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Intervista al Dott. Daniele Masi. Tutele commerciali per le innovazioni eco-tecnologiche

Daniele Masi è Assegnista di ricerca post-doc presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. La sua attività di ricerca ha interessato l’ambito del diritto commerciale e del diritto dei mercati finanziari, rispetto ai quali è Cultore della materia, incentrandosi principalmente sulle nuove modalità di finanziamento dell’attività d’impresa e sui Cripto-Assets.

 

il Dott. Daniele Masi

 

Innovazioni tecnologiche ed eco-sostenibilità: nel Suo intervento, da Lei curato per l’evento Innovazioni tecnologiche e scelte alimentari: responsabilità e tutele nel mercato globale, ha evidenziato il trade-off tra innovazione tecnologica e sostenibilità. Quali sono, secondo Lei, le principali difficoltà pratiche che le aziende affrontano nel bilanciare la competitività con la riduzione degli impatti sociali e ambientali?

Il fulcro del discorso può individuarsi essenzialmente nella locuzione, per alcuni ossimorica, “innovazione sostenibile”, che esprime la relazione esistente tra innovazione in campo tecnologico e sostenibilità ambientale.

Del resto, non è un segreto che i processi produttivi e le innovazioni anzidette finiscano molte volte per incidere in maniera negativa sull’ambiente; basti pensare, in proposito, alle conseguenze disastrose della produzione industrializzata sul piano dell’inquinamento ambientale. In questi termini, trattasi essenzialmente di un problema di costi dell’innovazione green, legato all’ammodernamento degl’impianti (o come si suol dire del c.d. “revamping” industriale), come anche all’attività di ricerca correlata. A cui s’aggiunge la non del tutto eradicata concezione del ritorno a breve-medio termine dell’attività economica, laddove la sopportazione dei costi d’ammodernamento implicherebbe necessariamente un allungamento dei tempi di realizzazione dell’investimento effettuato.

Su un altro versante, la spinta all’innovazione eco-sostenibile, e più in generale alla riduzione dell’impatto ambientale dell’attività produttiva, è data dal ritorno in termini di immagine che una soluzione di questo genere può fornire all’impresa adottante: i consumatori e le parti interessate sono, infatti, sempre più consapevoli dell’impatto ambientale delle realtà aziendali e tendono a preferire quelle che dimostrano un marcato impegno per la sostenibilità (cc.dd. “imprese green”). Ne consegue un rinnovato approccio imprenditoriale, derivante dalla consapevolezza che, monitorando e rispondendo alle aspettative ambientali e sociali di “green stakeholders” più sensibili alle tematiche in questione, si possano ricavare vantaggi in termini di brand awarenes e di vendite, massimizzando, giocoforza nel lungo periodo, i guadagni. In quest’ottica, dunque, le imprese stanno assumendo un ruolo proattivo, rendendo i prodotti e/o i servizi maggiormente sostenibili e sviluppando strategie commerciali che ruotano attorno al concetto di eco-sostenibilità. Tra queste assumono un ruolo fondamentale le dichiarazioni pubblicitarie verdi (cc.dd. green claims) che, rivendicando a sé i risultati di best practice in materia ambientale ed enfatizzando gli stessi, sono in grado di condizionare significativamente le scelte d’acquisto dei consumatori. Nella misura in cui le informazioni veicolate dai messaggi pubblicitari siano rispondenti al vero, affidabili e scientificamente verificabili, il green marketing svolge, dunque, un duplice e positivo compito: per un verso, quello di armonizzare gli obiettivi economici delle imprese con quelli sociali e ambientali in un’ottica di sostenibilità e, per altro, quello di informare in modo chiaro e trasparente il consumatore sulla metodologia impiegata e sugli aspetti rilevanti del ciclo di vita di un prodotto.

 

Durante l’intervento ha fatto riferimento alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, citando il diritto di partecipare al progresso scientifico (art. 27). Come vede l’evoluzione giuridica del “diritto all’innovazione”, in particolare nel contesto delle innovazioni eco-tecnologiche?

La questione è particolarmente complessa, posta l’iniziale difficoltà d’insediamento del succitato diritto nel quadro ordinamentale. Segnatamente, “ambiente” e “tecnologia”, che costituiscono i referenti immediati del diritto all’innovazione eco-tecnologica, definiscono delle situazioni giuridiche soggettive, prospettando il loro riconoscimento la tutela di “diritti umani”. Sul versante sovranazionale, s’è detto che è nel quadro della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che le situazioni anzidette incontrano un primo livello di protezione giuridica, laddove si riconosce, in favore dell’individuo, il diritto a partecipare al progresso scientifico e ai suoi benefici (art. 27), nonché quello a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e dei suoi familiari (art. 25). A livello interno, invece, esse sono tutelate dall’art. 2 Cost., che, in qualità di norma “aperta”, funge da contenitore di diritti essenziali alla realizzazione della persona, intesa in forma individuale e quale componente di formazioni sociali.

