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Tra economia digitale e geopolitica. Intervista a Niccolò Locatelli

La nuova presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha messo più volte l’accento sulla necessità, per l’Europa, di lavorare sulla propria «sovranità tecnologica» in un mondo dominato da imprese statunitensi e cinesi. Spetterà alla commissaria Margrethe Vestager – già esponente di spicco della Commissione uscente, e adesso dotata di nuove competenze – il compito di rendere l’Europa «pronta per l’era digitale». L’Europa deve investire sull’innovazione, ha avvertito anche il commissario Paolo Gentiloni, per non diventare «colonia» di multinazionali straniere.

Le dichiarazioni sono tante. Cosa dobbiamo aspettarci, quindi, nei prossimi anni? Diritto Mercato Tecnologia lo ha chiesto a Niccolò Locatelli, editor web e membro del consiglio redazionale della rivista di geopolitica Limes.

In Europa c’è un gran parlare di economia digitale e di regolazione delle aziende tecnologiche. Può aiutarci innanzitutto a ricostruire il contesto?

Siamo al centro di una battaglia decisiva per il futuro dell’umanità, perché in questo momento le due uniche vere potenze per quanto riguarda il mondo digitale e l’intelligenza artificiale sono gli Stati Uniti e la Cina. Il che comporta, tra l’altro, l’imposizione (o il tentativo) di un modello che non è soltanto economico ma anche di vita, radicalmente diverso da quello a cui siamo abituati nell’Europa occidentale. È un discorso che possiamo far risalire alla fine della Guerra fredda, quindi al trionfo non soltanto della democrazia ma soprattutto della variante statunitense-anglosassone del capitalismo. Che ha in sé, appunto, un modello di redistribuzione e di vita sociale molto diverso rispetto a quello a cui siamo abituati in Europa, non soltanto nei paesi latini ma anche nei paesi del nord: basti pensare allo stato sociale tedesco o alle socialdemocrazie scandinave.

Tutto questo si riflette su Internet in una misura poco apparente, anche perché siamo avvolti in una retorica per la quale consideriamo gli Stati Uniti il nostro fratello maggiore, senza invece comprendere le divergenze tra il modello europeo e quello americano. Il problema da un punto di vista digitale è che, nel momento in cui la componente algoritmica prevale su quella umanistica, le differenze tendono ad assottigliarsi, perché l’algoritmo è di base più “implacabile” dell’essere umano. E quindi se in campo politico o filosofico ci sono naturalmente delle differenze fortissime tra la democrazia statunitense e il modello portato avanti dalla Cina, nel momento in cui comanda l’algoritmo queste differenze diventano sempre più sottili.

Il problema principale dell’Europa è di non essere stata in grado finora – e probabilmente di non esserlo neanche in futuro – di stabilire un proprio modello di economia digitale. Il termine «economia» è importante, perché le principali aziende del settore tech per capitalizzazione di borsa sono statunitensi oppure cinesi. L’impresa digitale europea più famosa è Spotify, che però si dedica alla musica ed ha comunque un fatturato che impallidisce rispetto a quello non soltanto dei GAFA ma persino di Netflix, se vogliamo restare nel settore dell’intrattenimento. Tutto questo in un contesto nel quale, tra l’altro, i progressi sono molto rapidi ma la necessità di un côté finanziario di tutto rispetto per raggiungerli è elevatissima: quindi oggi, rispetto ai tempi dell’analogico, colmare le distanze è più difficile.

La vera partita è questa. Quello che può fare Vestager – che già nel mandato precedente era diventata un po’ la “paladina” contro i giganti soprattutto della Silicon Valley – è molto poco. Le multe che ha proposto o che la Commissione europea ha comminato alle Big Tech sembrano molto elevate, ma diventano quasi un’inezia se paragonate al fatturato di queste aziende: non hanno alcun impatto sul modus operandi di questi giganti o sulla loro capacità, in futuro, di proiettarsi nella sfera digitale europea e di mantenere o conquistare delle posizioni di dominio. Sotto questo punto di vista, quello che servirebbe sarebbe un qualcosa di simile ad una “Silicon Valley europea”, non soltanto come potenza di fuoco ma anche come capacità di proporre un modello sociale e filosofico più affine a quelle che sono le nostre caratteristiche storiche.

