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App anti-COVID: rendiamola obbligatoria o non servirà a nulla

Di Marco Scialdone e Marco Pierani

Dal 4 maggio torneremo a spostarci con più libertà. Non dovunque sia chiaro: i trasferimenti interregionali saranno ancora inibiti per qualche tempo. Molte attività non riapriranno, i nostri figli non torneranno a scuola, saremo obbligati, con grande probabilità, ad indossare dispositivi di protezione per accedere ai supermercati o ai mezzi pubblici.

Il COVID-19 ha annientato molte delle libertà e dei diritti costituzionali con cui abbiamo familiarità: la libertà di spostarsi liberamente, la libertà di riunirsi, la libertà di fare impresa, il pieno diritto allo studio e, finanche, quello alla salute per certi versi.

Negli ultimi due mesi abbiamo accettato con grande sacrificio, ma altrettanta abnegazione che ogni nostra libertà fosse compressa per un periodo di tempo limitato in nome di un bene superiore, quello della collettività alla salute pubblica.

Chi scrive non ricorda accese polemiche sulla proporzionalità delle misure adottate, ad esempio, se un lock down totale avesse senso anche per posti in cui, dall’inizio dell’epidemia, non si è registrato un solo caso di Covid-19. Era ed è giusto così: in uno stato democratico e forte, ci si fida – in particolare in una situazione di dichiarata emergenza – delle decisioni governative, perché vigilate dal Parlamento e perché, in ultima istanza, offerte al giudizio degli elettori nel silenzio della cabina elettorale.

In uno stato democratico e forte, inoltre, si usano – anche in una situazione di dichiarata emergenza – gli strumenti del diritto e si usano le giurisdizioni per correggere provvedimenti non legittimi.

Privacy uber alles?

Tutto quello che avete appena letto, non vale per quel microcosmo tecno-elitario che ruota intorno alla sacra religione della “privacy uber alles”.

Chi legge sa quanti articoli siano stati pubblicati nelle ultime settimane sulla fantomatica app di “contact tracing” Immuni che dovrebbe, nelle intenzioni dei proponenti, rappresentare un tassello di quel percorso fatto di 3T (Test, Trace, Treat) che l’organizzazione mondiale della sanità propone per la lotta alle pandemie (ci perdoneranno i medici per la semplificazione).

Sul tema si sono pronunciati davvero tutti, in quella che ormai assume le sembianze di una psicosi collettiva: per fortuna la collettività di riferimento è assai ristretta sebbene così autoreferenziale da percepirsi come maggioranza.

Sia chiaro, non si vuole sminuire la portata della questione ma solo restituirle la giusta collocazione: in un mondo in cui da più di 40 giorni siamo tutti (o quasi) reclusi in casa, forse occorrerebbe interrogarsi sulla compressione (in essere) di altre libertà costituzionali, piuttosto che su una futura, ipotetica, compressione del diritto alla riservatezza.

App Immuni (e simili), sappiamo ancora troppo poco

Avete letto bene: futura ed ipotetica. Perché si è scritto tanto, ma si sa molto poco.

Non sappiamo praticamente nulla dell’app Immuni e quel poco che ci viene distillato (ieri, finalmente, un salvifico chiarimento dal Ministero dell’Innovazione Tecnologica e della Digitalizzazione ha posto termine al dibattito “sarà open source? Deve essere open source!”) dovrebbe rassicurare più che inquietare.

C’è, però, un punto, davvero vitale, su cui soffermarsi, un punto che non è soltanto italiano ma europeo, di un’Europa che, in questa emergenza sanitaria, in fatto di privacy pare, metaforicamente (come una novella Maria Antonietta), occuparsi delle brioche mentre è il pane che sta per mancare.

Tutti i documenti comunitari finora rilasciati (dalla Commissione al Parlamento Europeo, alle linee guida dell’EDPB) sono chiari: l’app, raccomandano, non dovrebbe essere imposta, sebbene la base giuridica legittimante il trattamento dei dati possa in questo caso, ai sensi del GDPR, non essere il consenso.

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