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Il Consiglio di Stato sul caso Englaro: nasce il diritto di ben morire

di Vittorio Occorsio La vicenda processuale Nella sentenza in commento, il Consiglio di Stato è chiamato a decidere se Eluana Englaro, deceduta nel 2009, avesse o meno il “diritto di morire”, ossia, il diritto a che le fossero apprestate tutte le misure atte a garantirle un adeguato e dignitoso accudimento, durante il periodo successivo alla sospensione del trattamento di sostegno vitale. In molti ricordano la vicenda, che aveva visto l’amministrazione regionale opporsi alla decisione della Corte di Appello di Milano, con cui veniva ammesso per la paziente in stato vegetativo permanente di accedere alla c.d. “eutanasia”. Il giudizio innanzi al Consiglio di Stato: l’interesse ad agire anche dopo la morte dell’interessata In particolare, il Consiglio di Stato si trova a dover decidere della legittimità, pur a seguito della morte dell’interessata, della sentenza con cui il TAR aveva stabilito che la Regione avrebbe dovuto, in ossequio ai principi di legalità, buon andamento, imparzialità e correttezza, indicare la struttura sanitaria dotata dei requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi, tali da renderla “confacente” agli interventi e alle prestazioni strumentali all’esercizio della libertà costituzionale di rifiutare le cure, al fine di evitare all’ammalata di indagare quale struttura sanitaria fosse meglio equipaggiata al riguardo. L’interesse a decidere della questione anche a seguito dell’esaurimento della fattispecie che aveva dato inizio al procedimento giudiziario, prima in sede ordinaria e poi innanzi al giudice amministrativo, risiede nel fatto che la sentenza del T.A.R. Lombardia potrebbe costituire un “pericoloso” precedente, capace di rendere “attraente” il sistema sanitario lombardo per famiglie di soggetti in stato vegetativo permanente che desiderino un trattamento analogo a quello richiesto dal tutore di Eluana. Il diritto di autodeterminarsi e l’obbligo di cura incombente sull’amministrazione regionale: alla ricerca di un equilibrio: la posizione della Regione La questione attiene al fondamentale diritto di autodeterminazione terapeutica del paziente e al suo rapporto con le strutture del servizio sanitario pubblico deputate all’assistenza sanitaria. La Regione muove dal presupposto secondo cui, sotteso al concetto di “cura” di cui l’amministrazione deve farsi carico, vi sia un fondamentale principio di “beneficialità”, alla stregua del quale le strutture del Servizio Sanitario Nazionale devono garantire la vita e assicurare la salute del malato, sicché l’obbligo del ricovero, da parte di questo, sussisterebbe solo nei casi in cui si debba (e si possa) curare una determinata patologia. Quando il malato decida e richieda, invece, di interrompere un trattamento sanitario, come quello di cui si discute, e di non ricevere più l’alimentazione e l’idratazione artificiale, l’amministrazione non sarebbe tenuta in alcun modo a soddisfare tale richiesta, poiché compito di questa è, in sostanza, solo quello di garantire che il malato sia mantenuto in vita, accudito e “curato”, nel senso appena precisato, e non certo quello di assecondarne la volontà di interrompere la prestazione sanitaria, mediante il distacco del sondino naso-gastrico, e di accompagnarlo ad una “serena morte”. La decisione del Consiglio di Stato: un nuovo concetto di “salute” Secondo il Consiglio di Stato, alla base delle posizioni della Regione vi è «una visione assolutizzante, autoritativa, della “cura”», mentre il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Ciò è conforme al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé, e vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente. Si delinea così una nuova dimensione della salute – ricavabile dall’art. 32 Cost., per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge – non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza. Il diritto del singolo alla salute, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire. «Nessuna visione della malattia e della salute – afferma il Collegio – , nessuna concezione della sofferenza e, correlativamente, della cura, per quanto moralmente elevata o scientificamente accettata, può essere contrapposta o, addirittura, sovrapposta e comunque legittimamente opposta dallo Stato o dall’amministrazione sanitaria o da qualsivoglia altro soggetto pubblico o privato, in un ordinamento che ha nel principio personalistico il suo fondamento, alla cognizione che della propria sofferenza e, correlativamente, della propria cura ha il singolo malato.» I caveat: rifiuto del “relativismo terapeutico” Tutto ciò non può tuttavia comportare «un pericoloso soggettivismo curativo o un relativismo terapeutico» nel quale è “cura” tutto ciò che il singolo malato vuole o crede, perché nell’alleanza terapeutica rimane fondamentale l’insostituibile ruolo del