di Giusella Finocchiaro e Laura Greco Sommario: 1. Premessa 2. Gli ostacoli; 2.1.…
La nozione di consumatore nella normativa e nella giurisprudenza comunitaria e nazionale
di Andrea Stazi
Estratto da “Il diritto dei consumatori. Profili applicativi e strategie processuali”, a cura di G. Cassano e M.E. Di Giandomenico, Cedam, 2010 La definizione di consumatore viene inserita per la prima volta nel nostro ordinamento in seguito al recepimento della direttiva comunitaria 93/13/CE attuata con la legge 6 febbraio 1996 n. 52, la quale, aggiungendo il Capo XIV-bis al Titolo II del Libro IV del Codice civile, ha introdotto la disciplina sulle clausole vessatorie nei contratti tra professionista e consumatore. L’art. 1469bis c.c., quindi, definiva il consumatore come “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”. In seguito, sempre su impulso del legislatore comunitario, si sono avuti numerosi interventi del legislatore nazionale che, pur prendendo avvio dalla definizione di cui all’art. 1469bis c.c., presentavano lievi modifiche lessicali che hanno fatto insorgere in dottrina e giurisprudenza accesi dibattiti. A mero titolo esemplificativo si ricordano: la legge 5 aprile 1991, n. 126, recante norme per l’informazione del consumatore; il d.lgs. 15 gennaio 1992, n. 50, relativo ai contratti negoziati fuori dai locali commerciali; il d.lgs. 25 gennaio 1992, n. 74 in materia di pubblicità ingannevole; il d.lgs. 15 gennaio 1995, n. 111 in tema di viaggi, vacanze e circuiti tutto compreso; il d.lgs. 9 novembre 1998, n. 427 sulla multiproprietà; il d.lgs. 22 maggio 2002 sulle garanzie nella vendita di beni di consumo. Con il d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, recante il Codice del consumo, tutta, o quasi, la normativa consumeristica prodotta sino a quel momento è stata raccolta in un unico corpo normativo che ha sostituito le raccolte che, a livello dottrinale, erano state promosse al fine di riassumere le sparse norme concernenti i consumatori (ALPA). L’art. 3, lett. a), Cod. cons., riprendendo la definizione di cui al 1469bis c.c,, qualifica, oggi, il consumatore o l’utente come “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”. In linea generale, dunque, è possibile evidenziare come consumatore possa essere esclusivamente una persona fisica, mai una persona giuridica, tranne che nel caso espressamente indicato all’art. 83, lett. c), Cod. cons., relativo ai contratti di servizi turistici in relazione ai quali il consumatore è “l’acquirente, il cessionario di un pacchetto turistico o qualunque persona anche da nominare, purché soddisfi tutte le condizioni richieste per la fruizione del servizio, per conto della quale il contraente principale si impegna ad acquistare senza remunerazione un pacchetto turistico”. La figura del consumatore viene ricavata in stretta connessione con quella di professionista. La definizione di professionista in precedenza vigente, contenuta nell’art. 1469bis, c. 2, c.c., qualificava il professionista come “la persona fisica o giuridica, pubblica o privata, che, nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale, utilizza il contratto di cui al primo comma” ovvero un “contratto concluso tra consumatore e professionista”. La vigente definizione di professionista, contenuta nell’art. 3, lett. c), Cod. cons., lo qualifica come “la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, ovvero un suo intermediario”. Considerata l’anzidetta evoluzione normativa in materia, risulta ora necessario comprendere come la giurisprudenza abbia interpretato tali nozioni. In primo luogo, si consideri che la direttiva comunitaria 93/13/CE non vincolava gli stati alla definizione in essa contenuta, in quanto implicitamente prevedeva anche la possibilità di adottare un regime di tutela del consumatore più severo rispetto a quanto previsto nella direttiva stessa, in forza di quanto previsto all’art. 153, c. 5, del Trattato CE, nonché al tredicesimo considerando e all’art. 8 della medesima direttiva. In questo senso, si comprende come la definizione di consumatore utilizzata nei diversi ordinamenti degli Stati Membri dell’Unione Europea non sia univoca e costante. Volendo esemplificare, è possibile rinvenire Paesi, come la Francia, che hanno preferito non fornire alcuna definizione normativa, lasciando alla giurisprudenza il compito di delinearne i tratti essenziali, e Paesi, come l’Austria, in cui la definizione di consumatore è estremamente dettagliata e la sua applicazione giurisprudenziale altrettanto rigida. Si rinviene, in questa prospettiva, una variabilità talmente rilevante della nozione di consumatore che non risulta possibile delinearne una categoria generale, se non in termini descrittivi. Ciò in quanto nella figura del