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Digital tax: melius re perpensa il Governo fa marcia indietro

di Alessio Persiani

Nel disegno di legge di stabilità trasmesso dal Governo al Parlamento pochi giorni fa [1] si nota un’assenza di rilievo: non c’è traccia delle norme sulla digital tax italiana che solo qualche settimana fa il Governo aveva annunciato di voler introdurre nel nostro ordinamento, sia pur rinviandone la decorrenza al 2017.

Fermo restando che il Parlamento ben potrebbe inserire la disciplina sulla digital tax nel corso dell’iter parlamentare della legge di stabilità – sempreché, ovviamente, il Governo non ponga la questione di fiducia sul testo così come trasmesso – non sembra fuori luogo ritenere che il ripensamento del Governo trovi fondamento nelle conclusioni cui è recentemente approdata l’OCSE sul tema della fiscalità dell’economia digitale; tema inserito – ricordiamo – più ampio progetto di contrasto ai fenomeni di erosione della base imponibile a livello internazionale e di spostamento del reddito in giurisdizioni con regimi fiscali più favorevoli [2].

Diciamo subito che se il motivo del ripensamento fosse quello appena esposto, si tratterebbe di una mossa da valutare positivamente: per le ragioni che si esporranno di seguito, infatti, la disciplina della digital tax di cui il Governo aveva ipotizzato l’adozione nelle scorse settimane – disciplina articolata sulla falsariga della proposta di legge cd. ‘Quintarelli-Sottanelli’ – presenta diversi profili di incoerenza rispetto alle analisi sviluppate dall’OCSE nel suo report fiscalità dell’economia digitale.

Le conclusioni di tale (ponderoso) report possono sintetizzarsi come segue:

(i) le criticità tributarie riferite alle imprese dell’economia digitale sono strettamente connesse a quelle che si pongono per la tassazione delle imprese multinazionali ‘tradizionali’ e, in particolare, si collegano alle carenze insite nella nozione di stabile organizzazione, quale collegamento necessario e sufficiente per assoggettare ad imposizione il reddito prodotto in un certo Stato da un’impresa non residente nel relativo territorio;

(ii) in quest’ottica l’OCSE ritiene che l’adozione delle modifiche proposte alla definizione di stabile organizzazione –applicabile a tutte le imprese, operanti tanto nei settori dell’economia ‘tradizionale’ quanto in quelli dell’economia digitale – dovrebbero mitigare significativamente le criticità tributarie proprie dell’economia digitale;

(iii) nessuna delle forme di tassazione o delle modifiche proposte e specificamente indirizzate al settore dell’economia digitale analizzate dall’OCSE – vale a dire, la modifica della nozione di stabile organizzazione mediante la configurazione di una stabile organizzazione in caso di ‘presenza digitale significativa’, l’applicazione di una ritenuta alla fonte sui pagamenti effettuati a favore delle imprese dell’economia digitale e l’adozione di un’imposta ad hoc con finalità di parificazione delle imprese operanti nel medesimo settore con modalità, rispettivamente, tradizionali e digitali – può considerarsi pienamente risolutiva delle diverse problematiche ed è immune da criticità in punto di compatibilità con i principi dell’ordinamento europeo e con la disciplina delle convenzioni contro le doppie imposizioni

(iv) i singoli Stati possono adottare autonomamente uno o più degli strumenti tributari ad hoc appena menzionati, salvo apportare le modifiche necessarie per renderli conformi ai principi tributari di fonte europea ed internazionale.

Se è vero che le conclusioni del report– ed in particolare quella riferita sub (iv) – sembrano dare, sotto il profilo generale, un impulso alla digital tax italiana, non è possibile ignorare né la precisazione secondo cui nessuno degli strumenti ad hoc analizzati è scevro da criticità (conclusione sub (iii)), né l’ulteriore raccomandazione di conformare le misure eventualmente adottate dagli Stati ai principi di fonte europea ed internazionale.

Venendo alla proposta Quintarelli-Sottanelli, abbiamo già evidenziato il rischio che la modifica della nozione domestica di stabile organizzazione di cui all’art. 162 TUIR – nel senso di ritenere quest’ultima configurabile anche “qualora si realizzi una presenza continuativa di attività online riconducibili all’impresa non residente, per un periodo non inferiore a sei mesi, tale da generare nel medesimo periodo flussi di pagamenti a suo favore […] in misura complessivamente non inferiore a cinque milioni di Euro” – possa sortire effetti limitati ai soli Paesi che non hanno concluso una convenzione contro le doppie imposizioni con l’Italia, in virtù della prevalenza della disciplina convenzionale più favorevole ai contribuenti [3]. Ancora, e sempre sotto il profilo generale, desta perplessità il modus operandisotteso alla modifica della nozione interna di stabile organizzazione: se – come chiarisce la relazione di accompagnamento alla proposta Quintarelli-Sottanelli – si intendono contrastare forme di elusione, sub speciedi stabili organizzazioni occulte delle imprese estere dell’economia digitale, appare peculiare voler raggiungere tale obiettivo mediante una norma di carattere strutturale – quale sarebbe la modifica della definizione di stabile organizzazione – anziché sulla scorta di una disciplina ad hoc che risulti puntualmente conformata in senso antielusivo [4].

