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Il danno non patrimoniale esistenziale nei contratti di fornitura di servizi dopo le Sezioni Unite n. 26972/2008

di Davide Mula

1. IL DANNO NON PATRIMONIALE (ESISTENZIALE) NELLA SENTENZA 26972 DEL 2008 Nella giurisprudenza delle corti di merito antecedente al novembre del 2008 è possibile rinvenire numerose pronunce volte al riconoscimento del cd. danno esistenziale, tipologia di danno non patrimoniale definito, per la prima volta, nei suoi lineamenti essenziali dalla decisione della Corte di Cassazione del 2000 n. 7713. Nella suddetta pronuncia la Suprema Corte aveva delineato il danno esistenziale come un danno che: i) viola il diritto alla qualità della vita in modo permanente, ii) è conseguenza di un fatto illecito ex art. 2043 c.c., iii) non ha carattere patrimoniale. Il danno esistenziale veniva, quindi, a connotarsi come la lesione ingiusta di un interesse costituzionalmente rilevante, tanto per espressa menzione, quanto per copertura interpretativa, afferente alla persona e risarcibile nelle sue conseguenze non patrimoniali. L’introduzione giurisprudenziale di questa forma di danno avviene a partire dai primi anni ‘90 attraverso una progressiva distinzione dalle altre forme di danno non patrimoniale; in particolare, dal danno biologico, il cui fondamento è rinvenibile nel combinato disposto degli artt. 2043 e 2059 c.c., e art. 32, Cost., che si configura in caso di lesione dell’integrità psicofisica, e dal danno morale soggettivo, il cui fondamento è rinvenibile nell’art. 2059 c.c. e dal suo rinvio all’art. 185 c.p. che si connota per il patimento, intimo e privato, del soggetto leso. La previsione, da parte della giurisprudenza, della figura del danno esistenziale aveva portato ad assicurare la tutela di tutti i diritti inerenti la persona umana, che, in precedenza, non potevano essere ricompresi nella sfera del danno biologico. Il danno esistenziale, non era ancorato ad una lesione della capacità reddituale o ad una diminuzione del patrimonio, né risultava in qualche modo legato al danno morale soggettivo, il quale era attinente, invero, ad una sfera intima del soggetto. Risultava essere, piuttosto, un danno che colpisce la sfera esteriore del soggetto – e per questo definito esistenziale – pregiudicandone il “fare areddituale”, alterando, ad esempio, le abitudini di vita, gli assetti relazionali con gli altri consociati, in altri termini, stravolgendo la quotidianità dell’individuo e del suo modo di essere verso l’esterno. Veniva, dunque, tutelato il relazionarsi dell’individuo con i suoi consociati o, rectius, il patimento subito per non poter più relazionarsi nel modo consolidato a causa di un soggetto terzo. Il rinvio ad un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. ai fini dell’individuazione dei diritti tutelabili nella prospettiva non patrimoniale aveva comportato l’incremento continuo ed incessante degli aspetti quotidiani della vita protetti attraverso questo rimedio. Sul tema, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, nelle pronunce gemelle dell’11 novembre 2008, n. 26972, 26973, 26974 e 26975, ha evidenziato come il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito sia connotato da atipicità, postulando l’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 c.c., di contro quello del danno non patrimoniale sia connotato da tipicità, perché tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona. Tuttavia, pare si tratti, in realtà, di una tipicità atipica, in quanto la persistenza del rimando ermeneutico agli artt. 2 e 3 della Costituzione, da interpretarsi in chiave dinamica, comporta il delinearsi di una fonte di diritti non tassativamente elencati e, di fatto, ad una categoria atipica. Nonostante, dunque, si tratti di una tipicità sui generis il Supremo Collegio è partito da questo assunto per sostenere la veste unitaria del danno non patrimoniale, non risultando in alcun modo legittime, o legittimabili, le etichette attribuite da dottrina e giurisprudenza alle varie forme che questo può assumere, nonostante, le stesse, siano molteplici. È stato, per tanto, dichiarato a riguardo che “Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno” e ancora che questi “Possono costituire solo “voci” del danno biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il c.d. danno alla vita di