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Intervista al Prof. Francesco Accettella. IA e diritto dei mercati finanziari

 

Francesco Accettella è Professore ordinario di Diritto dell’economia presso l’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara, dove insegna Diritto commerciale e dell’economia, Diritto bancario e dei mercati finanziari e Diritto dell’innovazione economica. Presso la medesima Università fa parte del Collegio dei docenti del Dottorato di ricerca in Scienze giuridiche per la sostenibilità, la transizione ecologica e l’innovazione. Nel corso della sua carriera accademica, ha insegnato, in qualità di Ricercatore, anche presso l’Università degli studi di Roma “Tor Vergata” e presso la stessa Università ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Diritto commerciale. È stato Visiting Scholar presso il Centre for Commercial Law Studies della Queen Mary, University of London ed è stato registrato come Full Member dell’Institute of Advanced Legal Studies, University of London.

Il Professor Accettella è socio dell’Associazione Gian Franco Campobasso per lo studio del diritto commerciale e bancario e dell’Associazione dei Docenti di Diritto dell’Economia (ADDE). Fa parte del Comitato di redazione di Roma della rivista scientifica Banca borsa titoli di credito, è Condirettore della rivista scientifica Diritto del Risparmio e Direttore di area della sezione Diritto della crisi di impresa e dell’insolvenza della rivista scientifica Dialoghi di diritto dell’economia. Partecipa abitualmente, come relatore, a convegni di carattere scientifico sui temi del diritto societario, bancario e dei mercati finanziari. È autore di numerose pubblicazioni in materia di diritto societario, bancario, finanziario e concorsuale, tra le quali le monografie L’assegnazione non proporzionale delle azioni, Giuffrè, Milano, 2018, Il collocamento di strumenti finanziari, Giuffrè, Milano, 2013 e (in collaborazione con altri Autori) Le società a responsabilità limitata, Giappichelli, Torino, 2022.

Il Professor Accettella infine è membro del Collegio di Roma dell’Arbitro Bancario e Finanziario e partner dello Studio Legale & Tributario SLT di Pescara, dove si occupa di consulenza alle imprese.

 

Il Professor Francesco Accettella

 

 

Come vede l’evoluzione delle tecnologie di intelligenza artificiale nel contesto della regolamentazione dei mercati finanziari e quali potrebbero essere le implicazioni a lungo termine per le normative esistenti?

Il problema principale che vedo nell’evoluzione delle tecnologie, in particolare dell’intelligenza artificiale, nel contesto della regolamentazione esistente dei mercati finanziari è la capacità, sempre più marcata, che hanno queste tecnologie, di creare le condizioni per la prestazione di servizi finanziari mediante modalità diverse da quelle tradizionali e, talvolta, di offrire servizi finanziari apparentemente differenti da quelli noti e regolamentati, ma, di fatto, concepiti per soddisfare pur sempre interessi di investimento.

Il problema è dunque quello di stabilire se e in che misura tali servizi ad alto contenuto tecnologico siano riconducibili a quelli esistenti e già regolamentati. Solo se la risposta dovesse essere pienamente positiva, si potrebbe ritenere che le normative esistenti siano sufficienti per garantire la tutela degli investitori e, più in generale, la trasparenza e la fiducia nei mercati finanziari. Di converso, qualora la risposta a tale interrogativo dovesse essere negativa, si dovrebbe concludere nel senso che le peculiarità di tali servizi richiedano una normativa ad hoc. Ma una simile conclusione non sarebbe sufficiente, perché si tratterebbe anche di stabilire la tipologia di normativa da emanare. In effetti, non è escluso che le peculiarità del servizio richiedano una regolamentazione riduttiva rispetto a quella esistente per servizi tradizionali analoghi (o, meglio, rispondenti ai medesimi interessi), che in fin dei conti si tradurrebbe anche in un potenziale incentivo per l’innovazione e lo sviluppo tecnologico. Penso, per fare un esempio noto, alla disciplina europea dei servizi di crowfunding, concepita come una disciplina che trae spunto da quella dei servizi e delle attività di investimento, ma la ridimensiona nell’ottica della particolare natura del servizio.