In un’altra prospettiva, poi, “ambiente” e “tecnologia” si associano alla categoria dei beni comuni, che annovera al suo interno le cose che esprimono utilità funzionale all’esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della persona; ciò che induce a riconsiderare la portata dell’art. 42 Cost., svincolandosi l’accesso ai beni dalla titolarità della proprietà e ripensando, allora, la relativa funzione sociale come possibilità d’uso garantita a chi non è proprietario.

Del resto, la stessa evoluzione dei diritti della personalità è strettamente legata allo sviluppo di nuove tecnologie; e, in tal senso, è compito dell’operatore giuridico trovare giusta collocazione al “diritto all’innovazione” e, in particolare, all’innovazione c.d. eco-tecnologica – fondata, cioè, sul rispetto della tutela ambientale e protesa al miglioramento delle condizioni di salubrità ambientale – nel ventaglio dei diritti della personalità, anche al fine di semplificare l’operato dell’organo giudicante in fase di quantificazione del danno, laddove un processo innovativo non rispecchi i parametri indicati. Nel far ciò, occorrerà considerare i diversi aspetti della persona che possono costituire oggetto di tutela giuridica, e distinguere in particolare tra quelli attinenti al soggetto, inteso come persona fisica/giuridica, e quelli della “personalità”, cioè riguardanti la sfera morale, ideale, spirituale, relazionale e sociale. Nei termini anzidetti, appare riduttivo relegare la tutela del diritto della personalità alle sole ipotesi in cui si incide sulla riservatezza dell’individuo, essendo altresì da preservare l’esigenza di un uso corretto della personalità anche quale fonte di reddito. La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, in tal senso, nel rimeditare il sistema risarcitorio dei danni non patrimoniali, statuisce che “fuori dei casi determinati dalla legge è data tutela risarcitoria al danno non patrimoniale solo se sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona”, laddove “la gravità dell’offesa e la serietà del pregiudizio costituiscono requisiti ulteriori per l’ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili” (Cass. civ., sez. un., 11 novembre 2008 n. 26972). La giurisprudenza di legittimità  si è attestata, inoltre, su una linea interpretativa che identifica il danno patrimoniale riconducibile all’art. 2043 c.c. esclusivamente in quello concretatosi in conseguenza di un fatto illecito di tipo economico, facendo confluire nella nozione di danno non patrimoniale, oltre naturalmente al danno morale in senso soggettivo, quelle fattispecie di danno che l’evoluzione giurisprudenziale identificava come danni patrimoniali in senso non economico e particolarmente le fattispecie di danno per lesione di una situazione giuridica riconducibile ai diritti fondamentali della persona.

La tutela ambientale (e il bilanciamento col pregresso tecnologico) trova, come anticipato, i propri riferimenti normativi nella Carta costituzionale, sebbene ivi non compaia un esplicito richiamo alla definizione di ambiente; del resto, che la sua tutela rappresenti ormai un principio cardine dell’ordinamento giuridico italiano emerge da numerose pronunce della Corte costituzionale, dalle quali si ricava, anzitutto, che nel perimetro normativo nazionale la protezione dell’ambiente è fissata dai precetti costituzionali di cui agli artt. 9 e 32 Cost., assumendola, così, a rango di diritto fondamentale (v. in particolare: Corte cost., 24 marzo 2005, n. 135; Corte cost., 26 luglio 2002, n. 407; Corte cost. 20 dicembre 2002, n. 536). Segnatamente, l’art. 9 Cost. stabilisce che “[l]a Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”, mentre l’art. 32 Cost. attribuisce alla salute una tutela assoluta, considerandola quale fondamentale diritto dell’individuo da garantire e difendere. Il soggetto gode, allora, di un diritto alla salute non solo uti singulus, ma anche quale membro delle comunità che frequenta; l’individuo ha diritto a vivere in un ambiente salubre, e dunque ogni attività esercitata da qualunque impresa, anche se fatta in nome del progresso, dev’essere attenta a non recare danni alla salute degli esseri umani e nel contempo al paesaggio circostante, evitando quelle modifiche ambientali e territoriali che potrebbero, nel futuro, andare a modificare la “qualità” della vita di ogni cittadino. Ciò premesso, se è vero che esistono limiti contraddistinti dalla necessità di tutelare l’ambiente, in esso includendo il rispetto del paesaggio, nonché la salubrità dell’individuo, d’altro canto non può tralasciarsi l’incalzante necessità di dare una qualificazione giuridica al diritto all’innovazione tecnologica (innalzato a rango di diritto costituzionalmente garantito dall’art. 9 Cost.), i cui titolari saranno non solo i singoli individui, fruitori dell’innovazione, ma anche le imprese fautrici dello sviluppo stesso.

 

Responsabilità aziendale e innovazione: accenna alla responsabilità delle imprese in caso di danno ambientale, ma anche alla possibilità di risarcimenti per danni derivanti dalla mancata immissione di innovazioni sul mercato. Come potrebbe il quadro normativo attuale essere migliorato per garantire maggiore tutela sia per l’ambiente che per le imprese?

