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Intervista al Prof. Raffaele Torino: “Cittadini digitali e poteri privati”
La redazione di DIMT ha intervistato il Prof. Raffaele Torino in merito al recente intervento: “Cittadini digitali e poteri privati” durante l’evento “Gli Stati Generali del Diritto di Internet”.
Il Prof. Torino è Professore ordinario di Diritto Privato Comparato presso l’Università degli Studi Roma Tre, Dipartimento di Scienze Politiche e Direttore responsabile della rivista on-line ‘Rivista di Diritti Comparati’
Perché le grandi piattaforme social network possono essere considerate ‘poteri privati?
Il concetto di ‘poteri privati’ nasce non oggi da una riconsiderazione della disciplina applicabile ad alcuni soggetti privati nell’ambito della partizione fra diritto privato, ossia del diritto che regola i rapporti fra privati, basato sull’uguaglianza fra i soggetti che ricorrono alle sue norme, e diritto pubblico, basato invece su rapporti di autorità, di soggezione, nascenti dal più ampio patto fra consociati che regola la comune convivenza e la comunità statale.
I ‘poteri privati’ possono essere definiti come quei soggetti che, senza essere autorità pubbliche, in forza delle loro caratteristiche e di un certo contesto di fatto (ma anche grazie ad una certa conformazione del diritto privato, che essi abilmente sfruttano a proprio vantaggio) riescono ad acquisire ed esercitare una posizione di preminente potere rispetto ad una moltitudine di altri soggetti privati, rendendo meramente formale di fatto e in diritto l’uguaglianza fra i soggetti privati.
Le grandi piattaforme social network formalmente si pongono come un privato (che presta un servizio) di fronte ad un altro – in teoria “uguale” – privato (che utilizza il servizio).
Ma, in ragione della centralità che hanno acquisito nella vita di centinaia di milioni di individui e della dipendenza che si è creata in ciascuno di noi rispetto a questa “vita online” (l’onlife di Luciano Floridi), esse esercitano su tutti coloro che creano la comunità virtuale che “vive” sulla piattaforma e vi “appartengono” (spesso credendo di poter influire sulle regole della comunità) un potere pressoché illimitato (di accesso, di regolazione della convivenza, di messa al bando).
Quando parliamo di cittadinanza digitale e di appartenenza a comunità virtuali riusciamo ad avere una giusta consapevolezza della portata di questa appartenenza? Perché in realtà non siamo veramente cittadini di queste comunità?
Essere cittadini significa essere parte di una comunità, essere riconosciuti da questa comunità ed avere la capacità di influire sulla comunità, secondo le regole condivise, il patto sociale, che la comunità si è data.
Sulla base di questa sintetica, approssimativa, definizione non ritengo si possa propriamente parlare di ‘cittadinanza digitale’ rispetto alle grandi piattaforme social network, anche se vi è una forte aspirazione in tal senso.
Infatti, proprio in ragione del rapporto formalmente privatistico fra piattaforma e singolo individuo, la nostra partecipazione politica alla comunità virtuale è pressoché nullo, poiché non abbiamo alcuna reale possibilità (se non rivolgendoci a un intervento giurisdizionale esterno) di influire sulle regole che alla comunità virtuale sono dettate dalla piattaforma, che, virtualmente, ha un vero e proprio ius vitae ac necis sulla nostra partecipazione e sulle modalità secondo cui essa può esplicarsi.
Non va evidentemente confuso il successo che si può avere nella comunità virtuale della piattaforma (il numero di followers, il numero di like) e l’apparente capacità di influenzare l’opinione degli altri membri della comunità virtuale, con la partecipazione politica ad una comunità, con la possibilità di incidere democraticamente sulle regole che regolano il funzionamento della comunità. Quest’ultima possibilità nelle grandi piattaforme social network non esiste. Al più nelle piattaforme social network si possono trovare strumenti per far ascoltare la propria voce al gestore della piattaforma. Ma ogni attività che il gestore della piattaforma deciderà di intraprendere in seguito alle nostre segnalazioni risulta essere pressoché sempre una sua graziosa concessione.
Quando definisce la posizione dei cittadini quali appartenenti ad una comunità digitale, come ad esempio è un social network, “controparti di un contratto di natura privatistica” cosa intende?