relazione, i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell’integrità psicofisica, sicché darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione”. Aggiunge, ancora, la Cassazione che il danno esistenziale era stato creato al fine di colmare i vuoti normativi di tutela della persona costituzionalmente riconosciuta e che, allo stato attuale, tali lacune non sarebbero più rinvenibili. Non si comprendeva nell’immediatezza della pronuncia, e non si comprende ancora oggi, tuttavia, ove questa affermazione possa trovare fondamento; infatti, non essendo intervenuto, a tutt’oggi, il legislatore sul punto, se la figura del danno esistenziale ha supplito dei vuoti non successivamente colmati da interventi del legislatore, allora la sua permanenza nell’ordinamento è ancora necessaria, in caso contrario i vuoti non sarebbero stati rinvenibili ab origine. Quanto allo specifico oggetto della lesione, i giudici di legittimità hanno ribadito, nelle sentenze del novembre 2008, che per sussistere il diritto al risarcimento l’ingiustizia patita deve essere costituzionalmente qualificata, in altri termini, qualora non sia riscontrabile una lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona non è data tutela risarcitoria. Si sottolinea inoltre che “la tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell’apertura dell’art. 2, Cost., ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all’interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana”. Tale orientamento era già stato sancito dalla Cassazione nelle sentenze n. 8827 e n. 8828 del 2003. In esse era stata richiamata la necessità di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. in quanto unico riferimento positivo disciplinante il danno non patrimoniale, volta a riconoscere una tutela risarcitoria a questa forma di danno, oltre che nei casi esplicitamente determinati dalla legge, anche nel caso di lesione di specifici diritti inviolabili della persona. Questa operazione ermeneutica risulta legittimata dalla considerazione che non deve essere presupposta la qualificabilità del fatto illecito lesivo come reato, ex art. 2059 c.c., giacché il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni in essa contenute, ove si consideri che il riconoscimento dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi implicita natura economica, comporta una necessaria tutela degli stessi, e, in tal modo, configura ulteriori casi determinati dalla legge, di rango più elevato, di riparazione del danno non patrimoniale. Il diritto al risarcimento è, così, riconosciuto se il pregiudizio sia conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto, desunto dall’ordinamento positivo, ivi comprese le convenzioni internazionali, sempre che la lesione abbia il connotato dell’ingiustizia, così come delineato dall’art. 2043c.c.. Al fine di superare tale limitazione, parte della dottrina sostiene che la rilevanza costituzionale debba essere rinvenibile non nell’interesse leso, bensì nel pregiudizio sofferto. In altri termini, si sostiene che, venendo ad essere danneggiato l’agire areddituale – sociale, tutelato ai sensi dell’art. 2, Cost., non vi è alcuna necessità di indagare circa la natura dell’interesse leso, posto che la lesione è di per sé contra ius. In tal guisa, tuttavia, la Suprema Corte ha osservato che vengono a confondersi il piano della lesione con quello dell’ingiustizia, la quale deve essere sempre dimostrata. Altro orientamento, invece, ritiene che il danno esistenziale non si configuri nella sola lesione di un bene costituzionalmente protetto, ma che possa discendere anche dalla lesione di qualsiasi bene giuridicamente rilevante per l’ordinamento. Osservano le Sezioni Unite come questa tesi riconduca, erroneamente, il danno non patrimoniale nell’alveo dell’art. 2043 c.c., ove il diritto al risarcimento sussiste in presenza della lesione di un qualsiasi interesse, contraddicendo, in tal guisa, l’affermato principio della tipicità del danno non patrimoniale. Sul punto i giudici di legittimità non paiono, tuttavia, fornire una chiara rappresentazione, posto il richiamo, nella medesima pronuncia, all’art. 2043 c.c., per la determinazione dei criteri da utilizzare per la valutazione dell’illiceità della condotta, tra i quali, in primis, la lesione di interessi meritevoli di tutela. Non si comprende, di conseguenza, come debba leggersi il richiamo all’art. 2043 c.c. e alla sua, altrettanto, esplicita esclusione per l’individuazione degli interessi da tutelare. La sentenza delle Sezioni Unite, infatti, non rispondendo nel merito ai quesiti posti nell’ordinanza di rinvio, della terza sezione, n. 4712/2008, di fatto, non ha risolto le criticità interpretative sul tema. È stato chiarito solo ciò che non può costituire fondamento del danno esistenziale: “Palesemente non meritevoli dalla tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha prestato invece tutela la giustizia di prossimità. Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici. Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale”. In questo senso, ha evidenziato la Corte, come non possano essere meritevoli di tutela quelle fattispecie in cui il danno-conseguenza risulti essere futile o, pur essendo oggettivamente rilevante, non meriti tutela per la sua lieve intensità. In entrambi i casi deve sussistere l’effettiva lesione dell’interesse in termini di ingiustizia costituzionalmente qualificata, restando diversamente esclusa l’invocabilità dell’art. 2059 c.c. La gravità dell’offesa assurge, dunque, ad ulteriore parametro di valutazione circa la meritevolezza della tutela nel caso di lesione di diritti costituzionali inviolabili. In tal senso le Sezioni Unite hanno, infatti, sottolineato come il diritto debba essere inciso oltre una soglia minima. Tale requisito assume autonoma rilevanza in un ordinamento, come quello italiano, ove risulta obbligatorio il bilanciamento tra il principio di solidarietà, verso la vittima, e quello di tolleranza, verso il danneggiante. Questo principio, di assoluta indiscutibilità, non trova, tuttavia, una chiara esplicazione nella sentenza che lo enuncia; non viene, difatti, in alcun modo precisato un parametro idoneo ad aiutare i giudici e gli operatori del diritto nella determinazione della sussistenza di una lesione giuridicamente rilevante. Pare, di fatto, potersi ritenere che la sentenza delle Sezioni Unite abbia portato ad una rivoluzione più terminologica che sostanziale del tema, al fine di contestare l’automatismo risarcitorio cui molto spesso veniva fatto ricorso. I giudici di legittimità non hanno chiarito, altresì, se nel concetto di gravità debba ricomprendersi o meno anche quello di permanenza o durata dell’offesa, nonostante nell’ordinanza di rinvio la terza sezione avesse esplicitamente chiesto “i caratteri morfologici del danno “esistenziale” così rettamente inteso consistono nella gravità dell’offesa, del diritto costituzionalmente protetto (come pur postulato da autorevole dottrina), ovvero nella gravità e durevolezza delle conseguenze dannose scaturenti dal comportamento illecito?”. Sull’elemento della permanenza del danno si erano già pronunciate alcune corti di merito. Corrente minoritaria ritiene, a riguardo, che la durata della lesione non rilevi sull’an, ma, esclusivamente, sul quantum, soprattutto in fattispecie aventi ad oggetto meri danni cagionati da disservizi. Tale orientamento sostiene che la cessazione di un servizio di fornitura, nelle fattispecie richiamate in nota servizio di fornitura elettrica, anche se per poche ore, sia causa di danno esistenziale, posto che comporta una modifica negativa nella vita dell’utente, consistente nell’alterazione delle normali attività dell’individuo. Il riconoscimento della persona umana si sostanzia, come noto, anche attraverso il rispetto dei desideri e delle aspettative che ognuno può avere e che trovano tutela nell’ampio dettato dell’art. 2 della Costituzione. Rientra nel medesimo filone giurisprudenziale un’altra pronuncia, inerente la fornitura di servizi telefonici, con la quale il Tribunale ha riconosciuto configurabile come danno esistenziale il disagio subito dal professionista a causa del malfunzionamento del centralino del proprio studio causato dai lavori svolti dal gestore telefonico per l’installazione della linea ISDN, disagio, evidentemente, circoscritto nel tempo. L’orientamento principale ritiene, tuttavia, che debba escludersi che l’interruzione della fornitura di un servizio per un breve periodo di tempo sia riconducibile ad una fattispecie di danno esistenziale consequenziale alla lesione di un interesse costituzionalmente protetto. Chiarificatrice, sul punto, la pronuncia del Tribunale di Nocera Inferiore ove è stato evidenziato che “il danno esistenziale