consumatore non si riscontra l’elemento che qualifica lo status, ossia l’appartenenza istituzionale di un soggetto ad una collettività più o meno estesa. La definizione di consumatore vale piuttosto ad individuare, in termini soggettivi, l’atto di consumo ovvero il negozio posto in essere per finalità prevalentemente personali, ossia non professionali (BENEDETTI). I recenti interventi legislativi sulla definizione di consumatore, d.lgs. n. 146/2007 e 221/2007, attraverso i quali è stata adeguata la definizione di cui all’art. 18, c. 1, lett. a), inerente le pratiche commerciali scorrette, con quella di cui all’art. 3, lett. a) e c), hanno ulteriormente specificato che non sono da ricomprendersi nella categoria dei consumatori coloro i quali agiscono per fini che rientrano nel quadro delle loro attività commerciali, industriali, artigianali o professione. Si tratta, peraltro, di un adeguamento parziale, poiché in sede applicativa non era stato mai posto in dubbio che — al fine dell’individuazione della sfera di interesse in cui far rientrare o meno l’atto di consumo — l’aggettivo “professionale” contenuto nella versione originaria dell’art. 3 potesse includere anche i riferimenti a quella commerciale, industriale o artigianale. In generale, è stato rilevato che la nuova normativa sancisce il passaggio dalla protezione del consumatore quale soggetto debole alla sua considerazione quale operatore economico. In questo modo, tuttavia, la tutela sembra potersi ridurre sia sul piano quantitativo, sia sul piano qualitativo (ROSSI CARLEO). Per quanto sin qui detto, risulta necessario distinguere tra le varie interpretazioni date della nozione di consumatore tanto a livello comunitario quanto a livello nazionale, distinguendo, in quest’ultimo ambito, tra l’interpretazione fornita dalla Corte di Cassazione e quella proposta dai giudici di merito. La Corte di giustizia delle Comunità Europee adotta, generalmente, un’interpretazione restrittiva della nozione di consumatore applicando rigidamente il criterio dello scopo dell’atto. Secondo tale impostazione, è da qualificarsi consumatore unicamente la persona fisica che agisce per il soddisfacimento di esigenze di natura personale o familiare. Viene, dunque, ad essere utilizzato unicamente un parametro oggettivo che tiene conto della natura e delle finalità obiettive dell’atto e dei beni negoziati, senza dare rilievo all’intenzione soggettiva del contraente e ai motivi che lo hanno indotto a stipulare (COREA). La prima volta in cui la Corte di giustizia delle Comunità Europee ha affrontato il tema è stato nel 1991, in relazione all’applicazione della Convenzione di Bruxelles del 1968 avente ad oggetto la deroga alla competenza territoriale del giudice in caso di controversia tra consumatore e professionista. La particolare disciplina istituita dagli artt. 13 e seguenti della Convenzione del 27 settembre 1968 concernente la competenza giurisdizionale e l’ esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale mira a proteggere il consumatore in quanto parte contraente considerata economicamente più debole e meno esperta sul piano giuridico della controparte, così da evitare che egli, vedendosi costretto a proporre l’ azione dinanzi ai giudici dello Stato sul cui territorio è domiciliata la controparte, si senta scoraggiato dall’ adire le vie legali. (Corte giust. com. eu., 29.1.91, C89/91) In seguito, la Corte si è pronunciata sulla nozione di consumatore contenuta nell’appena richiamata Convenzione prospettandone un’interpretazione restrittiva. La nozione di consumatore deve essere interpretata restrittivamente, avendo riguardo al ruolo di tale persona in un contratto determinato, rispetto alla natura ed alla finalità di quest’ultimo. Soltanto i contratti conclusi al fine di soddisfare esigenze di consumo privato di un individuo rientrano nelle disposizioni di tutela del consumatore in quanto parte considerata economicamente più debole. È quindi conforme sia alla lettera, sia allo spirito nonché alla finalità delle disposizioni considerate la conclusione che il particolare regime di tutela da esse istituito riguarda unicamente i contratti conclusi al di fuori ed indipendentemente da qualsiasi attività o finalità professionale, attuale o futura. (Corte giust. com. eu., 3.7.97, C269/95, in Giust. civ., 1998, I, 11) La nozione di «consumatore», come definita dall’art. 2, lett. b), della direttiva del consiglio 5 aprile 1993 n. 93/13/Cee, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, dev’essere interpretata nel senso che si riferisce esclusivamente alle persone fisiche (Corte giust. com. eu., 22.11.01, C541/99 – 542/99, in Resp. civ. prev., 2002, 54). La Corte di Cassazione, seguendo l’impostazione comunitaria, sostiene anch’essa