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Video in streaming e diritto d’autore: l’antipirateria tedesca chiede un risarcimento agli utenti di RedTube

Circa 10mila cittadini avrebbero ricevuto comunicazioni da parte di uno studio legale teutonico con la richiesta di 250 euro di risarcimento per violazione di copyright. Ma la piattaforma indicata presenta contenuti in streaming e non è chiaro come l’organizzazione abbia raccolto i dati dei destinatari delle missive Una lettera da parte dei legali di un titolare di diritti d’autore nella quale si chiede a un utente del Web un risarcimento per la violazione di copyright. Una dinamica diventata sempre più comune nelle azioni di associazioni ed enti antipirateria sparsi per il pianeta, i cui membri spesso si inseriscono nelle reti sulle quali vengono scambiati i file per fare incetta di riferimenti ai quali inviare missive nelle quali, sostanzialmente, si chiede una somma di denaro per non essere trascinati in tribunale. Ma l’ultimo caso tedesco raccontato da HeiseOnline presenta due anomalie: la piattaforma mette a disposizione solo video in streaming e non si capisce come i mittenti delle lettere abbiano raccolto i dati dei destinatari, circa 10mila. Lo spazio online in questione è il sito RedTube, che ospita contenuti a luci rosse in una modalità non dissimile da YouTube. Nelle lettere dello studio legale U&G, inviate su mandato della società The Archive AG, ci sarebbe una richiesta complessiva di 250 euro circa per la violazione di copyright perpetrata attraverso la semplice visione dei video; la legge sul diritto d’autore tedesco, reclama lo studio legale, punirebbe anche la sola visione di determinato materiale in quanto genera una memorizzazione nella cache dei dispositivi sulla quale avviene. Punto di vista già espresso in passato da esponenti dell’antipirateria tedesca, come l’organizzazione GVU, che nel giugno 2011 parlò delle copie cache come prova di violazione del diritto d’autore in questo tipo di situazioni. Una visione contestata dall’avvocato Christian Solmecke, il quale ritiene che tramite lo streaming non può essersi consumata una tale violazione di copyright: “Quando si guardano i film sul proprio computer si genera una copia privata legale in conformità alla legge sul copyright. Inoltre, l’unica copia è rappresentata da alcuni secondi di buffering che finiscono nella memoria volatile del computer”. Questione controversa ma meno preoccupante del quesito sulla fonte dei dati riferiti all’identità degli utenti. Se i vertici della piattaforma RedTude smentiscono di aver operato in tal senso (“Perseguiamo principi di protezione della privacy rigorosi”, ha affermato il vicepresidente Alex Taylor), le altre ipotesi fanno riferimento ad un possibile malaware, un’ordinanza di un tribunale al momento non rivelata e il possibile reindirizzamento degli utenti su un dominio diverso nel quale venivano tracciati. LA GUERRA DEGLI IP – In un quadro più ampio, la battaglia sui dati degli “scariconi” è dilagata negli ultimi anni soprattutto negli Stati Uniti, dove è ormai costante il braccio di ferro tra antipirateria e intermediari delle comunicazioni online, Internet Service Provider su tutti. Solo poche settimane fa Comcast, Verizon, At&t, Time Warner e Cox hanno presentato ricorso in appello contro l’ordinanza con la quale lo scorso anno era stato imposto loro di rivelare alla casa di produzione di contenuti a luci rosse Af Holdings le informazioni relative a 1.058 utenti sospettati di aver illegalmente fruito di un film protetto da copyright. Una partita che ha già una sua lunga storia: nel giugno 2012 Comcast si era rifiutata di consegnare dati alla casa di produzione Perfect 10scontando un verdetto favorevole di un giudice di Chicago, la stessa posizione assunta da Verizon in novembre nonostante i vari subpoena, gli obblighi di un giudice in tal sensoNell’aprile scorso lo scontro era ancora tra Verizon e il produttore di contenuti pornografici Malibu Media, anche se stavolta tarato su un singolo utente texano e foriero di un inceppamento nel meccanismo del Six Strikes a stelle e strisce. C’è poi chi ha pensato addirittura di brevettare il meccanismo di invio delle lettere con le richieste di risarcimento agli utenti, come richiesto nel dicembre 2012 allo United States Patent and Trademark Office dall’organizzazione antipirateria Digital Right Corps. I dubbi sulla liceità di certi meccanismi si sommano a quelli sulla reale possibilità che gli stessi indirizzi IP possano corrispondere ad una persona fisica. Già nel maggio 2011 una corte dell’Illinois aveva stabilito che un indirizzo IP non basta ad identificare un colpevole. L’anno successivo a ribadirlo era un giudice di New York; poche settimane dopo un nuovo duro colpo dalla California e poi una nuova conferma in ottobre. E se la maggior parte degli esempi fin qui riportati fanno riferimento a piattaforme e contenuti a luci rosse, non sfugga che in realtà il funzionamento delle piattaforme sopra citate è in molti casi identico a quello di numerosi altri spazi online il cui utilizzo è ormai entrato nel nostro quotidiano, YouTube su tutti. Foto in home page: Pasquale Giordano via Flickr.com 11 dicembre 2013

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