Quanto, poi, ai tratti caratterizzanti la proposta di modifica della nozione di stabile organizzazione vale rilevare che le imprese non residenti operanti nel settore dell’economia digitale verrebbero ad avere una stabile organizzazione in Italia al ricorrere di due condizioni, una riferita all’ammontare dei ricavi, l’altra alla durata delle attività online svolte dall’impresa. Ebbene, nel trattare dei presupposti della stabile organizzazione basata sulla ‘presenza digitale significativa’, l’OCSE evidenzia bensì la non sufficienza del requisito riferito all’ammontare dei pagamenti effettuati a favore dell’impresa non residente, ma si occupa anche di individuare gli ulteriori elementi idonei a far presumere un collegamento effettivo e stabile tra l’impresa non residente ed il territorio dello Stato considerato. Tra questi elementi non si rintraccia quello temporale – cui fa invece riferimento la proposta Quintanelli-Sottanelli – probabilmente in ragione del fatto che l’aspetto temporale è bensì idoneo a provare la continuità dell’attività svolta, ma sembra essere meno indicativo del collegamento con il territorio statale: tenuto conto, peraltro, che si tratta di attività online, il suo svolgimento ben potrebbe situarsi al di fuori del territorio dello Stato di riferimento, producendosi in quest’ultimo solo i relativi effetti. È nella prospettiva di assicurare il collegamento con il territorio statale che si inquadrano, invece, gli indici cd. ‘digitali’ suggeriti dall’OCSE – quali l’operatività mediante un nome di dominio locale o mediante una piattaforma digitale modellata secondo le esigenze degli utilizzatori locali (ad es., in termini linguistici) e conformemente alle relative normative (ad es., quanto ai termini e condizioni applicabili) o, ancora, esponendo i prezzi dei beni o servizi in valuta locale ed offrendo agli utilizzatori la possibilità di acquistare in tale valuta – o, in misura minore, gli indici riferiti alla residenza di un numero significativo di utenti della piattaforma digitale o delle controparti dei contratti online o, ancora, degli utenti che forniscono i propri dati alla piattaforma digitale. Di qui, dunque, l’opportunità di una riflessione più approfondita a livello interno sui presupposti in grado di radicare in Italia la stabile organizzazione di un’impresa non residente in ragione della sua presenza digitale significativa.

Quanto, poi, al sistema di ritenute alla fonte che la proposta Quintarelli-Sottanelli intenderebbe introdurre [5], si tratta di previsioni che pure sollevano dubbi in relazione alla loro conformità tanto alle previsioni convenzionali, quanto ai principi dell’ordinamento europeo. La ritenuta da operarsi sui “redditi derivanti da transazioni online relativi a pagamenti effettuati da soggetti residenti, all’atto dell’acquisto di prodotti o servizi digitali presso un e-commerce provider estero” fa sorgere l’interrogativo sulla categoria di appartenenza di tali redditi in base all’art. 6 TUIR. Se si propende per un suo inquadramento tra i redditi d’impresa – essendo originato dall’esercizio di un’attività commerciale da parte dell’impresa estera – le convenzioni internazionali ne consentirebbero la tassazione in Italia solo in presenza di una stabile organizzazione italiana dell’impresa estera. Con la conseguenza che anche in tal caso l’ambito applicativo del criterio speciale di territorialità sarebbe ristretto alle ipotesi di Stati non convenzionati con l’Italia. Del pari, se si propendesse per un inquadramento come reddito diverso, le convenzioni internazionali non consentirebbero all’Italia di sottoporre il reddito ad imposizione, atteso che la potestà impositiva è attribuita in modo esclusivo allo Stato di residenza dell’impresa. Quanto alla ritenuta da applicarsi ai “compensi pagati da operatori nazionali a fronte dell’acquisto di licenze software successivamente distribuite sul mercato italiano”, essa affonda le proprie radici nella nozione di royalty che l’Italia sostiene debba trovare applicazione a livello internazionale, con impostazione non condivisa dagli altri Paesi OCSE. Pur essendo consapevoli della riserva apposta dall’Italia all’art. 12 del Modello OCSE [6], vale rilevare che la ritenuta in questione contribuirebbe sicuramente ad allontanare il nostro Paese dalla posizione maggiormente diffusa a livello internazionale. Per la ritenuta sui “pagamenti verso soggetti non residenti […] per l’acquisto di beni e servizi acquisiti online” valgono, a nostro avviso, considerazioni similari a quelle appena svolte per la ritenuta sui derivanti da transazioni online. Fermo restando che non risulta chiaro se e in che misura le ritenute in questione possano avere un diverso ambito di applicazione, occorre evidenziare che anche la ritenuta da operarsi sui pagamenti sarebbe parametrata, a ben vedere, al reddito dell’impresa estera: come chiarisce la relazione di accompagnamento, “la ritenuta del 25% tiene conto del fatto che, laddove [le imprese non residenti] avessero in Italia una stabile organizzazione, potendo calcolare la base imponibile sulla base di costi e ricavi, l’imposta da pagare, seppur con la più alta aliquota del 27,5%, sarebbe più bassa” [7].