Come accennato, è indiscutibile che il rapporto giuridico che si instaura fra colui che ha creato e gestisce una piattaforma social network e tutti coloro che accedono alla piattaforma social network e la utilizzano è un rapporto contrattuale fra due soggetti privati.
Il gestore della piattaforma social network è un privato (il quale esercita la propria libertà di agire da privato nel costruire ed aprire la piattaforma al possibile utilizzo altrui) e privati sono tutti coloro che utilizzano la piattaforma.
Nel momento in cui chi vuole utilizzare la piattaforma social network viene identificato dalla piattaforma e, dopo averli volontariamente richiesti, riceve i codici per accedervi ed operare sulla piattaforma, si formalizza il rapporto contrattuale, nei termini e condizioni contrattuali stabilite unilateralmente dal gestore della piattaforma, che non possono essere discusse, ma solo accettate da chi vuole entrare nella comunità virtuale.
Si avvia così un rapporto contrattuale con diritti e doveri. In realtà, si tratta di pochissimi diritti di chi partecipa alla comunità virtuale (sostanzialmente alcuni diritti fondamentali che devono essere protetti in ogni luogo e contesto e che prescindono da una previsione contrattuale) e finanche meno doveri per chi gestisce la piattaforma (sempre legati ai predetti diritti fondamentali).
Il singolare rapporto contrattuale che si crea è tale per cui una delle controparti del rapporto contrattuale (ossia noi, che utilizziamo la piattaforma social network) aspira ad entrare e “vivere” in una comunità virtuale (instaurando una relazione contrattuale apparentemente a titolo gratuito) che non esisterebbe se detta parte non vi aderisse spontaneamente ed in cui sostanzialmente non ha diritti (esiste forse un diritto a che la piattaforma funzioni per un determinato periodo di tempo? esiste forse un diritto a che la piattaforma abbia certe caratteristiche e/o presti determinati servizi? esiste forse un diritto a veder risarcite proprie insoddisfatte pretese verso la piattaforma).
Dall’altro canto, l’altra parte del rapporto contrattuale (il gestore della piattaforma social network) si limita (nei tempi e nei modi che più gli aggradano) a far funzionare la comunità virtuale, per estrarne a suo vantaggio il valore che la semplice esistenza e funzionamento della piattaforma social network produce, in maniera più o meno evidente. Tal parte del contratto si limiterà, al più, ad espellere o sospendere dalla piattaforma (con pieno ed autonomo potere) quelle controparti contrattuali che con le loro condotte, più o meno eterodosse rispetto alla piattaforma social network, ne disturbano il quieto funzionamento e la sotterranea estrazione di valore. Proprio in tali ultime ipotesi si pongono i problemi giuridici più delicati (e che non mi è possibile affrontare ora) circa un diritto della controparte contrattuale del gestore della piattaforma a continuare a poter accedere a ed operare nella piattaforma.
Come si può declinare la nostra dipendenza da quella che, a tutti gli effetti è, una piattaforma: privata, virtuale, di grandi dimensioni ed estremamente forte economicamente come ad esempio Metaverso? E’ possibile qualificare i social network come spazi pubblici?
A mio avviso, va in primo luogo detto che la nostra dipendenza dalle comunità virtuali è frutto di una scelta, di una scelta che io sento di definire ancora come libera. A differenza dell’appartenenza originaria ad una comunità statuale, la scelta di far parte di comunità virtuale è solitamente assai più autonoma (anche se spesso non sempre con piena consapevolezza di tutto quello che comporta agire nella comunità virtuale, soprattutto sotto il profilo della perdita del controllo dei nostri dati personali e non).
Nessuno ci impone di far parte di un social network. Una scelta, per fortuna, c’è sempre e c’è ancora.
Resta però il fatto che le grandi piattaforme social network hanno centinaia di milioni di partecipanti. Ben più di moltissime comunità statuali.
Ecco allora che si pone il tema: questo gigantismo le rende degli spazi pubblici? con tutto ciò che ne conseguirebbe sotto il profilo giuridico e della regolazione dell’accesso, delle condotte e delle attività, del diritto a farne parte o meno?