un’interpretazione restrittiva della nozione di consumatore adottando il parametro oggettivo dello scopo dell’atto, secondo quanto precedentemente chiarito. Per escludere la qualifica di consumatore, la Suprema Corte ritiene sufficiente la mera sussistenza di un collegamento funzionale tra il contratto e la professione eventualmente svolta dalla controparte del professionista. Tale orientamento trova fondamento nell’interpretazione letterale del dettato normativo con riferimento all’espressione “scopi estranei”, da intendersi come finalità non connessa, neanche in senso strumentale, ad un’attività professionale. Deve essere considerato consumatore la persona fisica che, anche se svolge attività professionale o imprenditoriale, conclude un qualche contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’esercizio di tale attività, mentre deve essere considerato professionista tanto la persona fisica quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che, invece, utilizza il contratto nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale. […] Perché ricorra la figura del professionista non è necessario che il contratto sia posto in essere nell’esercizio dell’attività propria dell’impresa o della professione, essendo sufficiente che venga posto in essere per uno scopo connesso all’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale. (Cass. civ., 25.7.01, n. 10127, in Giust. civ., 2002, I, 685) Questo orientamento viene ribadito anche in più recenti pronunce: La giurisprudenza consolidata di questa Corte è attestata su una identificazione della qualità di consumatore come soggetto che negozia con il professionista al di fuori di una qualsiasi attività di impresa. Irrilevante a tal fine accertare se l’acquisizione del bene o del servizio avvenga o meno per l’utilizzazione diretta da parte dell’acquirente una volta che risulti accertato, o pacifico che l’acquisizione è finalizzata allo svolgimento di un’attività d’impresa. (Cass. civ., 23.2.07, n. 4208, in Contratti, 2007, 1071) Secondo l’orientamento giurisprudenziale italiano prevalente deve essere considerato consumatore e beneficia della disciplina di cui all’articolo 1469 bis c.c. e segg. (attualmente Decreto Legislativo n. 2006 del 2005, articoli 3 e 33 e segg.) la persona fisica che, anche se svolge attività imprenditoriale o professionale, conclude un qualche contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’esercizio di dette attività; mentre deve essere considerato “professionista” tanto la persona fisica quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che invece utilizza il contratto nel quadro della sua attività imprenditoriale e professionale, ricomprendendosi in tale nozione anche gli atti posti in essere per uno scopo connesso all’esercizio dell’impresa. (Nella fattispecie la controversia verteva sulla qualificabilità di un medico odontoiatra come consumatore in relazione ad un contratto di inserzione pubblicitaria concluso con una casa editrice spagnola) (Cass. s.u., 20. 3.08, n. 7444) Non riveste la qualità di consumatore, e non può quindi invocare a proprio favore la norma dell’art. 1469 bis c.c. la parte contrattuale che abbia stipulato il contratto per pubblicizzare la propria attività commerciale sulle pagine degli elenchi telefonici confezionati dal commissionario. (Cass. civ., ord. 05.06.09, n. 13033, in Mass. Foro it., 2009, 742) Quanto alla qualificazione del contraente come consumatore o professionista, la Suprema Corte ha, altresì, dato rilevanza alle dichiarazioni rese dalle parti in quanto aventi carattere confessorio. Queste dichiarazioni, essendo contenute all’interno dei contratti stipulati comportano, di fatto, una rinuncia delle parti contraenti all’applicazione nel caso concreto della disciplina consumeristica, a prescindere dai dati fattuali. Una clausola di questo tipo, tuttavia, deve ritenersi vessatoria qualora non sia stata precedentemente determinata la natura soggettiva del contratto, non potendo assurgere al valore di prova ai fini dell’applicazione di una delle due discipline. Non solo, in particolare, non si nega che X esercita una attività professionale (come dalla stessa dichiarato non solo nel contratto ma nella stessa carta intestata utilizzata nella corrispondenza anteriore al giudizio e nella stessa citazione in opposizione a decreto ingiuntivo, introduttivo del presente giudizio in primo grado) ma neppure è oggetto di censura l’ulteriore affermazione contenuta nella sentenza gravata quanto alla natura confessoria di quanto dichiarato nel contratto da X, circa la stipulazione del contratto stesso nell’ambito della sua attività professionale. Neppure si contesta, altresì, in ricorso, che la circostanza che la incompetenza di X, quanto alle