un interesse eterogeneo e spesso confliggente con quello degli altri creditori. Da tale assunto, si sarebbe dovuto enucleare un principio generale di anteposizione ai crediti prededucibili i tutti i crediti assistiti da prelazione su beni determinati, ma il principio avrebbe trovato un ostacolo rappresentato dalla disciplina della collocazione dei privilegi speciali mobiliari, in quanto, ai sensi degli artt. 2777 e ss. C.C., ai privilegi speciali mobiliari sono spesso anteposti i privilegi generali sui mobili, pertanto, se a questi vanno necessariamente anteposte le spese generali di amministrazione, l’attribuzione al creditore privilegiato del ricavato della vendita del bene mobile oggetto della prelazione speciale, depurato delle sole spese di amministrazione di quel bene, sarebbe impossibile. In tale prospettiva, già in giurisprudenza si era previsto di anteporre ai crediti in prededuzione i soli crediti assistite da garanzie reali speciali. Il legislatore, con l’art. 111 bis, “ha pertanto confermato la prevalenza dei crediti prededucibili su crediti assistiti da privilegi anche speciali, ma non da garanzie reali”, L. GUGLIELMINUCCI, Diritto fallimentare, cit..
La disposizione normativa ha, dunque, definitivamente eliminato la diatriba creatasi in giurisprudenza tra coloro i quali ritenevano che i creditori pignoratizi e ipotecari dovessero avere la precedenza sul ricavato della liquidazione dei beni assistiti da garanzie reali e coloro, che, di converso, assoggettavano il ricavato derivante da tali beni al concorso con i creditori in prededuzione, sostenendo che dal ricavato della liquidazione di detti beni dovesse essere detratto un importo proporzionale dell’intero ammontare dei debiti di massa, a qualunque titolo contratti , da calcolarsi in rapporto al valore degli altri cespiti attivi. Cfr. R. PROVINCIALI, Trattato di diritto fallimentare, Giuffrè, Milano, 1974, p. 1660).
[32] Per garantire una corretta e agevole applicazione del principio della par condicio creditorum, il legislatore della riforma ha introdotto l’art. 111 ter  relativo ai “conti speciali”. In particolare, la norma dispone che «La massa liquida attiva immobiliare è costituita dalle somme ricavate dalla liquidazione dei beni immobili, come definiti dall’art. 812 del codice civile, e dei loro frutti e pertinenze, nonché della quota proporzionale di interessi attivi liquidati sui depositi delle relative somme.
La massa liquida attiva mobiliare è costituita da tutte le altre entrate.
Il curatore deve tenere un conto autonomo delle vendite dei singoli beni immobili oggetto di privilegio speciale e di ipoteca e dei singoli beni mobili o gruppo di mobili oggetto di pegno e privilegio speciale, con analitica indicazione delle entrate e delle uscite di carattere specifico e della quota di quelle di carattere generale imputabili a ciascun bene o gruppo di beni secondo un criterio proporzionale».
Il legislatore, così statuendo, ha astratto dal dato reale, costituito dal comportamento assunto da ogni professionista (n.q. di commissario straordinario nell’amministrazione straordinaria) al fine di effettuare un corretto e preciso progetto di ripartizione, un dato normativo.
Pertanto, il commissario straordinario è tenuto a tenere i cosiddetti «conti speciali», ovvero, una contabilità autonoma e dunque facilmente ricostruibile delle varie masse attive nell’ipotesi che la liquidazione abbia interessato beni di categorie cui si riferisce un distinto regime giuridico nella ripartizione. Non è necessario tenere anche separati depositi, ancorché ciò possa facilitare, in casi particolari, gli interessi maturati su ogni singolo conto.
L’attivo fallimentare può essere costituito da due sole masse liquide:
– la massa liquida immobiliare che è costituita dal ricavato della liquidazione dei beni immobiliari rientranti nella definizione di cui all’art. 812 c.c., oltre che dei loro frutti e delle pertinenze, nonché della quota proporzionale di interessi attivi liquidati sui depositi delle relative somme;
– la massa liquida attiva mobiliare in cui confluiscono tutte le altre entrate.
[33] Cfr. L. GUGLIELMUCCI, Diritto fallimentare, cit., p. 247 – 249.
[34] Il prospetto delle somme disponibili consiste nella rappresentazione del complessivo ammontare delle somme entrate, della provenienza delle stesse, di quelle erogate per spese della procedura, dei pagamenti fatti, del saldo attivo del conto bancario, della somma che si intende ripartire e di tutto ciò che attiene agli importi liquidabili ai creditori. Esso è fondamentale per individuare l’ammontare del netto distribuibile ai creditori.
[35] La distinzione appare fondamentale nel sistema distributivo attesa la presenza di prelazioni che operano soltanto sul ricavato immobiliare (ipoteche e privilegi immobiliari) e di altre che operano soltanto sul ricavato mobiliare (pegni e privilegi mobiliari), di altre ancora che operano prima su una massa e in via sostitutiva sull’altra (privilegi mobiliari con garanzia sussidiaria sugli immobili), per cui, la distinzione viene meno soltanto quando si coinvolgono i creditori chirografari, tali fin dall’inizio o divenuti tali a seguito d’incapienza sul bene oggetto della garanzia speciale. Dinanzi al silenzio della pregressa disciplina fallimentare in ordine alla distribuzione delle spese della procedura tra le stesse e, in particolare, delle spese da attribuire ai beni oggetto di una garanzia specifica, si era arrivati alla conclusione di dover distinguere tra le spese specifiche (quelle resasi necessarie per l’acquisizione, l’amministrazione o per la liquidazione di un determinato bene) e spese generali, che riguardano, invece, l’intera procedura fallimentare; con la conseguenza che dal ricavato di ogni singolo bene andavano detratte tutte le spese specifiche relative a quel bene ed un’aliquota proporzionale alle spese generali. Questo criterio, derivante da una ricostruzione consolidatasi negli anni è stato ripreso dalla nuova disciplina, mediante una rivalutazione e rivitalizzazione dei conti speciali. Questi, come è noto, erano previsti anche nella previgente legge fallimentare nell’ultimo comma dell’art. 107, ma si trattava di una disposizione poco conosciuta e poco studiata, probabilmente perché inopportunamente collocata in una norma che aveva promosso l’esecuzione individuale immobiliare ancora in corso alla data del fallimento, tanto che era nato originariamente il dubbio che la tenuta dei conti speciali fosse richiesta solo nel caso della sostituzione del curatore al creditore precedente. Questa carenza è stata ben colta dal legislatore della riforma, soprattutto nell’ambito del terzo comma dell’art. 111 ter L.F..