Il problema regolatorio, più sopra evocato, si pone poi su un piano ancor più delicato quando l’evoluzione tecnologica e gli strumenti di intelligenza artificiale consentono di prescindere dalla presenza dei tradizionali soggetti prestatori di servizi finanziari, mettendo dunque in crisi lo stesso concetto di intermediazione finanziaria. La sfida in questo caso si fa ancora più dura, innanzitutto, perché non è detto che tali fenomeni siano intercettati (specie, dalle Autorità di vigilanza) e lo siano tempestivamente; in secondo luogo, perché, dal punto di vista regolatorio, le normative esistenti nel mercato finanziario sono basate sui soggetti, più che sulle attività, e stentano a trovare agevole applicazione laddove un “soggetto”, nel senso tradizionale del termine, non è rintracciabile.

 

Quali sono le principali sfide legali che emergono dall’adozione di strumenti automatizzati nella gestione patrimoniale e come si possono affrontare per garantire una protezione adeguata agli investitori?

Al riguardo, giova premettere che è ancora modesto l’interesse specifico delle istituzioni e della stessa dottrina per la gestione patrimoniale automatizzata (o robotizzata), che talvolta perde anche una minima autonomia rispetto a un fenomeno vicino, quello della consulenza in materia di investimenti. Gestione di portafogli di investimento e consulenza in materia di investimenti automatizzate sono di solito assimilate sotto la comune etichetta di robo-advice. Si allude in sostanza a piattaforme di consulenza/gestione automatizzata, volte a costruire portafogli di investimento individuali.

Un prima sfida che si pone dal punto di vista legale è proprio quella di chiarire se vi sia un unico modello astratto capace di accogliere tutte le fattispecie esistenti in concreto. E, invero, che la risposta sia negativa lo si desume già dalla classificazione, ormai acquisita, che poggia sul livello di automazione, più o meno completo, caratterizzante la prestazione del servizio. Si tratta, in particolare, della distinzione – pensata originariamente per il servizio di consulenza, ma estesa comunemente anche alla gestione di portafogli – fra robo-advice puro, robo-advice ibrido e robo for advice, a seconda che la componente umana, cioè l’addetto dell’intermediario (il consulente o il gestore), sia del tutto assente, sia presente in alcune fasi del servizio intervallandosi con l’automazione, sia l’unica ad interagire con il cliente, relegando il ruolo dell’automazione a servizio della componente umana. Orbene, è intuitivo che maggiore è il livello di automazione, maggiori sono le difficoltà di inquadrare la fattispecie e individuare la sua disciplina.

L’altra sfida legale, che ritengo si ponga con riferimento all’adozione di strumenti automatizzati nella gestione patrimoniale, riguarda proprio la valorizzazione delle specificità delle gestioni patrimoniali rispetto al servizio di consulenza finanziaria. Si pensi, in particolare, al fatto che diverso è l’output del servizio. In un caso (quello della consulenza), esso si traduce in meri suggerimenti, nell’altro (la gestione di patrimoni), nell’esecuzione degli investimenti. Ebbene, maggiori difficoltà si pongono nello sforzo di inquadrare dal punto di vista della fattispecie e della disciplina fenomeni nei quali è automatizzato l’intero processo che porta all’effettuazione dell’investimento e non solo la fase nella quale quest’ultimo viene individuato e raccomandato.

Infine, va rilevato che la gestione patrimoniale automatizzata può apprezzarsi anche a livello di patrimoni collettivi. Le ricerche condotte a livello istituzionale hanno dato conto in tempi recenti dell’utilizzo sempre più consistente di meccanismi di automazione nelle gestioni patrimoniali “in monte”. E su questo versante deve darsi atto della circostanza secondo cui l’automazione e, dunque, l’innovazione possono raggiungere livelli anche più alti di quelli tipici di una piattaforma di robo-advice. Penso, in particolare, a quelle forme di gestione automatizzata di patrimoni collettivi riconducibili al fenomeno delle Decentralized Autonomous Organizations (DAO).

