Il Presidente del Garante per la protezione dei dati personali, Pasquale Stanzione, e il Direttore…
Dati personali, in futuro li useremo per pagare?

(Via Wired)
A un anno dall’entrata in vigore del Gdpr le discussioni sulla protezione dei dati sono tutt’altro che passate di moda. Una di quella più interessanti ruota intorno alla data ownership. I dati personali (e non) che diamo ai servizi online che usiamo tutti i giorni ci appartengono? O quando diamo il consenso ne cediamo la proprietà alle aziende? È giusto parlare di proprietà del dato?
È bene porci sa subito queste domande, perché la risposta a questa domanda contribuirà a delineare la società in cui vivremo tra 10 anni. Il motivo principale è che abbracciare l’idea di “proprietà del dato” porta direttamente all’idea di monetizzazione.
Se l’utente possiede il dato allora è libero di sfruttarlo economicamente. Il problema è che anche con la miglior legge sulla protezione dei dati, un soggetto non può davvero dire di avere un controllo sui “suoi” dati. E se anche fosse, si potrebbe davvero dire che il consenso al trattamento dei dati sia davvero libero, così come richiesto dal Gdpr? Una persona povera che vede nella cessione dei suoi dati l’unica fonte di sostentamento è davvero libera quando dà il consenso ai dati sensibili sulla sua salute o le sue scelte politiche?
A farci riflettere sui possibili scenari di un futuro basato su come gestiremo i nostri dati ci ha pensato Valentina Pavel, Mozilla-Ford fellow presso Privacy International, organizzazione inglese che si occupa di tutelare la privacy dei cittadini.
Nel suo Our Data Future si è immaginata quattro futuri possibili, ambientati nel 2030, con sfumature diverse a seconda delle scelte prese sulla gestione dei dati. Si tratta di scenari alla Black Mirror, dove all’inizio sembra tutto “auspicabile”, salvo scoprire che sotto la scuperficie le cose non sono così idilliache come sembrano.
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