consiste nel pregiudizio che l’illecito, proiettandosi nel futuro, abbia mutato abitudini di vita ed assetti relazionali del soggetto, sconvolgendone la vita quotidiana e privandolo di occasioni per l’espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. In tal senso, allora, il danno esistenziale ha natura di «danno-conseguenza» e consiste, non già nella violazione dell’interesse protetto, ma nella conseguenza che da quella violazione deriva sul piano personale ed interpersonale. Il danno esistenziale, in altri termini, è costituito generalmente dai concreti impedimenti allo svolgimento delle attività realizzatrici della persona (danno-conseguenza) prodotti dalla lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento (danno-evento); per modo che può anche esservi lesione dell’interesse protetto, ma, in mancanza di concrete ricadute sulle attività realizzatrici del soggetto, difetta il danno esistenziale”. Sulla medesima linea si era, in passato, pronunciata anche la Corte di Cassazione, la quale aveva sottolineato come lesioni gravissime, come quella alla libertà personale, possono, indubbiamente, arrecare danni morali, ma non danni esistenziali, che, per natura, si protraggono nel tempo. Partendo da tale assunto, appare abbastanza consequenziale ritenere che se una fattispecie di limitazione della libertà personale può non produrre un danno esistenziale, in quanto non protratta nel tempo, più difficilmente tale danno potrà configurarsi per un mero disservizio, per quanto prolungato. Tuttavia sul punto, non essendosi pronunciate le Sezioni Unite, il dibattito dottrinario non potrà che restare aperto. 2. IL DANNO ESISTENZIALE CONTRATTUALE Secondo l’opinione prevalente, consolidatasi fino alla metà degli anni ‘90, il danno non patrimoniale aveva unicamente natura aquiliana; non era, in altri termini, risarcibile il danno non patrimoniale conseguente all’inadempimento delle obbligazioni. Questo, in quanto, si riteneva che l’art. 2059 c.c., dovesse essere interpretato in modo restrittivo e, per tanto, potesse essere applicato alla sola categoria delle obbligazioni da fatti illeciti. Tuttavia, si rilevava come la risarcibilità degli interessi non patrimoniali non fosse, di per sé, da porre in dubbio, in forza dell’art. 1174 c.c. in base al quale la prestazione che forma oggetto dell’obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse anche non patrimoniale del creditore. La criticità, al più, avrebbe potuto palesarsi nell’operazione ermeneutica volta all’individuazione degli interessi introdotti nelle singole fattispecie negoziali. Veniva, così, ad emergere come la riconduzione del danno non patrimoniale ai diritti costituzionalmente tutelati fosse troppo invasiva della libertà negoziale delle parti. Inoltre, si sarebbero potute verificare fattispecie in cui le parti davano un assetto degli interessi idoneo ad elevare a diritto non patrimoniale rilevante nell’obbligazione anche diritti non costituzionalmente tutelati. L’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. offerta dalla Consulta con la sentenza n. 233 dell’11 luglio 2003, ha permesso di affermare che, anche, nella materia della responsabilità contrattuale, è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali. Tale orientamento è stato ribadito anche dalle Sezioni Unite nelle pronunce del 2008, pur non superando il problema dei diritti costituzionalmente tutelati in relazione alla libertà contrattuale dei privati. Secondo la ricostruzione offerta dal Supremo Consiglio, quindi, dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporti l’obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale. Sul piano processuale, si rileva, che se l’inadempimento dell’obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell’azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all’espediente del cumulo di azioni. L’art. 1218 c.c. nella parte in cui dispone che il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, non può, quindi, essere riferito al solo danno patrimoniale, ma deve ritenersi comprensivo del danno non patrimoniale, qualora l’inadempimento abbia determinato lesione di diritti inviolabili della persona. Ed eguale, più ampio, contenuto va individuato nell’art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta, riconducendo tra le perdite e le mancate utilità anche i pregiudizi non patrimoniali determinati