Il 20 gennaio 2025, presso la prestigiosa Sala Consiliare del Palazzo Valentini a Roma, si…
Il contact tracing e la questione privacy. Intervista a Giorgio Resta e Vincenzo Zeno-Zencovich
Giorgio Resta è professore ordinario di Diritto privato comparato all’Università Roma Tre.
Vincenzo Zeno-Zencovich è professore ordinario di Diritto comparato all’Università Roma Tre.
Professor Resta, davvero il contact tracing ci obbliga a rinunciare alla privacy? Oppure è possibile bilanciare la necessità di tracciamento con la protezione dei dati personali?
G.R.: Credo sia anzitutto necessario distinguere tra tracciamento “manuale” e tracciamento “digitale”, due ipotesi ben diverse per i problemi che implicano, eppure spesso sovrapposte in maniera confusoria nelle pratiche discorsive. Il primo è il metodo tradizionalmente seguito per prevenire e contenere la diffusione delle malattie infettive e si basa su una serie di procedure collaudate – ben esplicitate nelle linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità – le quali vanno dall’intervista del soggetto positivo, all’identificazione dei contatti, alla classificazione del rischio e infine alla comunicazione con i soggetti coinvolti. Il secondo è il sistema sperimentato in anni più recenti soprattutto nei paesi dell’Est asiatico e che si avvale dei big data al fine di ricostruire i contatti a rischio, eventualmente allertarli e adottare tutti i provvedimenti conseguenti, di un soggetto diagnosticato con una patologia trasmissibile come il COVID-19.
Se la domanda che mi ha posto si riferisce al tracciamento manuale, ebbene la risposta è più semplice. Benché sia indubbia una compressione del diritto alla protezione dei dati personali (trovo sia riduttivo discutere di privacy in questo contesto, perché parliamo anche di dati che sono pubblici e poco o punto confidenziali, come i luoghi frequentati da un soggetto), nessuno dubiterebbe che una siffatta limitazione sia non soltanto legittima ma socialmente desiderabile. Il diritto alla protezione dei dati personali non è stato mai concepito in Europa come una sorta di diritto dominicale sulla propria sfera privata – come alcuni movimenti libertari e i fautori delle tesi di impronta giuseconomicistica più radicali vorrebbero suggerire – ma ha sempre ricevuto una configurazione a geometria variabile in funzione della natura dei dati coinvolti e delle finalità del trattamento. Quando ci si trovi in presenza di un trattamento mirato al perseguimento di finalità di sostanziale interesse pubblico, quale l’individuazione dei soggetti a rischio e il contrasto a una pandemia, la compressione della sfera individuale deve ritenersi in linea di principio fondata su un’idonea base giustificativa (ai sensi degli artt. 6 e 9 GDPR) e dunque legittima. In tal senso basti richiamare il chiaro dettato del considerando 46 GDPR, che attesta la liceità del trattamento mirato a “tenere sotto controllo l’evoluzione di epidemie e la loro diffusione”; nonché il considerando 112, che ammette a dirittura il trasferimento di dati all’estero ai sensi dell’art. 49 GDPR “in caso di ricerca di contatti per malattie contagiose”, come ha ben evidenziato l’EDPB nelle linee guida sul contact tracing e in quelle sulla ricerca scientifica nel contesto pandemico. Ed ancora è in quest’ottica che si è orientato sin da principio il “diritto dell’emergenza COVID-19” e in particolare l’art. 14 del decreto legge 14/2020, ora art. 17-bis del d.l. 18/2020 di recente convertito in legge, che ha ammesso entro ampi margini la comunicazione dei dati personali per finalità di contrasto alla pandemia (ne ho parlato con maggiori dettagli in un recente Editoriale dettato per Giustiziacivile.com). Non potrebbe essere diversamente, perché il tipo di interferenze con la sfera personale delle quali discorriamo sono non soltanto limitate sul piano temporale e di contenuto, ma anche necessarie per il perseguimento dello scopo legittimo della tutela della salute. Dunque, siamo perfettamente all’interno del parametro di proporzionalità, la vera chiave di volta del sistema europeo di tutela dei diritti fondamentali.