Ai sensi del terzo comma dell’art. 111 ter L.F., nell’ambito della massa attiva immobiliare e di quella attiva mobiliare devono essere tenuti conti autonomi per ogni singolo immobile su cui gravi un’ipoteca o un privilegio speciale e per ogni singolo bene mobile o gruppo di beni mobili su cui gravi un pegno o un privilegio speciale. Nel conto vanno riportati analiticamente gli elementi attivi e passivi relativi alla liquidazione e quindi il prezzo, eventuali altre entrate (es. canone di locazione) e gli interessi maturati, così come vanno indicate le spese di conservazione e di liquidazione specifiche del singolo bene, oltre ad una quota, proporzionata al ricavato, delle spese generali. Sul tema, occorre citare tra gli altri, V. ZANICHELLI, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali dopo il D.Lgs. 12.9.2007 n.169, cit., pag. 327; A. Ruggiero, Conti speciali, in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da A. Jorio e coordinato da M. Fabiani, p. 1852 – 1853).
Di qui si evidenzia che l’utilità dei conti speciali concerne soprattutto le ipotesi di cause legittime di prelazione stante la necessità di individuare il netto distribuibile derivante dal bene gravato dal diritto reale di garanzia.
L’art. 111 ter, 3°c., chiarisce, altresì, la distinzione tra spese specifiche e generali e individua il criterio di imputazione delle spese generali nel criterio proporzionale. Si smentisce, dunque, l’impostazione della giurisprudenza che poneva in primo piano il criterio delle utilità, secondo il quale sui beni oggetto di garanzie reali speciali, potevano gravare soltanto gli oneri correlati all’amministrazione e alla liquidazione di tali beni, ovvero attinenti ad attività di amministrazione direttamente rivolte alla conservazione o all’incremento dei beni stessi o comunque destinate a realizzare una specifica utilità a beneficio dei creditori garantiti.
Alla luce di quanto finora illustrato, l’importanza dei conti speciali, ai fini dell’esatta applicazione del principio della par condicio creditorum, si evince dalla circostanza che i creditori che vantano una causa legittima di prelazione sono preferiti rispetto ai chirografari soltanto se il bene oggetto del loro privilegio è presente nella massa attiva fallimentare e nei limiti in cui detto bene risulti capiente rispetto al credito vantato (Cfr. A. NIGRO, D. VATTERMOLI, Diritto della crisi delle imprese – Le procedure concorsuali. cit., p. 248).
La disposizione dell’art. 111 bis, co. 2, deve essere letta in combinazione con il terzo comma dell’art. 111 ter il quale, come illustrato in precedenza, nel disporre della tenuta dei conti speciali, statuisce che nella contabilità relativa a ciascun bene si deve tener conto delle uscite di carattere specifico e della quota di quelle generali imputabile a ciascun bene o gruppo di beni secondo un criterio proporzionale.
Appare evidente che tali spese hanno rilevanza anche per i beni gravati da garanzie reali: in tale prospettiva, la quota spettante ai creditori è al netto dalle spese incontrate dalla procedura per l’amministrazione dei beni vincolati e dalle spese sostenute per la loro liquidazione, nonché da una quota di spese generali.
Pertanto, dalla lettura combinata degli articoli suddetti è possibile desumere che:
– i creditori pignoratizi ed ipotecari hanno la precedenza assoluta sulla quota del ricavato dei beni vincolati al netto delle spese prededucibili strettamente imputabili;
– i titolari di crediti in prededuzione afferenti a spese specificatamente riferibili all’amministrazione e conservazione dei beni potranno rivalersi con prelazione assoluta sulla quota appositamente detratta dal ricavato del bene cui le spese si riferiscono e unitamente agli altri creditori in prededuzione sull’attivo al netto del ricavato di spettanza dei pignoratizi e degli ipotecari;
– i creditori in prededuzione genericamente intesi hanno diritto di rivalersi su tutto il patrimonio, nonché sul residuo del ricavato dalle vendite dei beni ipotecari e pignoratizi (Cfr, V. ZANICHELLI, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali dopo il D.Lgs. 12.9.2007 n.169, cit., p.323).
Per quanto attiene all’effettiva modalità di pagamento del dovuto, l’art. 111 bis , 4° c. statuisce che «i crediti prededucibili sorti nel corso del fallimento che sono liquidi, esigibili e non contestati per collocazione e per ammontare, possono essere soddisfatti ai di fuori del procedimento di riparto se l’attivo è presumibilmente sufficiente a soddisfare tutti i titolari di tali crediti».
Nel caso in cui l’attivo realizzato non fosse sufficiente a garantire il pagamento dei crediti in prededuzione, si applica il disposto dell’ultimo comma dell’art. 111 bis, ovvero, il soddisfacimento avviene sulla base di un piano di riparto predisposto graduando i crediti in prededuzione secondo l’ordine assegnato dalla legge, sulla base della cause di prelazione che li assistono ed in proporzione al loro ammontare. In altri termini, all’interno della procedura si apre un nuovo concorso «sostanziale» rivolto non già a tutta la massa dei creditori, ma ai soli creditori in prededuzione che verranno soddisfatti sulla base del principio della par condicio creditorum. In tal senso: U. AZZOLINA, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, 1961, II, p. 85; F. FERRARA, A. BORGIOLI, Fallimento, Milano, 1995, p. 594; A. NIGRO, D. VATTERMOLI, Diritto della crisi delle imprese – Le procedure concorsuali,cit. p. 250).
[36] Art. 111 quater, Crediti assistiti da prelazione:
I crediti assistiti da privilegio hanno diritto di prelazione per il capitale, le spese e gli interessi, nei limiti di cui all’art. 54 e 55, sul prezzo ricavato dalla liquidazione del patrimonio mobiliare, sul quale concorrono in un’unica graduatoria con i crediti garantiti da privilegio speciale mobiliare, secondo il grado previsto dalla legge» e «i crediti garantiti da ipoteca e pegno e quelli assistiti da privilegio speciale hanno diritto di prelazione per il capitale, le spese e gli interessi, nei limiti in cui gli articoli 54 e 55, sul prezzo ricavato dai beni vincolati alla loro garanzia.
