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Diritto penale e sviluppo digitale. Intervista al Prof. Avv. Luca Lupària

Nell’evoluzione al digitale stiamo osservando grandi sviluppi in ogni ambito e settore umano, in materia di digitale e diritto penale la redazione di DIMT ha intervistato l’Avv. Prof. Luca Lupària.

L’Avv. Prof. Luca Lupària è Professore Ordinario di Diritto processuale penale nell’Università degli Studi Roma Tre e Professore invitato in Atenei europei e americani. Membro dell’editorial board di riviste internazionali e componente di comitati direttivi di riviste giuridiche italiane, è condirettore di tre collane editoriali. Autore di scritti monografici su temi centrali della giustizia penale e di oltre cento cinquanta pubblicazioni scientifiche, apparse anche su riviste straniere e volumi internazionali, è curatore di numerosi libri in materia di digital evidence e prova scientifica. In qualità di difensore è intervenuto in casi giudiziari di rilievo nazionale ed europeo in materia di diritto penale delle nuove tecnologie.

 

 

L’evoluzione digitale che il nostro Paese sta affrontando, sta portando un forte cambiamento anche nel modello di diritto e di processo penale. Secondo Lei, la responsabilità dei service provider, la ricerca delle prove in ambiente cloud, la competenza a conoscere dei cyber–crimes come vengono tradotti dalla dottrina giurisprudenziale? E qual’è, a Suo avviso, il posizionamento nel sistema penale italiano dei fornitori di servizi internet? 

 

È senza dubbio in atto una “tempesta digitale” che scuote le fondamenta del nostro modello di giustizia penale. L’ineludibile necessità di acquisire, ai fini dell’accertamento dei reati, elementi probatori custoditi in strumentazione informatica e telematica comporta la necessità, da un lato, di rimeditare i tradizionali istituti di cooperazione giudiziaria, nonché, dall’altro lato, di interrogarsi sul ruolo rivestito al giorno d’oggi, nel corso delle indagini preliminari, dal fornitore di servizi internet.

Quanto al primo aspetto, la natura ontologicamente transnazionale delle prove digitali, spesso contenute in server o in cloud situati in uno Stato estero ma accessibili anche dal territorio italiano, obbliga la pubblica accusa ad impiegare tecniche di natura itinerante per la sua raccolta, spesso tramite “scorciatoie probatorie”, quali richieste informali al gestore del servizio, non adeguatamente stigmatizzate dalla giurisprudenza, ed anzi pienamente avallate in sede pretoria.

Dunque, la progressiva perdita della dimensione fisica della prova implica inevitabili aporie rispetto al concetto di territorialità, con gli intuitivi profili problematici in riferimento alla violazione della sovranità dello Stato ospitante il dato. Basti pensare all’apprensione dell’informazione digitale attuata mediante l’impiego di captatori informatici, utilizzati quali invisibili microspie capaci di intercettare flussi di comunicazioni in tempo reale, nonché quali mezzi di ricerca atipici della prova in grado di trasmettere agli operanti tutti i dati formati o in corso di formazione su una strumentazione informatica o telematica. Chiaro, infatti, il possibile contrasto di simili attività d’indagine con il modello rigido tipico della cooperazione giudiziaria.

Ecco perché la previsione di una disciplina in grado di regolare e, al contempo, semplificare la circolazione transfrontaliera della prova digitale è ormai avvertita quale esigenza ineludibile nell’ambito delle istituzioni europee: si allude alla recente Proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativa agli ordini europei di produzione e di conservazione di prove elettroniche in materia penale (COM/2018/225), nonché alla Proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio recante norme armonizzate sulla nomina di rappresentanti legali ai fini dell’acquisizione di prove nei procedimenti penali (COM/2018/226).