Se invece il discorso si sposta sul tracciamento digitale, la valutazione deve essere più cauta e circospetta. È ben vero che le finalità del trattamento sono sempre quelle del contrasto alla pandemia e della tutela della salute e come tali esse non possono che ritenersi pienamente legittime e conformi al principio di solidarietà. Ciò che muta, tuttavia, è la natura dello strumento utilizzato, e dunque l’ampiezza dell’interferenza con la sfera personale e i rischi che questa solleva. Il ricorso alla tecnologia digitale altera oggettivamente i termini del problema e richiede di essere discusso non già secondo un approccio ideologico, ma in maniera pragmatica, misurando con attenzione costi (non solo economici) e benefici attesi di una scelta che non è socialmente neutra (in termini generali v. l’argomentazione di B. Deffains – T. Perroud, L’arbitrage entre les bénéfices et les coûts semble avoir été omis ou n’a pas été rendu public, in Le Monde, 15 maggio 2020). Iniziamo col ricordare i principali benefici di un sistema di tracciamento digitale, in particolare rispetto a una patologia che può coinvolgere un elevato numero di soggetti asintomatici capaci di trasmettere l’agente patogeno: a) esso promette di supplire ai vuoti di memoria del soggetto interessato, che potrebbe non ricordare tutte le persone con le quali è entrato in contatto nel periodo epidemiologicamente rilevante; b) può portare ad emersione i contatti sconosciuti, con i quali la persona ha intrattenuto un rapporto a rischio, nel senso del superamento della soglia spaziale e temporale ritenuta sicura; c) assicura una comunicazione pressoché immediata con i contatti a rischio, supplendo peraltro al possibile divario linguistico (cosa che è particolarmente importante in contesti etnicamente e linguisticamente non omogenei); d) è un sistema che, a regime, potrebbe presentare minori oneri organizzativi – in termini finanziari e di risorse impiegate – rispetto alle tecniche tradizionali. D’altra parte, per valutare i costi sociali dovrebbe essere ben chiara l’architettura tecnologica prescelta, ed in particolare lo spettro di informazioni oggetto di trattamento, le modalità della loro raccolta, la durata della loro conservazione, le possibilità di impiego diretto e secondario. Ad esempio, rientra a tutti gli effetti nella nozione di ‘tracciamento digitale’ il sistema previsto a partire dal 2015 dalla legislazione sud-coreana, il quale implica l’accesso – e poi la divulgazione in forma anonima per segnalare al pubblico i luoghi a maggior rischio di contagio – a una corposa mole di dati, quali i metadati di comunicazione, e in particolare i dati che permettono la geolocalizzazione dell’individuo, i dati relativi alle transazioni finanziarie, le immagini registrate dalle videocamere di sorveglianza, i dati desunti dalle cartelle cliniche. Oppure può pensarsi a un’architettura ‘minimale’, come quella del tracciamento di prossimità attraverso una app dedicata che funziona tramite i dispositivi bluetooth e che conservi i dati sui contatti “qualificati” (per prossimità, durata ecc) in modalità anonima e crittografata sul terminale locale.
Certamente si tratta di un’ipotesi meno invasiva della prima, e tuttavia una sua valutazione definitiva non può prescindere dall’analisi di tutti gli elementi di contesto, ed in particolare dalla risposta alla domanda: quale utilizzo si intende fare dei dati di contatto? Si immagina una valutazione algoritmica del rischio e l’invio di un alert automatizzato; o uno screening preventivo operato dalle autorità sanitarie? Con quali effetti, nel primo caso: un obbligo ‘automatico’ di quarantena sino all’effettuazione del test diagnostico? La quantità dei test disponibili è sufficiente per coprire il flusso atteso di segnali d’allarme inviati automaticamente dalla macchina? E quali sono le oggettive probabilità che lo strumento tecnologico si riveli davvero effettivo sul piano del contenimento della pandemia? Non è necessario andare oltre. Credo che sia chiaro il senso del discorso: poiché ogni forma di raccolta, conservazione e trattamento dei dati personali è fonte di una compressione della libertà di autodeterminazione informativa degli individui, e poiché questa compressione è massima per intensità ed effetti quando si avvale delle tecnologie informatiche, ogni proposta di trattamento automatizzato dei dati necessita di una preventiva valutazione in termini di proporzionalità dell’ingerenza. Il tracciamento ‘digitale’ può certamente perseguire scopi legittimi, al pari del tracciamento manuale, e può probabilmente risultare utile nel contrasto alla pandemia. Ciò non significa, tuttavia, che il decisore pubblico che ne proponga l’adozione debba andare esente dalla previa dimostrazione che l’ingerenza in discorso rappresenta uno strumento strettamente indispensabile per perseguire gli scopi legittimi di tutela della salute pubblica, sia assistito da garanzie adeguate e non ci siano alternative meno invasive per conseguire i medesimi obiettivi.