[37] L’art. 54 richiama, sostanzialmente, quanto disposto dal 1°c. dell’art. 2749  c.c.: al riguardo occorre evidenziare come, prima della riforma del 2006, mancando un rinvio all’art. 2749 c.c., sia la dottrina sia la giurisprudenza hanno indagato a lungo la  questione dell’estensione del diritto di prelazione agli interessi sorti dopo la dichiarazione di fallimento. In particolare, la giurisprudenza riteneva che i crediti privilegiati producessero interessi dopo la dichiarazione di fallimento, ma che gli stessi dovessero assumere la posizione chirografaria e maturassero nella sola misura del tasso legale; di converso, in dottrina, ancorché l’art. 54 non facesse esplicito riferimento all’art. 2479, riteneva che agli interessi sorti dopo la dichiarazione dovesse essere esteso il medesimo diritto di prelazione attribuito alla sorte capitale.
La questione era già stata parzialmente risolta dalla Corte Costituzionale, la quale aveva sancito l’incostituzionalità dell’art. 54, 3°c., nel punto in cui non richiamava «ai fini dell’estensione del diritto di prelazione agli interessi, l’art. 2749 c.c.», escludendo in tal modo «senza alcuna ragione giustificatrice» che gli interessi sui crediti privilegiati potessero essere ammessi al passivo fallimentare in via privilegiata e «discriminando così i creditori privilegiati che agiscono in sede concorsuale da quelli che agiscono in sede esecutiva ordinaria» (Cfr. C. Cost., sent. 28-5-2001, n. 162).
Il legislatore del 2006 ha, positivizzato quanto suggerito dalla Corte Costituzionale, introducendo, al terzo comma dell’art. 54, l’esplicito richiamo all’art. 2749 C.C. (Sul tema: S. BONFATTI, Gli interessi sui crediti assistiti da privilegio generale nel fallimento, in Giur. Comm., 1979, I, p. 1048 ss; F. DEL VECCHIO, Le spese e gli interessi nel fallimento, Giuffrè, Milano, 1988; G. RAGUSA MAGGIORE, Il sistema dei privilegi nel fallimento, Giuffrè, Milano, 1968).
.
[38] Cfr. P. PAJARDI, La funzione dell’accantonamento nelle ripartizioni dell’attivo fallimentare, in Dir. fall., 1962, I, p. 57 ss..
[39] In tal senso già G. DE SEMO, Diritto fallimentare, Padova, 1968, p. 453.
[40] Cfr. S. BONFATTI – P.F. CENSONI, Le disposizioni correttive ed integrative della riforma della legge fallimentare (manuale di diritto fallimentare), cit, p. 410.
[41] «Le somme riscosse a qualunque titolo dal curatore sono depositate entro il termine massimo di dieci giorni dalla corresponsione sul conto corrente intestato alla procedura fallimentare aperto presso un ufficio postale o presso una banca scelti dal curatore. Su proposta del curatore il comitato dei creditori può autorizzare che le somme riscosse vengano in tutto o in parte investite con strumenti diversi dal deposito in conto corrente, purché sia garantita l’integrità del capitale.
La mancata costituzione del deposito nel termine prescritto è valutata dal tribunale ai fini della revoca del curatore.
Il prelievo delle somme è eseguito su copia conforme del mandato di pagamento del giudice delegato».
[42] Il deposito deve essere nominativo e determina la liberazione di qualsiasi obbligo e responsabilità del fallimento, in tale prospettiva, ogni altro ulteriore rapporto corre tra i creditori interessati e l’istituto depositario.
Successivamente al deposito può verificarsi una delle seguenti circostanze:
– gli aventi diritto, nei cinque anni successivi al deposito, riscuotono le somme di loro spettanza;
– nei cinque anni successivi al deposito non viene avanzata nessuna richiesta né da parte degli aventi diritto né da parte degli altri creditori rimasti insoddisfatti; in tal caso le somme sono «versate a cura del depositario all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate, con decreti del Ministro dell’economia e delle finanze, ad apposita unità previsionale di base dello stato di previsione del Ministero della giustizia» (art. 117 co. 4);
– le somme non riscosse dagli aventi diritto vengono richieste su ricorso dai creditori rimasti insoddisfatti, in tal caso, «il giudice, anche se è intervenuta l’esdebitazione del fallito, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, su ricorso dei creditori rimasti insoddisfatti che abbiano presentato la richiesta di cui al quarto comma, dispone la distribuzione delle somme non riscosse in base all’articolo 111 fra i soli richiedenti» (art. 117 co.5).
[43] Cfr. U. APICE, Il ruolo del giudice ordinario nel corso dell’amministrazione straordinaria: accertamento del passivo, ripartizione dell’attivo, tutela dei diritti soggettivi, in Incontri di studio del CSM, Frascati 17 – 19.04.2000.
[44] Cfr. A. MAFFEI ALBERTI, Commentario breve alla legge fallimentare, 4° ed., Cedam, Padova, 2000.
[45] L’art. 62 del D.Lgs. 270/1999, 3° comma, prevede che “il valore dei beni è preventivamente determinato da uno o più esperti nominati dal commissario straordinario”.
Come è stato autorevolmente rilevato, da ciò sembra emergere che la necessità di stimare il valore dell’azienda si manifesti espressamente quando l’amministrazione straordinaria sia stata già dichiarata e, in particolare, nel contesto della alienazione dei beni. In realtà, l’opportunità di effettuare una valutazione dell’azienda sottoposta a procedura concorsuale è antecedente e, “in particolare, essa sembra appalesarsi, anzitutto, nella fase precedente all’ammissione alla procedura, ovvero in sede di accertamento dello stato d’insolvenza (art. 3 d.lg. 270/1999). E’ noto, infatti, che, in presenza di crisi d’impresa, le scelte in tema di liquidazione o risanamento devono essere ispirate a criteri che si fondano sul confronto tra i valori da salvaguardare e i costi necessari allo scopo.
