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Fake news e post verità: le riflessioni del Commissario Agcom Antonio Martusciello per Diritto Mercato Tecnologia

Riprendendo le parole di Thomas Eliot: “la nostra cultura non è altro che informazione”. Ed è in questi termini che il tema delle fake news e della post-verità rappresenta una questione allarmante dell’epoca moderna, che rischia di contribuire alla deriva culturale dei popoli. Una cittadinanza “zeppa di comunicazione”, ma priva di conoscenza e informazione.

Le fake news rappresentano un fenomeno già noto nel giornalismo tradizionale della carta stampata e radiotelevisivo, in cui proprio per questo particolare attenzione era stata dedicata alle fonti informative, ma le cui origini sono di lontana memoria.

Lo studioso Robert Darnton ha ricostruito la storia della disinformazione a partire dal VI secolo d.C., rilevando che l’uso manipolatorio delle informazioni ha conosciuto diverse modalità. Si pensi alle “pasquinate”, i sonetti spesso diffamatori appesi di notte sulle statue di Roma; o, ancora, ai “canard” distribuiti nelle strade di Parigi con notizie spesso ingannevoli; fino ad arrivare ai giornali londinesi di fine ‘700, quando – secondo la ricostruzione compiuta da Darnton – le notizie false hanno raggiunto il proprio picco.

Venendo a tempi più moderni, chi non ricorda il celebre sceneggiato radiofonico War of the Worlds? Nel 1938, l’inizio di uno dei programmi più famosi della storia, nel descrivere un’invasione aliena, scatenò il panico. Molti radioascoltatori – malgrado gli avvisi trasmessi prima e dopo il programma – non si accorsero che si trattava di una finzione, credendo che stesse veramente avvenendo uno sbarco di extraterrestri ostili nel territorio americano. 

Un fenomeno, dunque, già conosciuto e alimentato da una scarsa percezione della realtà, dalla difficoltà di distinguere il vero dal falso che si fonda sull’assenza di una corretta educazione culturale e informativa. Un male che attanaglia cittadini anche mediamente istruiti.

Certo la Rete ha ampliato il tema e le problematiche. Il tradursi della circolazione di notizie false in Internet e, soprattutto, la condivisione e circolazione indiscriminata sui social media, ha comportato una capillare propagazione del fenomeno, attribuendogli una rilevanza prima inedita.

La lista potrebbe essere lunga: dai paventati rischi attribuiti ai vaccini, non scientificamente dimostrati; alle teorie complottistiche sulle scie chimiche lanciate nell’etere, con intenti nefasti, da svariate agenzie governative.

Si tratta di un fenomeno che sfrutta la mancanza di un’educazione culturale e di ragionamento critico, l’assenza di un accertamento dei testi, proprio dell’analisi filologica. In altri termini, se la notizia fake conferma il pregiudizio del lettore, allora è degna di autorevolezza e credibilità.

Nel tentativo di informare il grande pubblico sui modi per evitare di cader vittima di “notizie false”, il sito della Biblioteca di Harvard ha pubblicato “Fake News, Misinformation, and Propaganda”, che ha destato critiche per l’inclusione di un collegamento a una guida, la quale propone una indicazione di siti “sconsigliati”. Questa articola i siti in base a una varietà di etichette, dai “clickbait,” “bias,” “political” a “unreliable.”

È significativo che anche l’autorevole biblioteca di Harvard si sia dotata di un moderno Index Librorum Prohibitorum. L’antica lista di pubblicazioni ritenute eretiche, bandite dalla Chiesa cattolica, oggi, invece, viene utilizzata come vademecum per indicare centinaia di siti inaffidabili, falsi, ma anche cospirazionistici.

Come avvenuto in epoca remota, la misura trasposta in chiave 2.0 può esporre, però, a pericolosi atteggiamenti censori.

Inoltre, unita alla quantità di informazioni proposte in Rete, che rischia di annullare comprensione e apprendimento, in un turbinio di zapping informatico da una pagina all’altra, la soluzione proposta non sembra essere efficace, ma può ridurre la gamma di voci e opinioni, a detrimento dell’arricchimento culturale proprio di ogni democrazia.

Da queste poche battute iniziali, appare evidente come l’informazione online divenga un fenomeno complesso: non si tratta, semplicemente, di passare dalla fruizione analogica a quella digitale, ma di transitare da una situazione di relativa scarsità a una situazione di “surplus” di informazione per l’utente.

Dove la stampa, la televisione e la radio offrono un “pacchetto” preconfezionato di articoli o di servizi (il giornale, il telegiornale, il giornale radio), la Rete al contrario “spacchetta” l’offerta e la riaggrega secondo le abitudini e le condivisioni dei lettori.

Ad alimentare le fake sono, quindi, il narcisismo degli utenti in termini di visibilità, la superficialità in quanto si condivide anche ciò che non si legge, l’assenza di conoscenza e di capacità ragionative dell’individuo.