Professor Zeno-Zencovich, da più parti sono stati espressi dubbi sulla legittimità delle applicazioni per il contact tracing. Lei come risponde?
V.Z.Z.: Quotidianamente centinaia di milioni di cittadini europei conferiscono a soggetti privati, consapevolmente o inconsapevolmente, dati analoghi a quelli che le app di tracciamento dovrebbero raccogliere: dalla banale funzione di localizzazione a quella meteo, alle indicazioni sul traffico e sui rilevatori di velocità, alle piattaforme per la ricerca di locali e negozi più vicini, i nostri spostamenti (e ovviamente anche le nostre preferenze) sono monitorati, aggregati e “venduti” attraverso le migliaia di cookies che con un semplice click abbiamo accettato (e spesso anche senza averli accettati).
Beninteso, non siamo degli sprovveduti, ma pensiamo che i servizi che riceviamo valgano la cessione dei nostri dati, dei quali tutto sommato non ci curiamo più di tanto. Chi dunque esprime forti dubbi sulle app di tracciamento dovrebbe in primo luogo prendere in mano il proprio telefono mobile e chiedersi se tali critiche siano coerenti con il proprio comportamento abituale.
Non dobbiamo preoccuparci, quindi?
V.Z.Z.: Il fatto che centinaia di app già tracciano la nostra quotidianità non è una giustificazione per mandare al macero la protezione dei dati riguardanti la nostra salute. Obbliga però ad una riflessione senza pregiudizi e soprattutto che guardi al futuro.
In primo luogo occorre ristabilire alcune gerarchie di valori: la salus rei publicae deve prevalere su diritti individuali, rilevantissimi ma obiettivamente secondari rispetto alla vita umana.
In secondo luogo, occorre mettere in evidenza con forza che il trattamento di dati sanitari da parte di una istituzione pubblica – qual è, in Europa, il servizio sanitario nazionale – e soggetta a tutti i controlli che già esistono è assai più rispettosa dei diritti alla privacy rispetto alle opache prassi commerciali del mondo dei Big Data e alle impenetrabili agenzie di sicurezza e anti-crimine.
In terzo luogo, la questione delle app di tracciamento appare questione probabilmente (ed auspicabilmente) superata dall’affievolirsi del virus e dei suoi contagi. Quel che resta sul tappeto come fondamentale esigenza di sistemi sanitari pubblici evoluti ed efficienti è quella della telemedicina, ovverosia dell’uso costante e generalizzato di strumenti digitali portatili (di cui lo smartphone è l’espressione più ovvia) per monitorare a distanza e in tempo reale lo stato di salute soprattutto di soggetti a rischio. Per questo i dati relativi a stati morbili dovrebbero restare registrati nel fascicolo sanitario digitale di ciascuno, mentre quelli aggregati devono poter essere utilizzati per le preziosissime ricerche epidemiologiche che ci aiutino a capire cosa è successo in passato e come prevenire sciagure future.
La pandemia potrebbe quindi rivelarsi un’occasione per un avanzamento dei legami tra medicina e tecnologie digitali?
V.Z.Z.: Sì. E i cittadini europei sanno bene che i loro dati sanitari sono stati, sono e saranno trattati con la stessa attenzione con la quale in questi mesi medici ed infermieri si sono prodigati per trattare i malati di COVID-19.
Della app Immuni e dei presunti rischi per la privacy ne ha discusso anche Alberto Gambino, prorettore dell’Università Europea di Roma e direttore scientifico di DIMT, in un’intervista con AGTW.
Professor Resta, ci sono differenze di approccio tra Italia e – ad esempio – Germania, dove sembra che il contact tracing stia aiutando molto nel contenimento dei contagi da coronavirus?