conoscenze informatiche di cui al pacchetto offerto non poteva essere invocata al fine di ritenere il contratto stesso come concluso da X quale “consumatore”. Anche a prescindere da quanto precede è palese che la verifica, in concreto, se un certo contratto è stato concluso da un operatore giuridico quale “consumatore” o, piuttosto nell’ambito dell’esercizio della sua attività professionale importa un accertamento in fatto, come tale riservato al giudice del merito e non sindacabile in sede di legittimità, ove suffragato da una motivazione adeguata e giuridicamente corretta. (Cass. civ., 5.6.07, n. 13083, in Contratti, 2008, 251) Si discostano, invece, dall’interpretazione della Corte di giustizia delle Comunità Europee e dei giudici di legittimità italiani le corti di merito che risultano essere più propense ad offrire un’interpretazione estensiva della nozione di consumatore. In particolare, queste ultime sembrano fare propria la tesi, di derivazione transalpina, la quale ritiene che la figura del consumatore si caratterizzi non per gli atti posti in essere, ma piuttosto per la debolezza contrattuale che è insita nel suo agire. In tal senso, è stato evidenziato come non sempre tutti i soggetti esclusi dalla categoria dei consumatori siano in grado di porsi allo stesso modo di fronte a determinati contratti, in particolar modo per quelli che non sono strettamente attinenti alla professione esercitata, ma che servono per svolgere la professione. Questi, infatti, pur agendo per scopi professionali o nello svolgimento di un’attività d’impresa, si trovano di frequente, nei confronti della controparte contrattuale, nella stessa situazione di squilibrio economico-informativo che costituisce la ratio della disciplina speciale posta a tutela dei consumatori (GHIDINI). Sul punto si ritiene emblematico il richiamo all’art. 7 del d.lgs. n. 231 del 9 ottobre 2002, sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, il quale detta una tutela della parte debole nell’ambito dei rapporti contrattuali che si svolgono tra imprese. Tale disciplina esprime, attraverso l’intervento equitativo di un soggetto terzo e imparziale, la necessità di proteggere il soggetto più debole della contrattazione dinanzi ad un effettivo squilibrio contrattuale. In questo aspetto, del resto, risulta individuabile la ratio della disciplina consumeristica, che risiede non nella necessità di comprimere l’autonomia privata, bensì nell’intento di sanzionare eventuali abusi, assicurando certezza alle modalità di adempimento dell’obbligazione. Inoltre, deve aggiungersi che mentre per alcuni tipi di acquisti il reperimento delle informazioni è relativamente semplice, o perché il consumatore gode della possibilità d’ispezione — è il caso dei cosiddetti “search goods” — o perché può facilmente verificare le qualità del prodotto dopo averlo provato — cosiddetti “experience goods” — per alcuni beni è difficile valutare la bontà della scelta anche successivamente all’acquisto: si parla, in tal caso, di “credence goods” (ad esempio la riparazione di una macchina). L’obiettivo sia della politica in materia di concorrenza, sia della politica relativa ai consumatori, è quello di consentire il corretto funzionamento dei mercati, obiettivo che richiede l’esistenza congiunta di una concorrenza efficiente dal lato dell’offerta e di un forte lato della domanda con consumatori adeguatamente consapevoli (GIANFREDA). È incontestabile la qualifica di consumatore con riguardo al paziente, trattandosi di prestazione connessa a bisogni e interessi personali, non legati in alcun modo allo svolgimento di attività professionale o imprenditoriale; per converso, nella nozione di professionista rileva solo il dato dell’utilizzazione del contratto nel quadro della propria attività professionale o imprenditoriale: riferibile quindi non soltanto alla struttura sanitaria organizzata, ma anche ai singoli medici che ivi prestano la propria attività. (Trib. Lecce – Tricase, 17.4.08, in Giur. it., 2009, 601) Numerose sono le pronunce recenti che affrontano il tema della qualificazione del paziente di una struttura sanitaria, sia essa privata o pubblica, come consumatore. Unanime risulta essere l’indirizzo adottato tanto dalla giurisprudenza di merito quanto da quella di legittimità: il paziente di un medico è un consumatore, non essendo prescritto un obbligo di forma scritta per siffatte tipologie contrattuali di prestazione d’opera. Il contratto di prestazione d’opera professionale concluso tra paziente e medico e, per esso, tra paziente e struttura sanitaria, rientra nell’ambito di applicazione delle norme di disciplina dei contratti del consumatore, anche se il contratto non è stato concluso per iscritto; ne consegue che, ai fini della determinazione