Nell’ambito della legislazione nazionale, può richiamarsi l’art. 234-bis c.p.p., ai sensi del quale è «sempre consentita l’acquisizione di documenti e dati informatici conservati all’estero», anche se «diversi da quelli disponibili al pubblico», a condizione che sia prestato il consenso dal legittimo titolare. Se è vero che tale disposizione contribuisce ad allestire uno strumento utile a contrastare le attività di proselitismo a mezzo web da parte delle organizzazioni terroristiche, è altrettanto vero che essa evidenzia chiaramente una “anomalia” che emerge sempre più nitidamente nel settore processuale penale, vale a dire l’affiancamento ai classici protagonisti dell’accusa nelle indagini preliminari dell’Internet Service Provider: un soggetto estraneo alla pubblica amministrazione cui vengono assegnati rilevanti poteri in ambito investigativo, sulla falsariga tracciata dal Codice privacy in tema di acquisizione di dati relativi al traffico telematico. Eppure, la natura privata del soggetto in grado di decidere sull’esito delle indagini è circostanza di portata dirompente sotto il profilo del vulnus arrecato alla sovranità dello Stato ove il dato digitale è conservato. Il meccanismo della apprensione diretta del dato implica, infatti, che il semplice nulla-osta del soggetto in possesso del dato consenta ad un’autorità di altra nazione l’autonoma ricerca di elementi di prova localizzati in territorio straniero. Una pratica, questa, in evidente contrasto con i principi generali in tema di assistenza giudiziaria internazionale.

 

 

 

Nel dibattito delle indagini informatiche, quali sono, secondo Lei, le più importanti domande da porci in merito alla convivenza tra i diritti e garanzie fondamentali dell’accusato, e la formulazione di una prova digitale che può non rispettare i valori costituzionali e di integrità del l. n. 48 del 20084? La cooperazione giudiziaria internazionale, come può influenzare l’efficacia di un’azione investigativa informatica?

 

Occorre partire da un assunto: a seguito delle interpolazioni operate dalla l. n. 48/2008, la tutela della genuinità e non alterazione del dato digitale rappresenta un canone essenziale per ogni attività che implichi l’acquisizione o l’analisi di digital evidence a fini forensi. La cooperazione giudiziaria “informale” impiegata nella prassi – si pensi alle richieste di fornire documentazione rivolte dalla polizia giudiziaria rivolte a noti social network esteri – non fornisce risposte rassicuranti al quesito fondamentale in materia di prova digitale, vale a dire se il dato acquisito in sede penale possa dirsi integro e affidabile.

A titolo d’esempio, richiamando ancora l’art. 234-bis c.p.p., è agevole notare come tale congegno – sia pure efficace a fini investigativi – trascuri in toto la doverosa tutela dell’autenticità del dato; non vi sono, invero, garanzie che il materiale appreso – o meglio, consegnato dal soggetto terzo – sia effettivamente rispondente a quello custodito presso i server localizzati oltre frontiera, né la difesa possiede strumenti atti a verificarlo.  Ancora, si pensi vecchia giurisprudenza elaborata in materia di apprensione dei messaggi pin-to-pin, ove l’attività di intercettazione ed elaborazione del dato criptato avviene in una zona grigia sprovvista di tutela e la salvaguardia della autenticità del materiale probatorio resta affidata esclusivamente alla buona volontà del soggetto di diritto privato estero chiamato a collaborare con la pubblica accusa.

Di qui, la necessità di un deciso cambio di passo nel senso di una doverosa attenzione per le garanzie individuali. Desta, infatti, viva preoccupazione la tradizionale tesi pretoria secondo cui eventuali illegittimità della procedura acquisitiva o persino il mancato rispetto del canone della integrità del dato digitale non debbano tradursi in divieti probatori, riverberandosi soltanto sul piano della valutazione del giudice. Occorre chiedersi, insomma, se il libero convincimento del giudice, in tema di prova digitale, possa assumere – come mostra di ritenere la giurisprudenza – l’utopistico ruolo di rimedio salvifico contro eventuali apprensioni ottenute secondo iter scorretti o, peggio, che abbiano prodotto dati tecnologici spuri o artefatti.

 

 

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