G.R.: Per rispondere compiutamente a questa domanda bisognerebbe coinvolgere gli operatori sanitari e gli esperti di medicina preventiva, i quali dispongono di dati più precisi ed attendibili. Dal mio, ben limitato, punto di vista posso osservare che più che una diversa filosofia, è emersa una diversa capacità organizzativa dei due sistemi relativamente al problema dell’accertamento diagnostico, della ricerca e della gestione dei contatti. Mi limito ad osservare che il Decreto del Ministero della Salute del 30 aprile 2020, nello stabilire i criteri per il monitoraggio del rischio sanitario connesso al passaggio dalla fase 1 alla fase 2A, auspica nell’interazione con le Regioni che per le attività di indagine epidemiologica, il tracciamento dei contatti, il monitoraggio dei quarantenati e l’esecuzione dei tamponi siano messe a disposizione almeno 1 persona ogni 10.000 abitanti (L. Baratta, Non è scomparsa solo Immuni, mancano anche seimila tracciatori di contatti, in Linkiesta, 23 maggio 2020). Di contro, già il 25 marzo le autorità tedesche hanno stabilito la soglia di riferimento in 5 contact tracers ogni 20.000 abitanti, dunque più del doppio. Non soltanto. Se si passano ad analizzare i dati rilevanti a livello dei singoli Länder, i quali hanno competenza in materia, il divario con il nostro assetto organizzativo e di risorse umane si rivela altrettanto profondo. Nel Nord-Reno Vestfalia, il più popoloso dei Länder, la quantità di personale applicato al tracciamento, sin dal momento dello scoppio della pandemia, è all’incirca di 5 persone su 25.000 abitanti; nel Baden-Württemberg la quota si innalza a 5 persone ogni 18.000 abitanti; in Baviera, invece, essa scende a circa 5 persone ogni 33.000 abitanti (per questi dati v. A. Nardelli, Germany Has Shared The Details Of Its Coronavirus Contact Tracing Operation. The UK Won’t, in BuzzFeed.News, 9 maggio 2020). Non saprei dire, quindi, se l’approccio sia radicalmente diverso. Senza dubbio, però, l’entità delle risorse umane impiegate in Germania per l’identificazione e l’isolamento dei contatti è sensibilmente maggiore. Possiamo soltanto auspicare che la drammatica situazione vissuta dal nostro paese in questo frangente e gli enormi costi umani ed economici che ne sono derivati servano a porre in atto una diversa e migliore organizzazione dell’assetto istituzionale per una prossima eventuale epidemia. L’esperienza della Sud Corea dovrebbe essere da questo punto di vista meritevole di considerazione. Colta impreparata di fronte allo scoppio della Mers nel 2015, la Sud Corea ha profondamente rivisto la normativa applicabile al sistema di contrasto e prevenzione delle malattie infettive, accentrando e coordinando in maniera più efficace le competenze gestionali, elevando la capacità di risposta sul piano diagnostico, disciplinando in maniera capillare l’accesso alle informazioni utili per il tracciamento dei contatti e per l’individuazione dei luoghi a maggior rischio di contagio (v. in part. l’art. 76 bis dell’Act on Infectious Disease Prevention and Control). A giudicare dai risultati conseguiti nella gestione dell’emergenza COVID-19, sembra possa affermarsi che la lezione del 2015 è stata appresa e assimilata in senso migliorativo.
Posto che una app sia certamente necessaria, non si corre secondo lei il rischio di sopravvalutarne l’efficacia? A scapito, ad esempio, del lavoro sul territorio degli operatori sanitari?