La tenuta e l’evoluzione dell’odierno quadro normativo, in relazione al fattore tecnologico, non può prescindere dai risvolti endosocietari legati al sistema di Corporate Social Responsibility (CSR), circoscritto a lungo nell’alveo dell’illecito aquiliano e dell’inadempimento, ma che oggi appare profondamente innovato, per effetto della progressiva inclusione di parametri assiologicamente orientati a valutare il complessivo impatto dell’attività anche sul piano ambientale, ossia i cc.dd. fattori ESG (acronimo stante per “Enviromental, Social, Governance”).

Sul piano degl’assetti endosocietari, viene dunque in rilievo la modifica recentemente apportata dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) all’art. 2086 c.c., che ad oggi richiede la dotazione di assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati alla natura e alle dimensioni dell’impresa. Trattasi, in sostanza, d’un parametro generale, nel cui ambito bisogna senz’altro tener conto altresì dei fattori di sostenibilità. Un’impresa dotata di assetti che possano considerarsi adeguati dovrebbe, infatti, essere in grado di rilevare i fattori di rischio aziendali e di valutare l’impatto di singoli eventi sull’equilibrio economico finanziario. L’intervento s’innesta dunque in un sistema normativo e regolamentare che, con la promozione dei fattori ESG: – sta ridisegnando la governance societaria in considerazione della rilevazione e della gestione dei rischi di sostenibilità accanto ai tradizionali rischi economico-finanziari; – sta favorendo il consolidamento dello stakeholder capitalism, raccomandando il conseguimento del successo sostenibile delle società quotate su mercati regolamentati e/o degli obiettivi di beneficio comune mediante il modello delle società benefit. Se, quindi, i rischi ESG e uno scopo sociale allargato anche al perseguimento di finalità di sostenibilità stanno diventando elementi rilevanti dal punto di vista operativo e strutturale di un’impresa, ne consegue che l’adeguatezza degli assetti societari va perimetrata e valutata anche in considerazione dei presidi di governance e controllo preposti alla sfera ESG, nonché all’impatto che eventualmente i rischi di sostenibilità possano avere sugli equilibri di carattere patrimoniale o economico/finanziario dell’impresa sociale.

 

 Greenwashing e regolamentazione: Ha menzionato il rischio di pratiche di greenwashing da parte delle aziende. Quali misure legislative, a Suo avviso, potrebbero essere più efficaci per evitare che questo fenomeno comprometta la fiducia dei consumatori e il mercato?

Una considerazione unitaria della strategia regolatoria delineata in Europa, nel cui ambito certamente primario rilevo assume la c.d. Direttiva Greenwashing (i.e. la Direttiva 2024/825/UE), pare imprescindibile per una valutazione d’opportunità sul contrasto del relativo fenomeno, nonché sull’impatto di tale strategia in riferimento al mercato dei consumatori. Nel quadro del Green Deal, costituente un pacchetto di proposte multi-intervento teso a raggiungere, nel ventennio prossimo, un’economia caratterizzata dalla c.d. “neutralità climatica”, s’iscrivono la Direttiva 2022/2464/UE [Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD)], la già citata Direttiva Greenwashing, nonché la Direttiva 2024/1760/UE [Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD)]. Con esse, in particolare, ci si muove lungo due direttrici, l’una tesa a garantire uno standard minimo quantitativo e l’altra qualitativo in termini informativi e di disclosure. Quanto alla CSRD, inoltre, una delle più significative novità è rappresentata dal grado di maggiore granularità del reporting di sostenibilità. L’implementazione della CSRD prevede, infatti, l’introduzione degli European Sustainability Reporting Standards (ESRS), tesi alla creazione di un contesto normativo armonizzato e coerente per la rendicontazione di sostenibilità, facilitando per gli stakeholders il confronto e la valutazione delle performance delle imprese in chiave green.

 

Con il Green Deal e la Direttiva CSRD, l’Europa sta spingendo verso una maggiore trasparenza sulla sostenibilità aziendale. Come valuta l’efficacia di queste iniziative nel promuovere una vera innovazione eco-tecnologica e nel ridurre i rischi di violazioni normative?

Il novero d’iniziative regolatorie intraprese a livello eurounitario va guardato complessivamente in senso positivo, sebbene non sia da sottovalutare il rischio di vulnera normativi, conseguenza della lentezza connaturata ai processi di formazione giuridica. L’auspicio è, dunque, che la normativa formata e “formanda” riesca, sia pur senza agguantarla del tutto, a incanalare l’innovazione tecnologica sui binari della sostenibilità; e, in tale direzione, ruolo cruciale è quello rivestito dall’interprete, chiamato ad attualizzare il dato normativo e ad anticipare, con una lettura estensiva, l’adeguamento del diritto all’innovazione tecnologica. Senz’altro, laboratorio giuridico primario, in questo senso, è quello eurounitario, data la necessità di predisporre un quadro regolatorio armonizzato tra i diversi Stati nazionali. Tuttavia, ed è ciò che preoccupa maggiormente, trattasi d’un contesto intriso dei noti problemi di enforcement e che soggiace alle dinamiche tipiche del droit souple, ossia a quella dialettica reputazionale tra regolatore e soggetti regolati, che talvolta rischia di sfociare in un “droit flexible”.

 

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