La Francia mi sembra essere il paese dell’Unione più interessato a promuovere delle forme di regolazione e tassazione sui colossi tecnologici, per cercare di ridurre il potere delle Big Tech americane e favorire le aziende europee, o le proprie.

La Francia ha tradizionalmente delle pretese e delle ambizioni imperiali che riversa anche nel mondo digitale. Al di là però dello sciovinismo, sicuramente in Francia – o in Germania – la consapevolezza del problema è più elevata che in Italia. La Francia, anche in virtù della sua mentalità imperiale, per quanto conservi un’alleanza con gli Stati Uniti ne riconosce la diversità. La Germania, al di là dell’ambito NATO, sa di non poter considerare gli Stati Uniti un alleato: a maggior ragione ha consapevolezza di questo problema, visto anche che il suo paradigma industriale – che è stato determinante nel consacrarne il ruolo mondiale – può essere messo in discussione dalle evoluzioni tecnologiche. Lo stesso Dieselgate altro non era se non una dichiarazione di guerra da parte degli Stati Uniti all’industria dell’automobile tedesca.

La Germania ha consapevolezza della posta in gioco, ma se andiamo a vedere le spese oggi sostenute per l’intelligenza artificiale, anche in questo caso ci sono gli Stati Uniti e la Cina più o meno appaiate e tutti gli altri molto dietro. Questo dislivello è destinato ad aumentare e sicuramente non sarà una misura burocratica come quelle che potrebbe adottare Vestager o la Commissione a frenare questa tendenza. C’è naturalmente un problema che ha a che fare ancora una volta con l’idea molto edulcorata che abbiamo dell’Unione europea come di un grande soggetto, di un protagonista geopolitico quale in effetti non è. L’Unione europea è la camera di compensazione di tensioni tra stati sovrani e come tale va considerata.

Immaginare che si crei un campione europeo vuol dire al massimo – e sotto questo punto di vista ancora una volta la Francia e la Germania procedono un po’ insieme – favorire l’aggregazione. Aggregazione che tra l’altro nel caso di Siemens-Alstom è stata frenata proprio dalla Commissione. Anche sotto questo punto di vista c’è un elemento di discrasia tra quello che dovrebbe essere il governo europeo – quindi Bruxelles – e quelli che sono gli stati più importanti dell’Unione dal punto di vista industriale e geopolitico. Anche immaginando una grande alleanza tra Francia e Germania nel settore digitale, stiamo comunque parlando di due stati sovrani che ad un certo punto potrebbero avere interessi divergenti. Ma sarebbe comunque per noi uno scenario migliore di quello attuale, nel quale essenzialmente non si muove nulla di rilevante al di fuori della Silicon Valley e della Cina.

La Cina come si inserisce in tutto questo?

Il problema della Cina adesso non ci riguarda. Nel senso che – al di là della penetrazione tecnologica, anche nel 5G, di Huawei – è chiaro che il modello cinese di Internet su di noi avrebbe molto meno presa, visto quello che rappresenta la Cina nel nostro immaginario collettivo e viste anche le resistenze che stanno ponendo gli Stati Uniti. La battaglia contro Huawei è solo all’apparenza una battaglia di tipo commerciale. In realtà gli stessi Stati Uniti sono consapevoli del fatto che il loro vantaggio sulla Cina nell’intelligenza artificiale, se c’è – e non è scontato che ci sia –, è molto ridotto. E quindi vogliono frenare l’ascesa di Pechino: sia dal punto di vista militare, con le loro operazioni nei mari cinesi; sia dal punto di vista tecnologico, limitando la penetrazione di Huawei e dei giganti cinesi della tecnologia. La Cina “va bene” finché vende telefonini a basso costo; nel momento in cui cerca di fare – e riesce a fare, in effetti – un salto tecnologico diventa un avversario, e come tale viene trattato. È un fenomeno che ha a che fare con Trump solo fino ad un certo punto: ci sono cioè dei dati di fondo, geopolitici e tecnologici, che non sono destinati a mutare anche in caso di un cambio alla Casa Bianca nel novembre dell’anno prossimo.

Rimanendo negli Stati Uniti, vanno avanti e si allargano le indagini antitrust contro Google, Facebook e non solo. I rapporti tra Washington e le Big Tech non sembrano ottimi, però l’amministrazione Trump accorre poi in difesa delle proprie aziende tecnologiche quando l’Europa tenta di tassarle. Può aiutarci a capire meglio la situazione? Qual è l’obiettivo degli Stati Uniti?