A tali considerazioni riferite alle questioni internazionali [8] si aggiunga il punto, non secondario ed evidenziato dalla stessa OCSE, del rispetto dei principi europei e, specificamente, del principio di non discriminazione: la Corte di giustizia, infatti, ha più volte censurato regimi diversificati in punto di determinazione della base imponibile per i soggetti residenti e non residenti [9].

Alla luce di quanto esposto, dunque, sembra doversi accogliere positivamente la decisione del Governo di non introdurre la digital tax di cui alla proposta Quintarelli-Sottanelli nel nostro ordinamento, nell’auspicio che un tale rinvio consenta anche una più meditata riflessione sulla conformazione degli strumenti tributari più idonei a colpire la ricchezza dei big players dell’economia digitale.

Note

[1] Il riferimento è al disegno di legge n. 2111 comunicato alla Presidenza del Senato il 25 ottobre 2011.

[2] Il riferimento è al progetto “Base Erosion and Profit Shifting” (BEPS), come formalizzato nel documento OCSE “Addressing Base Erosion and Profit Shifting”, Parigi, 2013. I report conclusivi dei 15 temi oggetto del BEPS – tra cui quello sulla fiscalità dell’economia digitale (“Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy”) – sono stati pubblicati il 5 ottobre scorso.

[3] Sia consentito rinviare, in proposito, al nostro precedente La digital tax italiana: alcune brevi riflessioni, in www.dimt.it

[4] Come è il caso della Diverted Profit Tax recentemente adottata dal Regno Unito.

[5] Il sistema sarebbe piuttosto articolato. Una prima ritenuta, a titolo d’imposta e con aliquota del 30 per cento, colpirebbe i “redditi derivanti da transazioni online relativi a pagamenti effettuati da soggetti residenti, all’atto dell’acquisto di prodotti o servizi digitali presso un e-commerce provider estero”, nonché i “compensi pagati da operatori nazionali a fronte dell’acquisto di licenze software successivamente distribuite sul mercato italiano”, la cui territorialità verrebbe radicata in Italia sulla scorta di apposite modifiche dell’art. 23 TUIR. Una seconda ritenuta, anch’essa a titolo d’imposta e con aliquota del 25 per cento, colpirebbe i “pagamenti verso soggetti non residenti […] per l’acquisto di beni e servizi acquisiti online”, con il chiaro intento di indurre l’impresa non residente a dichiarare sua sponte l’esistenza di una stabile organizzazione italiana (come dimostra la circostanza che la ritenuta non troverebbe applicazione qualora l’impresa non residente dichiari di avere una stabile organizzazione in Italia). L’applicazione delle ritenute in questione verrebbe affidata agli intermediari finanziari che intervengono nell’effettuazione dei pagamenti.

[6] Fermo restando che non si tratta, tecnicamente, di una riserva nel senso proprio dei trattati internazionali, non essendo ad essa applicabile la relativa disciplina della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati.

[7] Si aggiunga, peraltro, che ove il reddito su cui, di fatto, grava la ritenuta sia da qualificarsi come reddito d’impresa, l’Italia potrebbe procedere alla sua tassazione solo in presenza di una stabile organizzazione italiana, vale a dire proprio nell’ipotesi in cui la legge esclude l’applicazione della ritenuta.

[8] Da arricchire, come fa l’OCSE, con una dubbia valutazione di conformità della ritenuta in parola con la disciplina del cd. ‘trattamento nazionale’ prevista dall’art. III del GATT; disciplina che non consente di sottoporre ad un diverso trattamento, anche tributario, il soggetto non residente rispetto a quello residente.

[9] Che avverrebbe, rispettivamente, al netto ed al lordo dei costi di produzione del reddito. Quanto alla giurisprudenza della Corte di giustizia UE, si vedano le sentenze C234/01, Gerritse; C-345/04, Centro Equestre e, più di recente, C-450/09, Schröder e C-559/13, Grünewald.

The Italian digital tax: some brief reflexions

29 ottobre 2015

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