Se manca una cultura dei testi, tutti i testi sono uguali. Purché una notizia sia pubblicata su un sito dall’”aspetto giornalistico”, scritta in prosa, priva di grossolani errori almeno nel titolo, allora diventa per molti una notizia attendibile.

Max Weber riteneva che “l’uomo è un animale sospeso fra ragnatele di significati che egli stesso ha tessuto”, e “la cultura consiste in queste ragnatele”. Ebbene, in epoca più recente, questa intelaiatura sembra fondata sulla falsità, ed è qui che il problema delle notizie fake si manifesta in tutta la sua criticità.

Il fenomeno delle fake news è strettamente connesso al tema della post-verità. Come in un rapporto di causa-effetto, le notizie false producono quella disinformazione capace di superare la verità fino al punto di determinarne la perdita di importanza. Il ‘dopo la verità’ non riguarda, dunque, l’aspetto cronologico, ma intende scavalcare la verità, andando oltre di essa.

Più specificamente, il termine è stato definito dall’Oxford Dictionary come “aggettivo che fa riferimento o denota circostanze in cui fatti oggettivi sono meno influenti nella formazione dell’opinione pubblica rispetto alle emozioni e convinzioni personali”.

Una famosa copertina dell’Economist dedicata alla campagna elettorale americana parlava, non per nulla, di «politica post-veritativa al tempo dei social media».

Ma il fenomeno non involge solo l’aspetto politico. Affidare la nostra memoria storica alla Rete, in assenza di un’informazione ispirata ai più classici principi di verità, correttezza e affidabilità, rischia pericolosamente di tramandare una cultura anch’essa fake.

Falsi ricordi, manipolazioni della verità storica, si cristallizzano nella memoria collettiva, ledendo l’identità culturale di intere comunità, nonché le opinioni, sociali e politiche di ciascun individuo. Il rischio è di avviarsi verso una post-cultura, un post-passato, che pericolosamente cancelli o sostituisca gli eventi storici.

“Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato”, suggeriva profeticamente George Orwell in “1984”.

L’informazione, alimento di una corretta veicolazione della cultura, sembra essere imprigionata in un prisma in cui la verità assume diverse sfaccettature fino a perdersi.

 Ma quali gli strumenti per frenare la deriva fake?

Un primo passo verso la risoluzione del problema è l’accertamento critico dei testi. Uno sforzo centrale nell’attività giornalistica e già utilizzato anche nel passato più remoto.

Aprirsi al confronto e non rinchiudersi nelle false verità delle echo chambers. Ispirarsi alla ricerca della verità, quale costruzione sociale è basata su un continuo comparazione tra idee e fatti.

Non a caso, una delle prime prove moderne di metodo critico applicato all’accertamento dei testi è stata la confutazione con cui l’umanista Lorenzo Valla dimostrò la falsità di un documento alto-medievale che riconosceva al papato una serie di privilegi: la cosiddetta “Donazione di Costantino”.

Ebbene, per combattere il problema non è sufficiente agire sul sintomo, ma operare a monte sulle cause del fenomeno.

Finora i sistemi attuati anche dalle piattaforme hanno affidato agli utenti-lettori il vaglio sui prodotti informativi non veritieri, con scarsi risultati in termini di efficacia.

Sono state, poi, previste misure di proibizione nei confronti dei siti che diffondono notizie non correttamente accertate mediante tecniche di fact-checking.

Una pratica che si situa nell’ambito del data journalism e verifica su cifre, numeri e dati riportate in dichiarazioni pubbliche di esponenti politici, tanto in testi e documenti quanto in discorsi ufficiali, la veridicità, correttezza e accuratezza delle notizie diffuse online.

Ritornando, quindi, alla domanda iniziale, potremmo definire fake news e post-verità come fenomeni che si nutrono dell’inerzia intellettuale degli utenti.

Non dimentichiamo che la cultura non deve essere intesa solo come un accumulo di dati, ma è anche il risultato del loro filtraggio.

Un filtraggio che, però, non sconfini in moderna censura. Nel corso dei secoli abbiamo già conosciuto fenomeni censori, più o meno diretti, declinati in modi differenti: dall’ancien régime (in cui la censura era “privilegio”) alla dominazione britannica in India (ove la censura era intesa come “sorveglianza”, nel senso proprio di Michel Foucalt), fino a tempi più recenti, nella Germania dell’Est (in cui questa era nascosta sotto forma di programmazione culturale).

Dobbiamo utilizzare l’esperienza del passato per evitare analoghi errori.

Oggi, per contenere il rischio, è necessario ritrovare un senso di responsabilità nel singolo e nelle istituzioni sociali capace di stimolare un idoneo livello di condivisione della cultura che tenga, certo, in considerazione il canale di trasmissione e il testo veicolato, senza, però, tradursi in una cieca e bieca lotta alla “post-verità”.

In assenza di strumenti educativi e culturali, combattere ottusamente la disinformazione rischia di sconfinare in quello che è stato definito un sistema di “post-libertà”, in cui la possibilità di esprimersi liberamente può essere compromessa e la memoria collettiva viene pericolosamente cancellata o sostituita.

9 maggio 2017

 

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