G.R.: Non mi sento di sottoscrivere l’affermazione per cui la app è “certamente necessaria”. Insisto nel riproporre la linea argomentativa delineata in precedenza. Mentre è certamente necessario dotarsi di un sistema efficace di tracciamento dei contatti, non possiamo essere certi che lo sviluppo di una applicazione per telefonia mobile – quale che sia la sua architettura: sia essa centralizzata, decentralizzata (come Immuni) o mista – sia in questo momento uno strumento strettamente indispensabile per il contenimento pandemia. Come è ben noto, perché la app di tracciamento possa conseguire gli obiettivi per cui è stata concepita, devono darsi due condizioni principali: 1) deve essere garantita la capacità di accedere con rapidità ai test diagnostici da parte dei soggetti identificati come contatti a rischio; 2) la app deve raggiungere una soglia di diffusione presso il pubblico che diversi studi stimano intorno al 60% della popolazione. Ebbene, secondo alcuni calcoli, se si dovessero sottoporre a test tutti i soggetti ‘allertati’ dalla app in quanto contatti di persone positive, il servizio sanitario dovrebbe essere in grado di effettuare e analizzare circa 400.000 tamponi al giorno, il che sembra andare al di là delle sue attuali possibilità (sul punto v. R. Luna, Gialli, rossi, verdi e adesso anche arancioni: la app Immuni spiegata bene, in Repubblica, 29 aprile 2020). D’altronde, se i tamponi non fossero agevolmente disponibili, è ragionevole ritenere che, scontando il rischio della quarantena per il semplice alert (che potrebbe essere determinato da un falso positivo, come pure ben sappiamo), molte persone siano indotte a non servirsi affatto della app medesima. E ciò conduce al secondo punto. Spero davvero di sbagliarmi, ma sono ragionevolmente certo che non ci si avvicinerà alla soglia critica attesa. Le esperienze di Singapore e dell’Australia – pur esaltate in una prima fase da molta letteratura – restituiscono un tasso di utilizzazione della app che si aggira tra il 14% e il 20% secondo molte stime. In Australia peraltro, dove la app CovidSafe è stata lanciata dal Governo il 20 aprile 2020 come strumento essenziale per ritornare alla normalità, risulta che ad oggi soltanto 1 persona sia stata identificata come contatto a rischio tramite la suddetta applicazione. Non voglio qui addentrarmi nell’analisi della letteratura scientifica che spiega quali possono essere sono i fattori dissuasivi rispetto all’installazione e all’uso della app. Voglio invece sottolineare che a mio avviso la app può risultare uno strumento utile, ma sarebbe assolutamente erroneo e controproducente presentarla come una scelta obbligata e indispensabile, anche perché, molto semplicemente, non abbiamo ancora dati empirici che possano corroborare una siffatta tesi.
Ciò significa, sul piano della comunicazione pubblica, abbandonare i toni enfatici della ineluttibilità tecnologica e invece provare a spiegare, con pacatezza e con il beneficio del dubbio, che il ricorso ad uno strumento di questo tipo, circondato da tutte le cautele descritte nel dl 28/2020, può offrire un contributo modesto ma non irrilevante alla gestione delle procedure di tracciamento e al contrasto alla pandemia. In particolare, mi piacerebbe pensare a una comunicazione pubblica che presenti l’installazione della app come una sorta di destinazione solidaristica dei dati personali, modellata sull’archetipo del dono di organi e tessuti per trapianto. La cifra della solidarietà e non quella della efficienza, in altri termini, dovrebbe connotare, quale ideale marchio di qualità, qualsiasi app di tracciamento.
Ciò detto, credo di aver in parte risposto anche alla seconda parte della domanda che lei mi ha posto. Non soltanto dobbiamo guardarci dall’enfatizzare l’efficacia di uno strumento che ancora non è stato messo effettivamente alla prova, ma soprattutto non dobbiamo rischiare di depotenziare – anche su un piano simbolico – gli investimenti in risorse umane e competenze del personale sanitario dedicato alle indagini epidemiologiche, all’identificazione e all’isolamento dei contatti (in generale si vedano in tal senso le meditate considerazioni di G. Giraud, Per ripartire dopo l’emergenza Covid-19). Giova ricordare, a tal riguardo, che diversi stati stranieri, dal Lussemburgo ad alcuni Stati americani, hanno sin qui evitato di partecipare alla corsa alla app, preferendo destinare le risorse finanziarie al potenziamento del sistema tradizionale di tracciamento. Non sono convinto che questa sia necessariamente una buona scelta, perché le tecnologie digitali possono, se ben congegnate, apportare un significativo contributo all’effettivo miglioramento dell’intero comparto. Tuttavia, essa segnala un’esigenza di per sé importante, che è quella di pensare alle tecnologie digitali non già come sostitutive, bensì come complementari rispetto alla componente umana del sistema sanitario. Non a caso di “complementarietà” si parla espressamente nell’art. 6, c. 1, del d.l. 28/2020 e questa idea merita di essere sviluppata e valorizzata come paradigma generale di interazione tra uomo e macchina nell’epoca dell’intelligenza artificiale. Una app sì, in conclusione, ma purché validata e contornata dalle competenze e, non ultima, dalla pietas del personale sanitario.