Dunque, le principali sfide regolamentari poste dall’adozione di strumenti automatizzati nella gestione patrimoniale riguardano, in primo luogo, il corretto inquadramento in chiave giuridica delle diverse fattispecie concrete e, in secondo luogo, l’individuazione della disciplina ad esse applicabile. Da questo secondo punto di vista, bisogna tener conto in prima battuta del regime di accesso alle relative attività, alla luce del principio di riserva dei servizi e delle attività finanziarie che caratterizza l’intero ordinamento del mercato finanziario. In seconda battuta, bisogna valutare l’introduzione di regole specifiche, lì dove l’utilizzo di strumenti tecnologici e di intelligenza artificiale nella prestazione dei servizi finanziari non consentano di garantire una protezione per gli investitori adeguata, ossia paragonabile a quella raggiunta per servizi analoghi, prestati con modalità tradizionali.

 

Nel contesto delle Decentralized Autonomous Organizations (DAO), come si concilia il principio di riserva dei servizi finanziari con l’attività svolta da tali organizzazioni, e quali sono le principali difficoltà nella loro integrazione con le normative tradizionali?

Devo innanzitutto spendere due parole sul fenomeno concreto per chiarire che cosa significa che si tratta di “organizzazioni” funzionanti in maniera decentralizzata e autonoma. Ebbene, il primo aggettivo sta a significare che le decisioni vengono assunte dai partecipanti alla rete organizzativa, senza che vi sia un centro decisionale che li coordina. Il secondo che l’organizzazione non è gestita da un determinato soggetto, come accade nello schema tipico dell’organizzazione collettiva d’impresa, ma in linea di massima si autogoverna sfruttando la tecnologia basata su registri distribuiti (c.d. DLT). Le transazioni poi si perfezionano sulla base di smart contracts, ossia di programmi e protocolli informatici che si “autoeseguono”.

Ora, sebbene questa organizzazione decentralizzata e autonoma possa trovare applicazione, in linea teorica, anche al di fuori del mercato finanziario, la sua principale utilizzazione si ha in questo campo, ove i partecipanti a una DAO, nella veste di investitori, mettono insieme un patrimonio collettivo per investirlo verso iniziative imprenditoriali comuni. In questo schema tipologico si inserisce in particolare la vicenda di The DAO, l’organizzazione nata nel maggio del 2016 per iniziativa di una start-up tedesca di nome Slock.it.

I primi tentativi di qualificare la fattispecie in esame da parte della dottrina straniera, e poi di quella italiana, sono stati accomunati dallo sforzo di ricondurla allo schema societario, richiamando all’estero la forma della General Partnership e da noi quella della società in nome collettivo irregolare o, meglio, della società di fatto. Io ritengo che simili tentativi adottino una prospettiva che in verità non appare l’unica possibile e neppure quella più appagante. Essi, infatti, relegano in secondo piano la tendenziale apertura al pubblico dell’organizzazione, la spersonalizzazione dei rapporti tra gli aderenti e, soprattutto, la componente finanziaria/di investimento che è insita nell’adesione alla stessa. A me sembra, invece, che sia proprio la natura finanziaria del fenomeno a dover essere adeguatamente valorizzata non solo nella fase di lancio dell’iniziativa e di raccolta del risparmio, ma anche con riferimento alla fase di gestione del patrimonio raccolto.

In questa differente prospettiva, che si potrebbe definire funzionale, l’organismo in parola, in quanto istituito per la raccolta del patrimonio tra una pluralità di investitori e la gestione “in monte” dello stesso, mediante l’investimento in strumenti finanziari, sembra trovare il suo più diretto modello di riferimento nell’organismo di investimento collettivo del risparmio (OICR), e più nello specifico nello schema del fondo comune d’investimento.

La principale difficoltà da superare per accogliere la ricostruzione in parola è la supposta autonomia dell’organismo che prescinderebbe dall’esistenza di un gestore. Si pensa alla DAO come a un’organizzazione che si autogestisce sulla base di un codice informatico che ne governa il funzionamento, dando attuazione alle decisioni assunte in maniera decentralizzata dai partecipanti. Ma questa difficoltà – con argomenti che, per ragioni di sintesi, in questa sede non posso richiamare – appare comunque superabile.