dalla lesione dei menzionati diritti. Il pregiudizio di natura esistenziale o, più semplicemente, danno esistenziale da disservizio, rientra, pertanto, nella categoria dei danni non patrimoniali da responsabilità contrattuale. In questo senso si è pronunciato anche il Tribunale di Montepulciano il 20 febbraio 2009, che ha riconosciuto che “è risarcibile il danno esistenziale conseguente all’inadempimento contrattuale del gestore telefonico. Tale danno consiste nell’alterazione in senso peggiorativo della quotidianità della vita della persona, che può manifestarsi sia nell’impossibilita di svolgere una pregressa attività abituale, sia nella necessità di svolgere una nuova attività”. La più recente giurisprudenza di merito ritiene, tuttavia, che il danno non patrimoniale derivante da responsabilità contrattuale non deve ritenersi risarcibile unicamente se ad essere leso è un diritto inviolabile della persona, ma anche qualora venga leso un qualsiasi diritto contemplato dal contratto. Questa tesi viene argomentata facendo riferimento all’art. 2059 c.c. che, si sostiene, è riferibile unicamente alla responsabilità aquiliana; se così non fosse, infatti, il legislatore avrebbe inserito tale disposizione a chiusura del capo terzo del IV libro, dedicato all’inadempimento delle obbligazioni, e non, come ha fatto, a chiusura del IV libro. Aggiungono, i fautori di questo orientamento, che l’art. 2059 c.c. svolge nell’alveo della responsabilità extracontrattuale la funzione di selezionare gli interessi meritevoli di tutela, tale funzione, tuttavia, non ha motivo di essere svolta nella responsabilità contrattuale in quanto le parti hanno il potere di decidere attraverso l’esercizio della loro libertà di autodeterminazione quali interessi tutelare nel rapporto contrattuale. Nel sostenere questa tesi pare si voglia, in verità, opporre alla tipicità del danno non patrimoniale aquiliano, l’atipicità del danno non patrimoniale contrattuale quale diretta emanazione della signoria della volontà che consente alle parti di regolare a piacimento i propri interessi, se del caso anche non patrimoniali, ai sensi dell’art. 1174 c.c.. Altro argomento, portato a sostegno dai sostenitori di questa tesi, parte dalla constatazione che se l’unico danno non esistenziale risarcibile fosse quello conseguente alla lesione dei diritti inviolabili verrebbe ad essere frustrata la stessa esistenza della disciplina delle obbligazioni dal momento che il debitore, in ogni contratto volto a soddisfare anche diritti non inviolabili, potrebbe unilateralmente sciogliersi dall’obbligazione senza pagare alcun costo se non quello della mancata percezione dell’eventuale corrispettivo. Questa impostazione, se accolta tuttavia, porterebbe ad una riapertura del danno esistenziale, o pregiudizio che dir si voglia, nelle fattispecie “bagatellari”, così definite dalle Sezioni Unite che poco più di un anno fa si sono pronunciate in modo tanto stringente sul danno non patrimoniale. Difatti, se si ritenessero tutelabili sotto il profilo non patrimoniale interessi quali la fornitura della corrente, piuttosto che quello alla visione della partita della propria squadra del cuore o, ancora, all’attivazione della sim nei tempi concordati, tutte le cause “bagatellari” antecedenti l’11 novembre del 2008 tornerebbero, dunque, ad affollare le aule dei giudici di pace. Quanto al primo argomento della tesi delle corti di merito, sull’inapplicabilità in via analogica dell’art. 2059 c.c. alla responsabilità contrattuale, deve evidenziarsi come nonostante il legislatore non abbia dato esplicito appiglio normativo per l’applicazione analogica della norma, al medesimo risultato può giungersi attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 1218 e 1223 c.c., nel pieno rispetto del principio dell’effettività della tutela. Difatti, la stessa tecnica di rilettura che ha portato alla risarcibilità del danno non patrimoniale oltre i limiti della riserva di legge di cui all’art. 2059 c.c. deve portare ad un’interpretazione estensiva delle norme sull’inadempimento. In una disciplina riferita al contratto come mera forma di acquisto della proprietà, la mancanza del sintagma danno non patrimoniale viene supplita dal richiamo, di cui all’art. 1174 c.c., al diritto che il creditore ha di ricevere prestazioni di natura non necessariamente patrimoniale. Sempre con riferimento al dettato