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Il giorno in cui YouTube decise di non essere più un hosting provider. E si accordò con la Premier League

Barclays

di Marco Scialdone barclaysLa disciplina del “provider passivo” europea e del safe harbor previsto per gli intermediari della comunicazione online dalla legislazione americana vedono uscire dal proprio radar il più grande deposito di User Generated Content audiovisivo della rete: YouTube. Il 12 novembre La Premier League inglese e Google hanno infatti posto fine ad una controversia giudiziaria che andava avanti da oltre sei anni e che ruotava attorno alla disponibilità sul “Tubo” di frammenti delle partite del campionato inglese. L’accusa della Premier League era la solita: violazione del copyright. La difesa di Google altrettanto scontata: siamo solo degli intermediari, non abbiamo un obbligo di sorveglianza e non siamo responsabili per i contenuti caricati dai nostri utenti. Non sapremo mai cosa avrebbe deciso il tribunale statunitense davanti al quale la causa era incardinata. Quello che, invece, sappiamo è che il contenuto dell’accordo transattivo raggiunto conferma quello che numerosi tribunali (molti dei quali anche italiani) hanno già sancito da tempo: YouTube non è (o non è più) un hosting provider e non può beneficiare delle esenzioni di responsabilità che tanto la normativa statunitense, quanto quella comunitaria, prevedono per tale figura. In forza dell’accordo transattivo, infatti, la lega inglese consegnerà i suoi video ufficiali a YouTube che sorveglierà che nessuno dei propri utenti carichi highlights abusivi. Dunque Youtube opererà una massiccia attività di sorveglianza (sia pure tramite la tecnologia Contend  ID di cui è proprietaria dal 2006) sui contenuti immessi nel sistema. Una scelta, quest’ultima, che renderà quanto meno ardua (per usare un eufemismo) in futuro la possibilità di affermare che esso operi quale mero intermediario dell’informazione. Appare sempre più evidente che si è in presenza di un vero e proprio content provider che gestisce i contenuti acquisiti da terzi (tanto in via professionale che amatoriale) organizzandoli come fossero propri, al fine della loro monetizzazione. Venendo alle vicende di casa nostra, resta da chiedersi se AGCOM, una volta adottato il regolamento sul diritto d’autore online, considererà YouTube come un mero hosting provider, oppure, come apparirebbe più corretto fare alla luce degli ultimi eventi, come un fornitore di servizi di media audiovisivi, con tutte le conseguenze del caso. 15 novembre 2013

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