medico nel selezionare e nell’attuare le opzioni curative scientificamente valide e necessarie al caso; ma la nozione statica e “medicale” di salute, legata cioè ad una dimensione oggettiva e fissa del benessere psico-fisico della persona, deve cedere il passo ad una concezione soggettiva e dinamica del concreto contenuto del diritto alla salute, che si costruisce nella continua e rinnovata dialettica medico-paziente, di modo che tale contenuto, dal suo formarsi, al suo manifestarsi sino al suo svolgersi, corrisponda effettivamente all’idea che di sé e della propria dignità, attraverso il perseguimento del proprio benessere, ha il singolo paziente per realizzare pienamente la sua personalità, anzitutto e soprattutto nelle scelte, come quelle di accettare o rifiutare le cure, che possono segnarne il destino. La necessità di un intervento legislativo La questione, come ben noto, attende da tempo un intervento legislativo, che è necessario e indilazionabile per i delicati profili connessi alla vincolatività delle direttive anticipate di trattamento date dal paziente nei confronti del medico, oltre che per i profili penali e civili legati alla responsabilità del medico che operi un trattamento di “dolce morte”. In mancanza di specifiche previsioni circa la effettività, la serietà e la consapevolezza del consenso informato espresso dal paziente, specialmente nei casi in cui questo versi ormai in uno stato di incapacità o di incoscienza, e circa la correttezza delle procedure mediche da adottarsi per accertarlo ed attuarlo, ci si potrebbe trovare sulla linea di un pendio scivoloso (slippery slope), e ammettere «forme silenti o striscianti di non consentita eutanasia». Ma nell’attuale situazione dell’ordinamento, che ai principi costituzionali e alla loro diretta efficacia deve uniformarsi, e sul piano dell’azione amministrativa e di un corretto o meno esercizio del potere, il vuoto normativo, come anche la mancata previsione di specifiche misure organizzative nella legislazione del servizio sanitario nazionale o nei livelli essenziali di assistenza, non può certo risolversi nel diniego di eseguire la prestazione sanitaria e ancor meno, a fronte di tale illegittimo rifiuto, in un diniego di tutela giurisdizionale e conseguentemente, per il principio ubi ius, ibi remedium, nella sostanziale negazione di un diritto fondamentale, sulla propria vita e sul proprio corpo, nella concezione e nella proiezione che ciascuno ha di sé e della propria dignità, anche rifiutando le cure. L’obbligo di facere incombente sulla Regione. L’affermazione di un principio, come quello del diritto alla salute e del consenso informato, non può non tener conto che esso, oltre ad essere un diritto assoluto e inviolabile e, come tale, efficace in particolare nei riguardi del medico, è anche «un diritto soggettivo pubblico o diritto sociale che, nella dinamica del suo svolgersi e del suo concreto attuarsi, ha per oggetto una prestazione medica che ha quali necessari e primari interlocutori le strutture sanitarie e, in primo luogo, il Servizio Sanitario Nazionale». Si riconosce a tale diritto una «natura ancipite»: da un lato, una valenza privatistica, in quanto massima ed inviolabile espressione della personalità individuale; dall’altro, una connotazione pubblicistica, perché può e deve, se lo richiede la sua soddisfazione, trovare adeguata collocazione e necessaria attuazione all’interno del servizio sanitario, non potendo dimenticarsi che la salute, anche nella declinazione personalistica che è venuta ad assumere nel nostro ordinamento, è pur sempre, insieme, diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività (come recita l’art. 32 Cost.). Ed è solo la diretta responsabilizzazione dell’organizzazione sanitaria a consentire di non vedere sacrificato, nell’eventuale conflitto tra medico e paziente, il diritto fondamentale di quest’ultimo. Pertanto, a fronte del diritto, inviolabile, che il paziente ha di rifiutare le cure, interrompendo il trattamento sanitario non (più) voluto, sta correlativamente l’obbligo, da parte dell’amministrazione sanitaria, di attivarsi e di attrezzarsi perché tale diritto possa essere concretamente esercitato, non potendo essa contrapporre a tale diritto una propria nozione di prestazione sanitaria né subordinare il ricovero del malato alla sola accettazione delle cure. Un vero e proprio obbligo di facere, dunque, poiché solo mediante la prestazione della struttura sanitaria è possibile che il diritto del paziente, di fronte al rifiuto del singolo medico, trovi attuazione. Un tale obbligo, inoltre, non necessariamente deve essere espressamente affermato da un provvedimento giurisdizionale a carico dell’amministrazione, poiché esso discende direttamente dalla natura e dall’oggetto del diritto riconosciuto al paziente alla luce dei principi costituzionali direttamente applicabili. 12 settembre 2014

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