di cui all’art. 2059 c.c., deve evidenziarsi come parte della dottrina ritenga che, stante la medesima natura del danno non patrimoniale contrattuale rispetto a quello aquiliano, il pregiudizio esistenziale da inadempimento possa comunque sottostare alle restrizioni e condizioni poste in ambito aquiliano dall’art. 2059 c.c.. Con riferimento al secondo argomento deve obiettarsi che l’interesse non patrimoniale sussunto in qualsivoglia contratto, ad esempio quello di viaggio, viene tutelato comunque limitatamente alla sua lesione diretta. Volendo esemplificare, il viaggiatore viene tutelato all’interno di una relazione contrattuale nella sua sola sfera patrimoniale fino al momento dell’esecuzione della prestazione e, solo qualora questa venga meno o non corrisponda a quanto pattuito, potrà essere tutelato anche sotto il profilo della lesione dei suoi interessi non patrimoniali costituzionalmente tutelati. In altri termini se acquisto un pacchetto di viaggio e poco prima della partenza il viaggio viene annullato, verrò rimborsato del solo costo del pacchetto, non anche del danno esistenziale per il mancato viaggio, così come prescritto dagli artt. di cui al Capo II, Parte III del Codice del Consumo, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206. Diversamente, se nel corso del viaggio viene leso, per divergenza tra la prestazione ricevuta e quella pattuita, il mio diritto al riposo, diritto, comunque, tutelato dall’art. 36 della Costituzione, avrò, solo allora, il diritto al risarcimento per il pregiudizio non patrimoniale subito. Risulta evidente, per tanto, come l’accoglimento di questa tesi porterebbe a ritenere che ogni inadempimento causi una lesione degli interessi non patrimoniali sottesi al contratto, frustrando in tal guisa il disposto di cui al 1218 c.c. Ulteriore vizio di questa prospettiva consiste nel ritenere che la sottoscrizione di un contratto comporti per il debitore un’implicita rinuncia all’osservanza dei doveri di tolleranza di cui all’art. 2 Cost. Tale assunto porterebbe, infatti, al paradosso che l’art. 2 Cost. assumerebbe una diversa precettività a seconda del titolo, contrattuale o aquiliano, della responsabilità civile. 3. IL REGIME DELL’ONERE PROBATORIO DEL DANNO ESISTENZIALE In giurisprudenza è unanime l’orientamento per cui il danno esistenziale, in quanto danno conseguenza, sia soggetto alle regole e ai principi generali sull’onere di allegazione e prova del danno subito. L’art. 1223 c.c., limita il risarcimento ai soli danni che siano conseguenza diretta e immediata dell’illecito, tuttavia se, da un lato, viene estesa la risarcibilità del danno anche a quelli mediati e diretti, dall’altro, permane la necessità che il soggetto che si assume leso, provi le circostanze rilevanti che giustifichino il risarcimento ex artt. 1223 e 2059 c.c. Sul tema si è pronunciata anche la Corte costituzionale la quale ha riconosciuto come “è sempre necessaria la prova dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere commisurato”. A parziale temperamento di quanto appena enunciato la giurisprudenza ha evidenziato come data l’immaterialità della forma di pregiudizio, consistente nel danno non patrimoniale, è da ritenersi ammissibile l’utilizzazione della prova per presunzioni sulla scorta di valutazioni prognostiche anche affidate a fatti notori o massima di comune esperienza. Sul tema la Corte di cassazione ha affermato che il ricorso al c.d. fatto notorio, art. 115 c.p.c. deroga ai principi dell’ordinamento in materia di dispositivo e contraddittorio tra le parti, questo perché, di fatto, introduce nella vicenda processuale elementi estranei alle parti, sia in termini di produzione in giudizio, che in termini di controllo degli stessi, e che ovvia e naturale conseguenza debba essere una rigida interpretazione da parte dei giudici di tali fatti. Nell’opera di valutazione del giudice non devono intervenire elementi di conoscenza privata non riconducibili alle conoscenze della collettività; questo per evitare che l’arbitrio dell’organo giudicante divenga un’incontrollata discrezionalità. Nella recente pronuncia delle Sezioni Unite, più volte richiamata, sul tema dell’onere probatorio del danno non patrimoniale, respingendo l’utilizzo dell’etichetta danno esistenziale, è stato statuito che “Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. n. 8827 e n. 8828/2003; n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato. […] E del pari da respingere è la variante costituita dall’affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo.”