della competenza per territorio, il paziente può proporre la domanda davanti al foro della propria residenza, ai sensi dell’art. 1469 bis, 1º e 3º comma, n. 19, c.c., ovvero dell’art. 33, 1º e 2º comma, lett. u), codice del consumo, approvato con d.leg. 6 settembre 2005 n. 206. (Cass. civ., ord. 02.01.09, n. 20, in Mass. Foro it., 2009, 1193) Posto che: a) deve considerarsi professionista la persona che esercita la professione medica in uno studio privato, ove riceve i pazienti e pratica la prestazione che consiglia o gli è domandata; b) la disciplina di protezione dei consumatori non è limitata all’ipotesi in cui il contratto sia concluso per iscritto con rinvio a condizioni generali di contratto ovvero mediante moduli o formulari; il paziente che agisca nei confronti di un medico, allegando che le prestazioni da quest’ultimo eseguite presso il suo studio (nella specie, un ciclo di interventi di agopuntura) gli abbiano cagionato un danno (nella specie, per aver contratto l’epatite C), può proporre la domanda risarcitoria davanti al giudice del luogo in cui egli risiede. Ciò premesso, nel contratto di prestazione d’opera professionale medica, paziente e medico assumono, rispettivamente, la qualità di consumatore e professionista, con la conseguenza che il paziente può proporre la domanda fondata su tale contratto, per far valere l’inesatto adempimento, davanti al foro della propria residenza, ai sensi dell’art. 1469 bis, 1º e 3º comma, n. 19, c.c., anche se il contratto non sia stato concluso per iscritto ed indipendentemente dalla pattuizione per iscritto di una clausola di proroga della competenza. (Cass. civ., ord. 27.02.09, n. 4914) La ricostruzione del tema che appare più convincente dovrebbe portare ad una più specifica differenziazione per “gradi d’informazione” fra i due estremi dell’imprenditore e del consumatore, con l’eventuale “accostamento” a quest’ultimo, in virtù di quanto detto in precedenza, di soggetti in analoga situazione di deficit informativo, quali i professionisti, i piccoli imprenditori, etc. (STAZI). Si badi che la più recente giurisprudenza ha chiarito che il “grado d’informazione” deve essere esclusivamente riferito al consumatore, non anche ad eventuali collaboratori chiamati a supportare il consumatore. Né ha rilevanza alcuna la circostanza, sulla quale la difesa del convenuto ha lungamente dibattuto, circa il fatto che il M. sia stato assistito da un direttore dei lavori, architetto F., atteso che la valutazione circa la natura di professionista o consumatore va fatta con esclusivo riferimento alla posizione soggettiva del committente, indipendentemente dal fatto che lo stesso agisca da solo od affiancato da collaboratori di sua fiducia. (Trib. Piacenza, 04.05.10) Tipica esemplificazione di quanto appena affermato concerne i contratti per adesione i quali non vengono, per definizione, preceduti da una trattativa individuale e nei confronti dei quali il contraente può unicamente determinare se aderire o meno al contratto stesso. Si aggiunga che i contenuti di questi atti sono spesso identici tanto se rivolti ai consumatori quanto se rivolti ai professionisti. Deve rilevarsi, per quanto riguarda in modo specifico le condizioni contrattuali della linea “Fr.Tr.”, che appaiono prive di pregio le contestazioni della società convenuta secondo cui, trattandosi di navi cargo, i passeggeri non rientrerebbero nella nozione di “consumatore” di cui al codice del consumo” nonché l’ulteriore eccezione di non sindacabilità, sotto il profilo di vessatorietà delle stesse, in quanto “è evidente che le particolari condizioni di contratto Fr.Tr. … devono essere oggetto di specifico accordo tra il vettore ed il cliente”. […] Trattasi, infatti, come sopra chiarito, di condizioni che risultano utilizzate” dalla Gr. (anche laddove la medesima opera quale vettore), che provengono – come detto – dalla medesima, che risultano pubblicizzate nel sito web della stessa e che sono “potenzialmente” destinate ad una serie indeterminata di consumatori (apparendo irrilevante la circostanza che, in concreto, non vengono applicate se non a seguito di una specifica contrattazione con il cliente). (Trib. Palermo, 7.7.08, n. 3896) La disparità tra i due contraenti, fondamento dell’emanazione di una normativa consumeristica, dovrebbe, dunque, essere il parametro di riferimento anche rispetto a rapporti contrattuali in cui un soggetto, pur essendo formalmente professionista, non abbia una forza contrattuale di fatto tale da giustificare un diverso trattamento normativo da parte dell’ordinamento. Questa appare, in sintesi, la ratio delle pronunce di merito che trovano il loro fondamento interpretativo nella differente concezione di attività estranea all’attività professionale.