In secondo luogo, sembra ravvisarsi l’opportunità del ricorso allo strumento valutativo anche in sede di ammissione alla seconda fase della procedura, quando il Tribunale è chiamato a valutare l’idoneità dell’impresa ad accedere all’amministrazione straordinaria sulla base di requisiti puntualmente definiti. Del resto, in considerazione del fatto che l’ammissione alla procedura non è automatica in quanto, oltre ai criteri previsti dall’art. 2 del d.lg. 270/1999, la legge richiede l’accertamento della sussistenza di «concrete possibilità di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali» (art. 27 D.lg. 270/1999), la necessità di una valutazione sembra porsi già nella fase prodromica alla ammissione.
Ne deriva che, sebbene il momento valutativo si estrinsechi più propriamente nella fase di alienazione dei beni, esso tuttavia costituisce un «filo rosso» che attraversa tutto il procedimento in questione”. Cfr. M. LACCHINI, La valutazione dei complessi aziendali nell’amministrazione straordinaria, in M. LACCHINI, T. SCAFARTO, R. TREQUATTRINI, Conservazione dei valori di impresa e amministrazione straordinaria, Cedam, Padova, 2005, pp. 80-81.
[46] G. ZANDA, La grande impresa. Caratteristiche strutturali e di comportamento, cit., pp. 2-3. Peraltro, com’è stato successivamente rilevato, “per fronteggiare il crescente rischio che deriva dal concomitante operare dell’irrigidimento delle strutture d’impresa e del dinamismo ambientale, il management avverte sempre di più la necessità di studiare e di valutare, nella maniera più sistematica, le prospettiche condizioni dell’environment e di impostare una gestione programmata che permetta di affrontare responsabilmente i problemi d’impresa. Il management, inoltre, si adopera ad elaborare un sistema di strategie e di politiche gestionali capaci di controllare, quanto più è possibile, i mercati, in modo che il processo di programmazione sia conforme alla realtà operativa: e cioè che le ipotesi che stanno alla base dei programmi si realizzino effettivamente. La corrispondenza tra realtà e ipotesi su cui poggia la programmazione è ottenibile con azioni imprenditoriali di tipo adattivo (la gestione viene adattata continuamente al divenire dei fenomeni ambientali) e/o di tipo coattivo (l’ambiente è plasmato in modo da renderlo conforme alle esigenze d’impresa)”, G. ZANDA, M. LACCHINI, G. ORICCHIO, La valutazione del capitale umano dell’impresa, Giappichelli, Torino, 1993, pp. 47 – 48.
[47] “L’impresa deve essere sufficientemente grande da far fronte alle forti necessità di capitale della tecnologia contemporanea. E deve essere, anche, sufficientemente grande da controllare i mercati”. J.K. GALBRAITH, Il nuovo Stato industriale, Einaudi, Torino, 1968, p. 68.
[48] Cfr. G. ZANDA, La grande impresa. Caratteristiche strutturali e di comportamento, cit. p. 41.
[49] “L’impresa, per fronteggiare il crescente rischio, che – a cagione del simultaneo concorso della tendenza all’irrigidimento delle sue strutture e della dinamica sempre più accentuata dell’ambiente – grava sul suo esercizio e per perseguire continuamente un soddisfacente equilibrio economico, opera, o almeno tenta di operare, assiduamente in due operazioni:
1. modifica i suoi processi e le sue combinazioni per adeguarli alle mutevoli condizioni dell’ambiente;
2. cerca di modificare le condizioni dell’ambiente e più precisamente dei mercati in cui opera, influenzando i gusti della clientela mediante la creazione di nuove tendenze nei consumi, oppure indirizzando diligentemente e con opportuni accorgimenti, nel senso voluto, gli utilizzatori intermedi dei suoi prodotti. In altri termini, cerca di creare, sul mercato delle «imperfezioni» che possano risolversi a suo favore”, P. CAPALDO, La programmazione aziendale, Giuffrè, Milano, 1965, pp. 33 – 34.
[50] Il rischio, economicamente inteso, è correlato all’incertezza di tutte le aziende qualunque sia l’oggetto che ne caratterizza la funzione strumentale. In questi termini, il rischio economico non può essere assunto come carattere distintivo di dati classi di aziende: esso, al contrario, qualifica – come condizione di esistenza di ogni azienda – la funzione strumentale e quindi l’oggetto – sia pure differenziato – di tutte le aziende. G. FERRERO, Istituzioni di economia d’azienda, Giuffrè, Milano, 1968, p. 35 e ss.. Sul tema della gestione del rischio nelle imprese, ci sia consentito il rinvio a A. DELLO STROLOGO, Il Risk management nell’economia delle aziende, Aracne, Roma, 2006.
[51] “Il soggetto preposto alle scelte, prima dell’attuazione delle operazioni, ipotizza determinate posizioni, cioè rappresenta una determinata realtà futura; in seguito gli andamenti reali possono risultare conformi alle ipotesi o ancora più favorevoli alle aspettative del soggetto o anche, invece, manifestarsi in modo difforme. La verifica di tale ultimo caso evidenzia errori nella rappresentazione o modifiche, in senso negativo, degli elementi determinanti la realtà. Si parla appunto del rischio come dell’eventualità di uno scostamento negativo fra le ipotesi fatte e gli andamenti reali, cioè fra i dati inseriti nei piani e quelli in seguito verificatisi” C. CARAMIELLO, Programmi e piani aziendali, ISEDI, Milano, 1971, p. 15.
[52] “L’elasticità della gestione è tanto maggiore quanto più facile è la possibilità di sostituire i fattori produttivi superati con i fattori produttivi adatti alle nuove necessità”. Ovviamente, il riferimento è “ad una possibilità economica di sostituzione, non ad una possibilità ad ogni costo”. C. CARAMIELLO, Indici di bilancio: strumenti per l’analisi della gestione aziendale, Milano, Giuffrè, 1993, p. 258. “Si realizza pertanto, pienamente, il concetto di azienda, come sistema economico duraturo e quindi come unità economica, quasi permanente della realtà contemporanea”. S. SARCONE, I gruppi aziendali. Struttura e bilancio consolidato, Giappichelli, Torino, 1993, p. 102.