Più interessante mi sembra invece esporre le implicazioni di questa tesi. L’inquadramento dell’attività in questione nello schema menzionato ha un immediato riflesso sul campo della disciplina applicabile, rappresentato dal principio di riserva delle attività e dei servizi che si realizzano nel mercato finanziario. Ricordo in particolare che, ai sensi dell’art. 32-quater, c. 1, t.u.f., “l’esercizio in via professionale del servizio di gestione collettiva del risparmio” – inteso come quello “che si realizza attraverso la gestione di Oicr e dei relativi rischi” (art. 1, c. 1, lett. n) – è riservato. E, dunque, il “gestore” è assoggettato al regime autorizzatorio previsto dalla legge (per le SGR, dall’art. 34 t.u.f.).

In definitiva e più in generale, l’attrazione di un’attività all’interno confini dei servizi finanziari regolamentati comporta che tale attività non possa eludere il principio di riserva, che vuole i servizi finanziari affidati solo a soggetti abilitati a prestarli, altrimenti sfociando in un caso di abusivismo. Ciò, a meno che non sia il legislatore, in una prospettiva de iure condendo, a intraprendere la strada della deregolamentazione o, meglio, a introdurre, per un nuovo soggetto che svolge servizi finanziari tradizionali con modalità innovative e tecnologicamente avanzate, apposite deroghe rispetto alla disciplina già esistente nel mercato finanziario.

 

Può chiarire se e in che misura l’uso crescente degli strumenti di robo-gestione dei patrimoni potrebbe modificare la responsabilità legale dei gestori e le aspettative dei clienti, e quali potrebbero essere le conseguenze per la fiducia e la trasparenza nel settore?

Io ritengo che la risposta, allo stato attuale del quadro normativo e in particolare della disciplina privatistica applicabile alla prestazione dei servizi finanziari, non possa che essere affermativa. E ritengo anche che, per garantire un livello di tutela adeguato per gli investitori, un adattamento delle regole esistenti alle specificità di queste nuove modalità di svolgimento delle attività finanziarie riconducibili al fenomeno della c.d. robo-gestione sia necessaria. Al riguardo, per comprendere (quantomeno) l’opportunità di un adattamento della regolamentazione, può essere utile un cenno ad alcune regole, la cui applicazione ai servizi di gestione patrimoniale automatizzata solleva un problema di compatibilità. Per quanto concerne i servizi di investimento e, più nello specifico, la gestione di portafogli, si pensi alla disciplina (della forma e del contenuto) del contratto e alla regola di adeguatezza, per citare solo due esempi di regole delle quali si impone un necessario adattamento, tutte le volte che la gestione viene prestata in maniera automatizzata.

Con discorso che può valere anche per la gestione collettiva del risparmio, la prestazione automatizzata di servizi finanziari – onde ovviare al rischio concreto che gli investitori non siano consapevoli del servizio e degli investimenti che, tramite la piattaforma, vengono loro offerti – potrebbe poi beneficiare di regole specifiche di trasparenza, rispetto ai modelli di funzionamento degli algoritmi. Con ciò non voglio certo dire che una strategia fondata esclusivamente sui presidi di trasparenza possa essere considerata sufficiente. Le forme più evolute di automazione nella prestazione di servizi di gestione patrimoniale sembrano necessitare altresì di regole volte a prevedere come le piattaforme e gli algoritmi debbano essere organizzati, gestiti e controllati. Senza considerare che anche questa problematica presenta delle peculiarità, nella misura in cui essa appare spostata a monte, cioè in capo a chi programma il software e dunque crea la piattaforma automatizzata (di gestione patrimoniale), potendola deviare nella sua impostazione.

Le precedenti considerazioni dimostrano che le regole pensate per la prestazione dei servizi di gestione patrimoniale con modalità tradizionali richiedono un adattamento qualora i medesimi servizi vengano svolti in maniera “robotizzata”. Da questo punto di vista, qualche passo in avanti potrà essere compiuto, seppur da una prospettiva più generale, con l’applicazione del Regolamento Europeo sull’intelligenza artificiale, che, oltre a contenere regole specifiche di trasparenza pensate per i sistemi di intelligenza artificiale, valorizza il ruolo e l’attività svolta dai “fornitori” di tali sistemi, i quali si occupano, anche solo indirettamente, di svilupparli.

 

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