. Il capo della sentenza appena citato, costituisce l’unico punto che, sin dai primi commenti, non è stato soggetto a critiche da parte della dottrina. 4. LA DETERMINAZIONE DEL DANNO ESISTENZIALE IN VIA EQUITATIVA In tema di danno non patrimoniale, l’equità indica il processo mentale che viene compiuto dal giudice, tenendo conto delle rilevanze istruttorie, al fine di determinare un importo che possa compensare la vittima del danno subito. Tale procedimento mentale deve, poi, essere trasposto dal giudice stesso nella motivazione che accompagna la sentenza, al fine di poter garantire un successivo controllo sulla correttezza e validità del ragionamento effettuato. La quantificazione di un danno in via equitativa, ex art. 2056 c.c. non può essere basata, per definizione, sull’applicazione di una formula universale. Ciò che determina la validità di una pronuncia in materia è, infatti, l’esatta corrispondenza tra il ragionamento espresso in motivazione, consistente nell’analisi di tutti gli indici probatori, e la determinazione del quantum debeatur; mai potrebbe essere preso a parametro di validità della sentenza uno di questi due elementi considerato in assoluto. A riprova di quanto detto, si osservi come, frequentemente, oggetto di analisi delle corti di merito di secondo grado sia la congruenza tra la determinazione del quantum e gli elementi probatori presi in considerazione dal giudice di primo grado. Non viene in aiuto dell’interprete neanche la possibilità di confutare la quantificazione con precedenti giurisprudenziali, atteso che diverse saranno, di fatto, le singole circostanze delle fattispecie. Ai fini di una corretta determinazione del quantum debeatur, dovrà, pertanto, tenersi conto della rilevanza del diritto leso, ossia se il diritto ha un esplicito richiamo nella Costituzione o una mera copertura costituzionale, e dell’invasività della lesione, anche con riferimento alla sua durata temporale. Così, solo partendo da tali due criteri di valutazione ben potranno tenersi in debita considerazione i precedenti giurisprudenziali, specie se utilizzati ai fini dell’individuazione di un minimum. Un metodo prospettato in dottrina per parametrare i risarcimenti a criteri uniformi, ma al tempo stesso personalizzati, si fonda sulla suddivisione delle attività realizzatrici della persona in quattro raggruppamenti: a) attività di carattere biologico-sussistenziali; b) relazioni affettive e familiari; c) relazioni sociali e attività di carattere culturale-scientifico, associativo e religioso; d) attività sportive di svago e divertimento. All’interno di ciascuna delle seguenti categorie deve stabilirsi il valore monetario, prevedendo un minimo ed un massimo per ciascuna di esse, variabile in relazione alla gravità e alla durata del pregiudizio su ciascuna delle varie aree. Sul punto, nulla è stato statuito dalla Corte di Cassazione nella sentenza del novembre 2008, nonostante, nell’ordinanza di rinvio, la terza sezione avesse esplicitamente richiesto di rispondere al quesito “Quali sono i criteri risarcitori cui ancorare l’eventuale liquidazione di questo tertium genus di danno onde evitare illegittime duplicazioni di poste risarcitorie? Possono all’uopo soccorrere, in parte qua (come accade per il danno morale soggettivo) le tabelle utilizzate per la liquidazione del danno biologico, ovvero è necessario provvedere all’elaborazione di nuove ed autonome tabelle?”. Le criticità evidenziate dai giudici della Terza Sezione, non sono state risolte neanche nelle successive pronunce della Corte di Cassazione. Giova, tuttavia, sottolineare come i medesimi giudici della Terza Sezione abbiano riconosciuto in una più recente pronuncia del giugno 2009 che il danno non patrimoniale non biologico non può essere oggetto di parametri fissi di riferimento, potendo questi variare nel caso concreto. Permangono, per tanto, i dubbi, degli operatori tutti, circa i parametri da utilizzarsi per la determinazione del quantum debeatur in caso di danno esistenziale o, secondo le Sezioni Unite del 2008, di danno non patrimoniale derivante da pregiudizio di natura esistenziale. In Responsabilità Civile, n. 7 – 2010
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