[53] G. ZANDA, La grande impresa. Caratteristiche strutturali e di comportamento, cit., p. 218 ss. Prosegue l’Autore, “La nozione di sistema non è affatto nuova. Trova i suoi precedenti nella teoria del «Gestalt», la quale, in antitesi con le concettualizzazioni «associazionistiche» (che indagano un fenomeno attraverso un processo che muove dalla scomposizione del fenomeno in parti elementari, prosegue con lo studio delle parti e si conclude con la ricomposizione delle stesse, in vista di trarre dalla sintesi la nozione del fenomeno e notizie circa la sua natura ed il suo modo di funzionare), sostiene che il comportamento del tutto dipende, oltre che dalla natura delle parti componenti, anche dalle relazioni che legano queste ultime. Il tutto è ben più della somma dei singoli elementi costitutivi, perché entrano in gioco, appunto, le relazioni tra le parti”. Sul tema specifico del sistema aziendale si vedano altresì: A. AMADUZZI, L’azienda nel suo sistema e nell’ordine delle sue rilevazioni, Utet, Torino, 1978; A. AMADUZZI, L’analisi dei sistemi nello studio dell’ equilibrio aziendale, in Studi di ragioneria, organizzazione e tecnica economica. Scritti in memoria del Prof. Alberto Riparbelli, Cursi, Pisa, 1975; U. BERTINI, Il sistema d’azienda. Schema d’analisi, Giappichelli, Torino, 1990; G. FERRERO, Impresa e management, Giuffrè, Milano, 1980; F. FONTANA, Il sistema organizzativo aziendale, Angeli, Milano, 1992; O. PAGANELLI, Il sistema aziendale, Clueb, Bologna, 1976; S. SCIARELLI, Il sistema d’impresa, Cedam, Padova, 1991.
[54] Cfr. P. ONIDA, Economia d’azienda, Giuffrè, Milano, 1971, p. 4.
[55] Lo Zappa definisce l’impresa come “un istituto economico duraturo destinato a perdurare che, per il soddisfacimento dei bisogni umani, ordina e svolge in continua coordinazione, la produzione o il procacciamento e il consumo della ricchezza” G. ZAPPA, Le produzioni nell’economia delle imprese, Giuffrè, Milano, 1957, p. 37. Tale impostazione viene ripresa dallo, per il quale “l’azienda è istituto, economico, duraturo, che produce beni e servizi. L’istituto economico è costituito da un sistema di persone (organizzazione), da un sistema di beni (capitale o patrimonio), da un sistema di operazioni (gestione)”. G. ZANDA, Lineamenti di economia aziendale, Edizioni Kappa, Roma, 2004, p. 36.
[56] G. ZANDA, La grande impresa. Caratteristiche strutturali e di comportamento, cit., pp. 224 ss. In particolare, spiega l’Autore che il termine “finalizzato” indica che l’impresa va considerata come un insieme di elementi mutuamente dipendenti orientato verso il conseguimento di particolari e gerarchizzate finalità. La nozione “eccessivamente complesso” sottolinea la numerosità e l’eterogeneità degli elementi che qualificano il sistema aziendale e la difficoltà di comporre le relazioni che li regolano. Il riferimento al termine “probabilistico” deriva dall’instabilità del sistema e dal fatto che l’azienda non può essere intesa come un sistema deterministico, in quanto fondato su previsioni ed eventi non prevedibili in maniera univoca ed inequivocabile. Infine, le vie o meccanismi di regolazione sono gli strumenti che permettono all’impresa di rimanere costantemente orientata verso i propri obiettivi programmati.
[57] P. ONIDA, Economia d’azienda, cit., p. 4.
[58] Il “capitale economico” è quella configurazione del capitale d’impresa stimata allo scopo di individuare il valore stand alone di un complesso aziendale oggetto di trasferimento da parte di un esperto indipendente rispetto alle parti interessate all’operazione. La stima del “capitale economico” deve prescindere, pertanto, da un lato, dalla valorizzazione delle sinergie e, in genere, delle economie/diseconomie che le parti interessate all’operazione di trasferimento possono ottenere dalla stessa, dall’altro lato, dall’effetto economico che determinati fattori (quali l’asimmetria informativa delle parti, lo stato di necessità di una di esse, il differente potere contrattuale dei soggetti coinvolti nell’operazione e così via) denominati “condizioni soggettive di negoziazione” possono avere sul “prezzo” di trasferimento di un complesso aziendale. Il che, peraltro, non significa che la stima di “capitale economico” possa dirsi “oggettiva”: il “capitale economico”, al pari delle altre molteplici configurazioni di capitale individuate nella dottrina economico-aziendale e correntemente stimate nella pratica professionale, infatti, è una quantità astratta variamente configurabile nel suo valore in funzione delle ipotesi e delle stime assunte a fondamento della valutazione.
È concorde opinione della dottrina e dalla prassi valutativa che la stima del capitale economico di un ramo di azienda debba essere ispirata a concetti, criteri e metodologie in grado di esprimere una misura del valore economico del capitale cui possano essere riconosciuti, in misura quanto più possibile soddisfacente, i connotati di: 1) razionalità: nel senso che la stima del valore del capitale economico deve derivare da un processo logico, chiaro e convincente e, come tale, largamente condivisibile; 2) obiettività (o dimostrabilità): il che vuol dire che il processo di valutazione deve essere fondato su dati affidabili, credibili, ma soprattutto controllabili; 3) generalità (o neutralità): nel senso che la stima del valore economico del capitale deve prescindere da effetti contingenti di domanda e offerta, dalle caratteristiche delle parti interessate alla negoziazione e dalla forza contrattuale e abilità negoziale che esse esprimono; 4) stabilità: nel senso che la misura del capitale economico dovrebbe, in qualche misura, essere svincolata da fatti contingenti o da variazioni di prospettive dipendenti più da opinioni soggettive che da consolidati mutamenti dello scenario di riferimento.
Molteplici e variamente classificabili sono le metodologie valutative individuate dalla dottrina e impiegate nella prassi professionale per addivenire ad una stima del valore economico del capitale di un complesso aziendale che realizzi gli obiettivi di cui sopra. Non esiste, infatti, una metodologia valutativa che, in ogni situazione, porti a soddisfare i requisiti sopra menzionati in misura migliore di tutte le altre e, pertanto, possa essere riconosciuta come un metodo universalmente valido per la misura del capitale economico d’impresa.
