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La domanda di sicurezza, il bisogno di libertà: i nostri contributi a un dibattito sempre più complesso

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I tragici fatti di Parigi portano ancora una volta in primo piano gli interrogativi relativi alla sicurezza nelle strade d’Europa e al suo rapporto con le libertà personali faticosamente conquistate nei secoli scorsi e che, paradossalmente, rischiano di essere frustrate e ridotte di fronte a chi provoca morte e dolore poggiando le proprie convinzioni su un universo di valori diametralmente opposto e distorto dall’odio. Sono temi sui quali la Redazione di Dimt ha spesso concentrato la sua attenzione, soprattutto in relazione all’ambito nel quale si sviluppa il nostro lavoro: quello della tecnologia. E sono proprio gli strumenti di comunicazione digitali a rappresentare ormai uno dei principali terreni di scontro nonché i primi target delle misure intraprese dai Governi per rispondere al bisogno di sicurezza di cittadini che tuttavia, anche a causa di una giustificata paura, spesso invocano provvedimenti che vanno a minare alcuni loro diritti fondamentali. È un terreno scivoloso, che costringe a riflessioni complesse così come complessa è la realtà che prende forma (e talvolta lo fa in maniera orribile) intorno ai nostri occhi. Complesse, ancora, sono le contromisure da prendere, in antitesi alle estreme semplificazioni che in queste ore, come in altre occasioni, si sollevano da più parti (spesso per meri fini di consenso elettorale), mentre quotidiani a tiratura nazionale abdicano dal loro ruolo di aiuto al cittadino nella decodificazione di ciò che lo circonda per esibire in prima pagina slogan di pessimo gusto che rasentano l’incitamento all’odio. Per provare a contribuire a questo dibattito, ci sembra utile riproporre alcuni dei contributi che in merito sono stati prodotti di recente dai nostri collaboratori. Come il position paper con il quale il Professor Alberto Gambino ha aperto il convegno “Cybersecurity e tutela dei cittadini: strumenti normativi, modelli d’intervento e interessi in gioco“, evento ospitato l’11 febbraio scorso dalla Corte di Cassazione a poco più di un mese da un altro drammatico episodio avvenuto nel cuore di Parigi: l’attentato nella redazione di Charlie Hebdo. In quell’occasione, l’Avv. Giuseppe Busia, Segretario Generale Autorità Garante per la protezione dei dati personali, concentrò la sua attenzione sui pericoli di una eccessiva estensione dei poteri di intercettazione e sorveglianza in capo alla pubblica autorità: “L’esperienza della ‘pesca a strascico‘ della Nsa ci ha insegnato che spesso l’overload di dati raccolti li rende inutili, perché gli investigatori sono costretti a metterne da parte di significativi. Come del resto accaduto con gli attentatori di Parigi, supersospettati che erano stati tenuti d’occhio nei loro spostamenti e che in ogni caso hanno potuto mettere in atto il loro piano criminoso. Questo ci indica la strada, peraltro già tratteggiata nelle norme sulla privacy, verso una selezione dei dati realmente significativi da raccogliere per svolgere indagini e scongiurare sul nascere alcuni pericoli. E se centrale appare anche garantire la sicurezza degli spazi fisici nei quali sono conservati e tramite i quali circolano i dati, bisogna sempre eludere la possibilità che sia l’emotività a guidare l’azione normativa. Perché ciò che ci differenzia da chi ci attacca è un sistema di valori dove alle autorità non è permesso esercitare un controllo generalizzato, asfissiante al tal punto da condizionare e compromettere a monte la libertà di soggetti come Charlie Hebdo, che in uno stato di polizia non avrebbero certo potuto sorgere”. Un di vista simile per Alessandro Politi, direttore del NATO Defense College Foundation, che affermava: “Quando la sicurezza si svincola dal bene che protegge il rischio è grande”. Le criticità che si palesano nello stabilire i confini dei poteri di sorveglianza sono ormai il leitmotiv che accompagna ogni discussione in tema di sicurezza e finisce anche per spaccare il “fronte” dei Paesi occidentali, basti pensare allo squarcio aperto dalla recente sentenza della Corte di Giustizia con la sentenza di ottobre sul Safe Harbour. L’idea di potenziare gli strumenti tecnologici in capo ad investigatori e servizi di intelligence, se tradotta in una istintiva pulsione normativa, porta spesso a pericoli come quello che abbiamo corso nel marzo scorso, quando con il Dl Antiterrorismo si è rischiato di vedere implementata nel nostro sistema legislativo l’autorizzazione all’utilizzo indiscriminato di trojan di Stato altamente invasivi. Su scala continentale, invece, è al lavoro dal 1 luglio scorso una nuova unità dell’Europol, la “Internet Referral Unit” che ha tra i suoi principali obiettivo proprio quello di dare la caccia ai reclutatori via web dell’Isis.

Soro (Garante Privacy): “L’Europa parta dalla centralità dell’Habeas data per combattere il terrorismo”

Un’ultima osservazione: i social network tramite i quali (non si può negare) avviene una buona parte del reclutamento di futuri jihadisti sono gli stessi sui quali ieri sera, mentre gli attacchi erano ancora in corso, nascevano hashtag come #‎PorteOuverte, che su Twitter ha permesso, nei momenti di maggiore tensione e pericolo, a numerosi cittadini di trovare un rifugio sicuro nelle case del centro cittadino. Al contempo, su Facebook uno speciale tool permette dalla notte scorsa a chi si trova nella capitale francese di segnalare agli amici di non essere rimasto coinvolto negli attentati. 11168576_964117476980845_6501410696694877353_n  

La rete tra orrore e distorsioni, Prof. Gambino: “Disumanizzare la tecnologia espone a nuovi pericoli” Safe harbour 2.0: i nodi da sciogliere per un nuovo equilibrio tra privacy e sicurezza nel convegno con Joe Cannataci, UN Special Rapporteur on the Right to Privacy

14 novembre 2015

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