C’è un livello politico e uno geopolitico.

Il livello politico ha a che vedere con le schermaglie tra Trump e i social network da una parte, e tra il Partito Democratico e i social network dall’altra: il Partito Democratico accusa i social network di aver determinato la vittoria di Trump favorendo la disinformazione russa.

A livello geopolitico invece il ragionamento è un po’ più ampio. Innanzitutto perché la geopolitica degli Stati Uniti non la fa solo il presidente o l’amministrazione, ma la fanno anche – se non soprattutto – il Congresso e quelli che noi a Limes chiamiamo “apparati”: il dipartimento di Stato, il Pentagono, la comunità dell’intelligence. Queste agenzie, a prescindere dal segretario di stato del momento, hanno una visione di lungo periodo che tende a preoccuparsi degli interessi nazionali e delle minacce all’interesse nazionale degli Stati Uniti. E l’interesse nazionale degli Stati Uniti in campo geopolitico, da sempre, è prevenire l’emersione di una potenza rivale in qualsiasi area del globo. La potenza rivale “potenziale” numero 1 è naturalmente la Cina, e quindi l’attenzione nei confronti della Cina è destinata a rimanere. Il che vuol dire, per quanto riguarda l’economia digitale, che sicuramente i vari Google, Facebook e Amazon verranno tenuti d’occhio. Amazon in realtà è abbastanza fuori dal fuoco delle polemiche per un motivo molto semplice: perché Jeff Bezos si è da subito schierato a favore della collaborazione con il Pentagono e con gli Stati Uniti in generale. Amazon ha insomma assunto una facciata più “patriottica” e quindi è senza dubbio meno problematica, laddove invece Google, Apple o Facebook cercano degli abboccamenti con la Cina considerandone naturalmente l’immenso valore economico, trattandosi di un mercato che ha oltre un miliardo di potenziali consumatori.

Queste imprese possono finire sotto i riflettori del presidente, del Congresso e degli apparati nel momento in cui collaborano con la Cina in una misura che viene considerata eccessiva. Se però si dovesse arrivare ad un punto in cui un loro eventuale “spacchettamento” favorirebbe – non tanto magari negli Stati Uniti quanto nel resto del mondo – la penetrazione di social media o comunque di infrastrutture ed aziende tecnologiche legate alla Cina, personalmente mi immagino che questa pressione per “spacchettare” i vari Google e Facebook sia destinata a scemare. A meno che non subentri – da un punto di vista non solo congressuale ma soprattutto sociale – una sorta di “rivolta” contro le forzature che l’algoritmo impone alle vite degli americani, e che quindi si arrivi ad una sorta di cambiamento: non tanto in termini di proiezione geopolitica o di interessi nazionali, quanto in termini di ridefinizione dell’American Dream. Perché l’algoritmo è spietato come è spietato l’American Dream, il quale prevede ampissime possibilità di arricchirsi anche partendo da zero, ma implica al tempo stesso non soltanto una serie di meccanismi che tendono poi a perpetrare la condivisione della ricchezza fra élite sempre più chiuse, ma anche un atteggiamento letteralmente spietato nei confronti di chi non ce la fa. Basti pensare alla questione delle cure mediche. Una mutazione del DNA del paese non pare comunque, in questo momento, probabile. Sono posizioni abbastanza di nicchia: penso ad Alexandria Ocasio-Cortez, a Bernie Sanders, ad Elizabeth Warren.

Non illudiamoci poi che quando Google, Apple o Facebook fanno affari o avviano trattative con la Cina, lo facciano senza che lo “stato profondo” degli Stati Uniti ne abbia contezza. Anche perché le redini di Internet, tra l’altro, sono in mano al Pentagono: la libertà dei mari – che si estende anche alla libertà di circolazione delle informazioni lungo i cavi sottomarini – è garantita dagli Stati Uniti, quindi dal Pentagono. Che un’azienda americana faccia qualcosa contro l’America è impensabile. Quello che può invece succedere è che queste aziende, mosse non dalla malafede ma dall’imperativo di massimizzare i profitti, si spingano un po’ troppo in là con la Cina. A quel punto però, come vediamo, c’è una certa attività di vigilanza attorno ai loro movimenti.

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