La scelta della metodologia di valutazione di un complesso aziendale dunque deve essere fondata su di un approccio di tipo contingente nel senso che l’individuazione del metodo più appropriato per la misura del capitale economico dovrà essere funzione delle finalità della stima, della situazione del complesso aziendale oggetto di valutazione e delle informazioni e dei dati disponibili a tale scopo.
A tal fine le metodologie sono classificate in funzione dell’approccio valutativo cui esse si ispirano in:
– metodi diretti (o metodi di mercato o metodi relativi): si tratta di quei metodi che basano la stima del capitale economico di un complesso aziendale sul valore di mercato, eventualmente rapportato a grandezze – fisiche, economiche o finanziarie – ritenute espressive del valore d’impresa di aziende comparabili a quella oggetto di valutazione;
– metodi indiretti: si tratta di quei criteri di valutazione che fondano la stima del valore economico di un complesso aziendale su grandezze proprie dell’impresa da valutare. I metodi in questione possono essere suddivisi a loro volta in:
– metodi fondati sull’attualizzazione dei flussi attesi (reddituali, finanziari o di dividendi) ( );
– metodi fondati su grandezze stock (patrimoniali semplici e complessi);
– metodi fondati su grandezze flusso-stock (metodi misti).
Cfr. G. ZANDA, M. LACCHINI, T. ONESTI, La valutazione delle aziende, cit.
Per una disamina del concetto di capitale economico e delle relative metodologie di valutazione, si veda, inoltre: A. AMADUZZI, La teoria della valutazione dei complessi aziendali, in Rivista di Politica Economica, 1954; E. ARDEMANI, La determinazione del prezzo di cessione, in Saggi di Ragioneria e di Economia Aziendale, Scritti in onore di Domenico Amodeo, Cedam, Padova, 1987; T. BIANCHI, Some Reflections on Economie Value of Production Concern Capital, in Economia Aziendale, 1982; C. CARAMIELLO, La valutazione dell’azienda, Giuffrè, Milano, 1993; M. CATTANEO, Alcune osservazioni sulla scelta della formula di valutazione del capitale economico, in Finanza, Marketing e Produzione, n. 1, 1986; G. CERIANI, Il trasferimento dell’impresa in economia aziendale, Cedarn, Padova, 1990; V. CODA, Introduzione alle valutazioni dei capitali economici d’impresa, Giuffrè, Milano, 1963; G. FERRERO, La valutazione economica del capitale d’impresa, Giuffrè, Milano, 1966; L. GUATRI, La valutazione delle aziende, Teoria e pratica dei paesi avanzati a confronto, Giuffrè, Milano, 1995; L. GUATRI, Trattato sulla valutazione delle aziende, Egea, Milano, 1998; L. GUATRI L. – M. BINI,  La valutazione delle aziende, Egea, Milano, 2005; C. MASINI, La dinamica economica nei sistemi di valori d’azienda: valutazioni e rivalutazioni, Giuffrè, Milano, 1955; M. MASSARI, Il valore “di mercato” delle aziende, Giuffrè, Milano, 1984; P. MELLA, Il valore di cessione. Il capitale economico e l’expected discounted cashflow, in Contabilità & Bilancio, n. 20, 1986; L. OLIVOTTO, La valutazione economica dell’impresa, Cedam, Padova, 1983; P. ONIDA, Le dimensioni del capitale di impresa, Concentrazioni, trasformazioni, variazioni di capitale, Giuffrè, Milano, 1944; P. ONIDA, Osservazioni sulla valutazione delle aziende di produzione in esercizio stimate come complessi oggetti di trasferimento giuridico, in Scritti in memoria di A. Riparbelli, Cursi, Pisa, 1975; O. PAGANELLI, Valutazione delle aziende. Principi e procedimenti, Utet, Torino, 1990; N. ROSSI, Contributi allo studio del capitale-valore nelle imprese, Utet, Torino, 1965; C. SORCI, Note critiche e metodologiche sulla valutazione delle aziende avviate, in Rivista dei Dottori Commercialisti, 1974; L. STAFFICO, Studio delle valutazioni di cessione con particolare riguardo alle imprese, Giuffrè, Milano, 1967; E. VIGANÒ, La natura del valore economico del capitale di impresa e le sue applicazioni, Giannini, Napoli, 1967; G. ZANDA (a cura di), Casi ed applicazioni di valutazione delle aziende, Giappichelli, Torino, 1996; G. ZAPPA, Il reddito d’impresa, Giuffrè, Milano, 1950.
[59] E, ad avviso di chi scrive, di qualsivoglia impresa soggetta a procedura concorsuale. Cfr. M. LACCHINI, T. SCAFARTO, R. TREQUATTRINI, Conservazione dei valori di impresa e amministrazione straordinaria, cit., p.84. Sul tema si veda anche M. LACCHINI, La valutazione del capitale nelle procedure concorsuali, Cedam, Padova, 1998.
[60] Itami definisce le risorse invisibili come “risorse basate sull’informazione o che la incorporano” e, ancora, con riferimento alla distinzione tra risorse materiali e immateriali,  afferma “possiamo cogliere le differenze tra questi due tipi di necessità se riflettiamo per analogia alle risorse necessarie per dipingere quadro. Per dipingere l’artista deve essere fisicamente presente, e deve avere abbastanza denaro per comprare pennelli tele e colori. Le risorse umane fisiche ed economiche sono necessarie per dipingere il quadro, ma non fanno necessariamente un capolavoro. Per questo ci vuole qualcosa d’altro, il senso artistico e la tecnica del pittore: ovvero le sue risorse invisibili”. H. ITAMI, Le risorse invisibili, Gea Isedi, Torino, 1988, p. 36.
[61] S. VICARI, «Invisible Asset» e comportamento incrementale, in Finanza, Marketing e Produzione, n. 1, 1989, p. 66, osserva: “È ormai da tutti riconosciuta l’importanza delle attività immateriali nella capacità dell’ impresa di produrre reddito. […] L’importanza delle risorse immateriali dipende soprattutto dal fatto che il vantaggio competitivo è funzione in primo luogo delle abilità detenute dall’impresa. Il che equivale a dire che l’impresa, la quale disponga delle maggiori risorse immateriali è quella che ha le maggiori probabilità di successo”.
