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La rete ha bisogno di leggi speciali?

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È sempre più facile, leggendo le cronache politiche, imbattersi in roboanti dichiarazioni nelle quali vengono invocate nuove leggi, spesso accompagnate dall’aggettivo “speciali”, volte a contrastare fenomeni socialmente pericolosi dipinti come autoctoni del Web. Le polemiche intorno alle recenti uscite del presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini e del presidente del Senato Piero Grasso hanno lasciato detonare come mai prima il dibattito intorno ad un quesito fondamentale: la rete ha bisogno di leggi speciali? Un quesito al quale pochi giorni fa il Ceo di Google, Eric Schmidt, ha risposto da Roma un secco “no”.

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Che l’era digitale abbia ribaltato abitudini sociali, modelli di business e spesso ridisegnato i confini di numerosi diritti è fuori discussione, ma la volontà di risolvere alcune criticità spesso si trasforma in una pulsione a legiferare a tutti i costi che arriva a confondere, nelle soluzioni proposte, il mezzo con il suo utilizzo. Il risultato è spesso la proposta di ricette che rischierebbero di risolvere ben pochi problemi e, ignorando tra l’altro le leggi già esistenti, aprirebbero al pericolo di veder frustrate le potenzialità che le nuove tecnologie stanno offrendo in termini di circolazione dell’informazione e libertà di espressione. Sono questi i nodi intorno ai quali si è sviluppata la puntata di “Presi per il Web” di domenica 13 ottobre. La trasmissione di Radio Radicale, ideata da Marco Perduca e condotta da Marco Scialdone e Fulvio Sarzana, ha fatto sedere intorno alla virtuale tavola rotonda Alberto Maria Gambino, professore ordinario di diritto privato presso l’Università Europea di Roma, Martina Pennisi, giornalista collaboratrice di Corriere della Sera e Wired, e Stefania Maurizi, giornalista collaboratrice de L’Espresso. “Ritengo che non sia corretto parlare di leggi speciali per il Web – ha affermato Gambino – a meno che non si voglia affermare che non esistano già regole giuridiche per Internet, mentre di leggi ce ne sono tantissime. Ogni settore del Web è stato regolamentato con delle normative che al principio non si occupavano di rete ma hanno aggiunto delle norme ad hoc per il contesto telematico”. “La reazione della politica di proporre nuove norme in coincidenza con determinati fatti di cronaca –  ha proseguito Gambino – si spiega con il fatto che la giurisdizione e la rete hanno tempi diversi. La prima ha bisogno di elementi come garanzie, contraddittorio e riconoscimento della certezza del diritto, ognuno dei quali ha bisogno di tempo, ma il tempo è in contrasto con la rete, e quindi nel momento in cui noi attendiamo delle decisioni che attengono ai diritti nella rete il magistrato arriva sempre in ritardo, a volte anche dal punto di vista tecnologico perché non ha gli strumenti cognitivi per riconoscere una serie di tipologie nascoste nello strumento. E a quel punto la reazione più facile è quella di auspicare nuove leggi ad hoc. Ma ripeto non è corretto, mentre sarebbe utile cercare di vedere se nelle leggi che esistono già non ci sia la possibilità di una regolazione di secondo livello in modo da lasciare nelle decisioni sul caso singolo tempi più stringenti però legando tutto alle esigenze di un contraddittorio. Perché il rischio è che dietro a questa idea che si debbano fare nuove leggi si voglia in qualche modo conculcare il diritto nella rete e i diritti soggettivi, e questo è un rischio soprattutto nel campo della libera informazione”. Subito dopo l’intervento di Martina Pennisi, giornalista che ha seguito la vicenda di Ask.fm e gli appelli su una più stringente regolamentazione tarata su questo social network dopo drammatici fatti di cronaca che avevano visto il suicidio di due giovani britannici che avevano subito episodi di molestie sulla piattaforma: “Il problema sembrava essere diventato il mezzo stesso e non quello che vi accadeva dentro. Perché si parla di bullismo e cyberbullismo come fossero due cose diverse e non lo stesso fenomeno che prende vita su spazi diversi? È in realtà la rapidità di quello che avviene online a rendere la fattispecie diversa rispetto all’offline”. “E l’effetto cassa di risonanza e di moltiplicazione del messaggio che si verifica online”, ha precisato Gambino. “In Italia – ha proseguito Pennisi – abbiamo riscontrato che su Ask.fm il problema principale è la presenza dei server in Paesi con i quali non c’è una relazione diretta, essendo in Lituania, aspetto che rende più difficoltoso ogni intervento della Polizia postale, il che resta comunque un problema legato esclusivamente alla gestione tecnica del mezzo”.