Ebbene, la mia opinione è che – nonostante i tentativi fatti in diversi sistemi giuridici (quello statunitense in primis, ma anche in Italia), dalla giurisprudenza e dalla dottrina – la riconfigurazione delle grandi piattaforme social network come spazi pubblici, public forum et similia, non abbia una solida base giuridica e rappresenti piuttosto una forzatura, per altro verso forse finanche inutile. Ritengo infatti preferibile e più corretto insistere affinché nel rapporto social network-individuo siano applicate le già presenti norme privatistiche (essendo il rapporto giuridico chiaramente di stampo privatistico), sulla scorta della interpretazione costituzionalmente orientata da tempo accolta nel nostro ordinamento e che consente al giudice di intervenire sul contratto e nel rapporto contrattuale a tutela dei diritti costituzionalmente garantiti. Infatti, le condizioni standard unilateralmente stabilite dalle grandi piattaforme social network non sono sottratte al controllo giurisdizionale, che può e deve essere svolto conformemente ai principi costituzionali, alle leggi dello Stato e alle fonti sovranazionali che compongono il nostro sistema giuridico multilivello. Ciò non è impedito ed anzi, come dimostrano le pronunce di alcuni tribunali italiani, il controllo giurisdizionale ha dato buona prova di sé. Tutto sta a volerlo utilizzare, senza demandare necessariamente a pubbliche autorità la difesa dei propri diritti. Certo, un simile approccio richiede che tutti i cittadini siano pienamente consapevoli dei propri diritti, anche quando agiscono sulle piattaforme social network, ed è quindi necessario che l’educazione ai diritti, specie se devono essere fatti valere nel web, trovi modo di essere svolta con efficacia e ampiamente.
A Suo avviso l’Oversight Board di Facebook è uno strumento utile alla tutela dei profili registrati sulla piattaforma?
L’Oversight Board di Facebook a mio avviso rappresenta comunque uno strumento utile per migliorare il rispetto dei diritti fondamentali delle persone nell’ambito di questa grandissima piattaforma social network.
Esso va valutato e giudicato per quello che è ed a mio avviso non può essere considerato come un tentativo di Facebook di sottrarsi al controllo giurisdizionale.
Io vedo nell’Oversight Board di Facebook uno strumento volontario che nell’ambito del rapporto privatistico di cui ho già detto, da una parte, consente ai partecipanti a questa piattaforma di far meglio ascoltare la propria voce alla controparte contrattuale e, dall’altra parte, consente a Facebook medesima di meglio orientare la concreta applicazione delle proprie policy dirette ad evitare la violazione dei diritti fondamentali delle persone.
Tali policy sono fra i non molti doveri contrattuali che Facebook si assume nel momento in cui perfeziona il rapporto con i propri partecipanti e, dunque, considero positivamente che Facebook abbia assunto l’iniziativa di istituire l’Oversight Board per meglio definirle ed attuarle.
L’Oversight Board non è una corte privata, né un consesso arbitrale, né mi sembra abbia mai preteso di esserlo. Tant’è che le sue decisioni non impediscono a coloro che non ne fossero sodisfatti di poter comunque far valere i propri diritti di fronte a una corte statale, che resta comunque ultima depositaria dell’uso della forza pubblica per far rispettare le proprie decisioni.
Non ritengo, dunque, che l’OB possa essere messo a raffronto con organi giurisdizionali propriamente detti, neanche arbitrali, e che per il tramite di esso si vada incontro ad una destatalizzazione della giustizia o una “privatizzazione” del diritto (ammesso che ciò debba sempre essere considerato negativamente, cosa di cui non sono convinto).
La giustizia statale ancora c’è e va utilizzata. Anche rispetto a quanto accade sulle grandi piattaforme social network. Se non vi faremo ricorso non sarà perché Facebook ci avrà “anestetizzato” con l’Oversight Board, ma perchè, ancora una volta, non saremo consapevoli dei nostri diritti.
Ecco, se forse una cosa si potrebbe (o dovrebbe) chiedere alle grandi piattaforme social network, questa potrebbe essere un ausilio ad educare i partecipanti alle piattaforme social network ai propri diritti, verso le piattaforme medesime e verso gli altri partecipanti.
Per approfondimenti:
a cura di
Valeria Montani