[62] Nell’ottica di spiegazione del valore, i beni immateriali rappresentano una componente dell’avviamento, inteso come goodwill pieno, vale a dire come elemento del valore che distingue la specifica organizzazione/azienda rispetto ad ogni altra, che pure disponga delle medesime risorse patrimoniali. Ai fini della determinazione dell’avviamento dell’azienda, inteso come fattore di creazione di valore generale e non separabile dall’azienda, è perciò necessario enucleare i beni immateriali suscettibili di separato apprezzamento. Cfr. R. FERRATA, Valutare gli intangible tecnologici, Università Bocconi Editore, Egea, Milano, 2006, p. 6.
[63] R. FRANCESCHI FERRARIS, L’azienda: caratteri discriminanti, criteri di gestione, strutture e problemi di governo economico, in E. CAVALIERI, R. FRANCESCHI FERRARIS, Economia aziendale, vol. I, Giappichelli, Torino,  2000, p. 36.
[64] L. MARCHI, Introduzione all’economia aziendale. Il sistema delle operazioni e le condizioni di equilibrio aziendale, Giappichelli, Torino, 2009, pp. 375-377.
[65] L. GUATRI, Trattato sulla valutazione delle aziende, cit. p. 240.
[66] La categoria delle immobilizzazioni immateriali si può scomporre in due raggruppamenti: a) le immobilizzazioni immateriali in senso stretto (beni immateriali) che comprendono brevetti, marchi, diritti di concessione, know how, diritti di utilizzazione delle opere dell’ingegno, avviamento; b) gli altri costi ad utilizzazione pluriennale, la cui iscrizione nell’attivo dello stato patrimoniale è collegata con l’esigenza di ripartirne il costo in più esercizi. Essi comprendono: spese d’impianto e di ampliamento, costi per studi e ricerche, costi di pubblicità, costi di manutenzione e riparazione. L. MARCHI (a cura di), Contabilità d’impresa e valori di bilancio, Torino, Giappichelli, 2002, pp. 275-276.
[67] D. MANCINI, A QUAGLI, L. MARCHI (a cura di), Gli Intangibles e la comunicazione d’impresa, Franco Angeli, Milano, 2003, p. 15.
[68] Cfr. G. ZANDA, M. LACCHINI, T. ONESTI, La valutazione delle aziende, Giappichelli, Torino, 2005, p. 185.
[69] Nel caso, ad esempio dei marchi, “se celebre ed adeguatamente protetto, è in grado di esercitare una considerevole vis attrattiva sul pubblico, così da configurarsi come un fondamentale elemento di marketing. In molti casi, può risultare preferibile, non solo dal punto di vista di stretta convenienza economica, acquistare uno dei pochi marchi famosi esistenti in un settore piuttosto che sostenere, con esito incerto, ingenti spese di marketing e promozione, nel tentativo di affermare un  nuovo marchio”. A riprova di ciò, talvolta, “l’appropriazione di un marchio celebre (e l’ampliamento delle dimensioni di impresa che normalmente essa comporta) è in grado, ad esempio, di soddisfare, al di là di considerazioni puramente economiche le motivazioni dei dirigenti dell’azienda che effettua l’acquisizione”. G. ZANDA, M. LACCHINI, La valutazione dei marchi d’impresa, Cedam, Padova, 1991, p. 5.
[70] G. ZANDA, M. LACCHINI, T. ONESTI, La valutazione delle aziende, cit. , pp. 183 -186.
[71] Ibidem.
[72] Si veda per tutti: G. Brugger, La valutazione dei beni immateriali legati al marketing e alla tecnologia, in Finanza, Marketing e Produzione, n. 1, 1989, p. 43.
[73] In ordine alla classificazione dei beni immateriali, oltre agli studi del Brugger e a quelli effettuati da G. ZANDA, M. LACCHINI, T. ONESTI, La valutazione delle aziende, cit., si ritiene opportuno citare, tra gli altri, R. HALL, The Strategic Analysis of Intangible Resources, in Strategic Management Journal, vol. 13, pp. 135-144, 1992, p. 144, il quale distingue le risorse immateriali in: intangible resources which are assets within or without a legal context (contratti, licenze, intellectual property, trade secret, reputazione, immagine, ecc.) e intangible resources which are skills (a loro volta distinte in know how e organisational culture). Ciascuna di queste quattro aree consente di conseguire un tipo di differenziale competitivo che contribuisce al conseguimento di un vantaggio competitivo per l’azienda; D. MANCINI, A. QUAGLI, L. MARCHI (a cura di), Gli Intangibles e la comunicazione d’impresa, Franco Angeli, Milano, 2003, pp. 15-16, che individuano le seguenti categorie di immobilizzazioni immateriali:
a) risorse immateriali suscettibili di misurazione economica inerenti la formazione del “patrimonio tecnologico” (brevetti, diritti di utilizzazione delle opere dell’ingegno, know how, licenze d’uso di tecnologie, costi di ricerca e sviluppo, ecc.);
b) risorse immateriali suscettibili di misurazione economica inerenti la formazione del “patrimonio commerciale” (marchi, costi di pubblicità, ecc.);
c) risorse immateriali suscettibili di misurazione economica che, per loro natura, non si riferiscono a specifici ambiti produttivi (ad esempio i costi di impianto e di ampliamento);
d) risorse immateriali riferibili a quantità economiche non presenti nel capitale aziendale, in quanto spesate nell’esercizio;
e) risorse immateriali che, prive di una misurazione monetaria, influenzano la gestione aziendale, come ad esempio la creatività, l’intuito, la competenza tecnica, la coesione dei lavoratori, la credibilità dell’ azienda.