Poi il focus si è spostato sull’anonimato in rete, con Pennisi che ha dichiarato sicura che “l’anonimato è una prerogativa della rete, ma la cronaca insegna che quando c’è una denuncia la rete permette di risalire alle persone meglio di quanto succede offline”. La palla è passata così a Stefania Maurizi, autrice del libro “Dossier Wikileaks. Segreti italiani”, testo la cui prefazione è stata scritta da Julian Assange. “Il processo alla fonte di Wikileaks Manning davanti alla Corte Marziale – ha spiegato Maurizi – ha dimostrato che l’anonimato pensato da Wikileaks funziona, che non è stata la tecnologia a tradirlo. Wikileaks fa semplicemente una riproposizione tecnologica di ciò che si fa da sempre nelle redazioni: ricevere documenti scottanti e proteggere la fonte. Assange ha reso tutto questo molto più impattante. Una differenza fondamentale tra Bradley Manning ed Edward Snowden è che il primo ha voluto agire nel totale anonimato, mentre il secondo ha scelto fin dall’inizio di essere una fonte messa sotto i riflettori, ritenendo che fosse poroprio questo a poterlo proteggere. Le rivelazioni emerse da Snowden hanno rivelato che ormai è possibile un livello di sorveglianza totale dal quale non c’è difesa e che era difficile da immaginare prima, soprattutto per l’imponenza dei numeri. E non credo che la Nsa tornerà indietro, perché ha acquisito le tecnologie e la fattibilità economica della sua attività la rende senza dubbio conveniente”. A tirare le fila alla fine della puntata è stato Marco Scialdone: “Sembrano emergere due aree di regolazione: quella dei comportamenti giuridici in rete e quelli che riguardano la rete in quanto strumento a se stante”. Sul secondo aspetto Gambino ha affermato: “Bisogna prestare grande attenzione a non perdere, nella regolazione, la sovranità statale come l’abbiamo conosciuta finora e che viene messa in crisi dalle nuove tecnologie. Inoltre, non si possono lasciare sacche di monopolio all’interno dei contesti tecnologici, questo è il vero tema della regolazione; poi nell’utilizzo dello strumento entrano i temi intersoggettivi, e lì andremo a vedere se ci sono lesioni e violazioni di leggi, ma in questo secondo scenario si ripercorrono semplicemente le logiche dei rapporti convenzionali esistenti da sempre”. “Sarebbe bello  – ha chiosato il professore in conclusione – se riuscissimo a liberarci dalla cooptazione che caratterizza l’arrivo dei protagonisti della politica in Parlamento, dinamica che rende sempre meno competente il potere legislativo. Il tutto in un contesto in cui i nostri testi universitari non prendono in considerazione tutti i temi che riguardano le più avanzate tecnologie. E sui contenuti di carattere informativo sarebbe bene che i vuoti regolamentari venissero colmati dal Parlamento e ancor meglio da ministeri come quello dei Beni Culturali. Ma soprattutto occorre riaprire una stagione di cultura tecnologica che deve affiancare quella giuridica, serve la conoscenza da parte del cittadino rispetto all’utilizzo che fa delle tecnologie. In questa fase storica l’autorità legislativa di fonte secondaria, il governo, deve prendere in mano la situazione”.

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