L’ultima categoria di risorse individuata, le cosiddette «risorse invisibili», rappresentano, ad avviso degli Autori, un elemento fondamentale per la creazione di un vantaggio competitivo durevole; F. AF PETERSENS, J. BJURSTROM, Identifying and Analyzing “lntangible Assets” in M&A Europe, September-October 1991, p. 41, i quali distinguono gli intangible asset in tre gruppi definiti: human capital, ovvero qualità della leadership, motivazione, know how, commitment, capacità di comprendere e realizzare gli obiettivi, ecc.; market capital, vale a dire la percezione che i consumatori hanno delle caratteristiche e della qualità dell’azienda e dei suoi prodotti; confidence capital, cioè le opinioni e gli atteggiamenti che differenti gruppi di interesse (consumatori, lavoratori, azionisti, politici, comunità finanziaria, ecc.) hanno nei confronti dell’azienda e la capacità da essa mostrata di essere credibile ed affidabile; A. RENOLDI, La valutazione dei beni immateriali. Metodi e soluzioni, Egea, Milano, 1992, pp. 24-25, che fonda la propria classificazione sul criterio dell’identificabilità, per la quale le risorse invisibili dell’impresa possono essere suddivise in due macrocategorie: i beni immateriali in senso stretto, quelli cioè dotati di autonoma rilevanza e, dunque, identificabili (anche se non necessariamente trasferibili); i valori immateriali non suscettibili di specifica individuazione, riconducibili nell’ ambito del valore del goodwill e, per certi aspetti, del going concern value.
[74] Cfr. G. ZANDA, M. LACCHINI, T. ONESTI, La valutazione delle aziende, cit., pp. 189 – 190.
[75] D.lg. 270/1999, art. 63, primo comma.
[76] Ad un’analisi più approfondita, “l’espressione adottata dal legislatore si può prestare a più di una interpretazione. Infatti, il significato che può essere attribuito alla locuzione “tener conto della redditività” può dar luogo, a parere dello scrivente, almeno a due ipotesi interpretative:
a) in una prima ipotesi, la norma potrebbe essere letta nel senso di orientare l’esperto verso l’utilizzo di una metodologia in cui sia presente da sola o assieme ad altre la componente reddituale;
b) in una seconda ipotesi, si potrebbe ritenere la componente reddituale come un mero punto di riferimento, seppure fondamentale, per l’utilizzo di una qualsiasi delle metodologie individuate dalla dottrina e dalla prassi economico-aziendale in tema di valutazioni d’azienda.
Nella ipotesi sub a), la discrezionalità dell’esperto è limitata alla possibilità di optare per una metodologia di tipo reddituale puro o complesso, di tipo misto o anche di tipo diretto con riferimento ai moltiplicatori di mercato basati sui flussi reddituali.
Tuttavia, tenuto conto che i metodi diretti sono sostanzialmente inapplicabili a cagione dell’assenza di dati di mercato significativi relativi a trasferimenti di aziende in amministrazione straordinaria e che la componente patrimoniale per la cessione delle aziende in questione risulta fondamentale, si può concludere che l’unica tipologia di metodi in grado di tener conto sia della componente patrimoniale sia della componente reddituale è rappresentata dall’ampia categoria dei metodi misti.
Nell’ipotesi sub b), l’esperto avrebbe la possibilità di scegliere anche metodologie alternative, come, ad esempio, i metodi finanziari o i metodi patrimoniali semplici o complessi, a condizione che esse siano sottoposte ad adeguata verifica reddituale.
Peraltro, non va sottaciuto che l’utilizzo di metodologie di tipo finanziario può risultare particolarmente difficile per le aziende in questione per i motivi legati alla qualità e alla quantità d’informazioni a disposizione dell’esperto cui si è fatto cenno in precedenza.
Ne consegue che, in pratica, qualunque sia l’ipotesi interpretativa della legge accolta, la metodologia utilizzata più frequentemente nella prassi è rappresentata dal metodo misto anglosassone nella sua espressione più evoluta costituita dall’EVA method.” M. LACCHINI, La valutazione dei complessi aziendali nell’amministrazione straordinaria, in M. LACCHINI, T. SCAFARTO, R. TREQUATTRINI, Conservazione dei valori di impresa e amministrazione straordinaria, cit., pp. 82-83.
[77] Ne consegue che la configurazione di capitale che dovrà essere individuata  è quella nota come “capitale economico” che – come si è avuto modo di precisare – rappresenta quella particolare nozione del capitale d’impresa stimata, da esperti indipendenti, in ipotesi di trasferimento di un complesso aziendale.
[78] Cfr. G. ZANDA, M. LACCHINI, T. ONESTI, La valutazione delle aziende, cit., pp. 298 – 304.
[79] Cfr. M. LACCHINI, La valutazione dei complessi aziendali nell’amministrazione straordinaria, in M. LACCHINI, T. SCAFARTO, R. TREQUATTRINI, Conservazione dei valori di impresa e amministrazione straordinaria, Cedam, Padova, 2005, p. 83.
[80] Sulla determinazione del premio per il rischio ai fini del calcolo del capitale economico d’impresa si vedano: A. BROGLIA GUIGGI, Contributi metodologici alla determinazione del saggio di capitalizzazione nella valutazione economica dell’impresa, in Il Risparmio, n. 5, 1989; V. CODA, Intensità del rischio e saggi di rendimento “soggettivi” per la valutazione del “capitale economico” d’impresa, in Rivista dei Dottori Commercialisti, n. l, gennaio-febbraio 1972; E. CORVI, Considerazioni sulla valutazione del rischio d’impresa nella determinazione del capitale economico d’azienda, in Finanza, Marketing e Produzione, n. 2, 1985; F. DI LAZZARO, I tassi nella determinazione del capitale economico d’azienda, Giuffrè, Milano, 1990; L. Fadda, Il tasso di attualizzazione nella valutazione d’impresa, Giuffrè, Milano, 1994; E.F. FAMA, Risk-adjusted Discount Rate and Capital Budgeting under Uncertainty, in The Journal of Financial Economics, 1977; M. MASSARI, Questioni di metodo a proposito della misurazione del rischio ai fini della valutazione delle aziende; in Finanza, Marketing e Produzione, 1987, G. ZANDA, M. LACCHINI, T. ONESTI, La valutazione delle aziende, cit..
[81] Cfr. M. LACCHINI, La valutazione dei complessi aziendali nell’amministrazione straordinaria, in M. LACCHINI, T. SCAFARTO, R. TREQUATTRINI, Conservazione dei valori di impresa e amministrazione straordinaria, cit., p.84..
[82] Vale a dire l’essere o l’essere stato oggetto di un significativo flusso di investimenti; l’attitudine a generare benefici economici differenziali; la trasferibilità.
[83] L. GUATRI, Trattato sulla valutazione delle aziende, cit. p. 242.
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