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Italia e digitale, tra ritardi e opportunità. Intervista a Gian Paolo Manzella (Mise)

Italia E Digitale

Gian Paolo Manzella è sottosegretario di Stato al ministero dello Sviluppo economico (MISE). Ho lavorato, tra le altre cose, per la Banca Commerciale Italiana, l’AGCM e la Corte di Giustizia, ed è stato assessore allo sviluppo economico della Regione Lazio. È autore di “L’economia arancione. Storie e politiche della creatività” (Rubbettino, 2017).

Su digitale e tecnologia l’Italia è considerata in ritardo rispetto ad altri paesi europei (Francia, Germania). Secondo l’ultimo report The State of European Tech, tuttavia, nel 2019 gli investimenti nel settore tecnologico hanno registrato una forte crescita nel nostro Paese. Qual è la strategia del Governo per incentivare la spinta all’innovazione e alla digitalizzazione?

Il ritardo italiano c’è. Ancora. Sì, perché se sulla digitalizzazione rimaniamo dietro a Francia e Germania, siamo determinati a colmare il distacco. Semplicemente perché è questa una delle chiavi per essere più produttivi e competitivi. E l’azione di governo di questi primi mesi è andata in questa direzione. Con il rilancio del Piano Industria 4.0, allargando la platea di aziende che possono usufruire di un credito di imposta sugli investimenti in ricerca e sviluppo, introducendolo anche per investimenti in innovazione, design e green, confermando il credito d’imposta per la formazione 4.0. Il tutto con una particolare attenzione alle piccole e medie imprese, che debbono aver maggiori possibilità di accedere al percorso di digitalizzazione e ammodernamento dei processi produttivi.

Ma non è solo un tema di risorse. La digitalizzazione è un processo che ha una dimensione culturale molto importante. Per cambiare le cose ci sono gli otto Competence Center sul territorio italiano, che, insieme ai Digital Innovation Hubs, hanno una ‘missione’ cruciale: avvicinare le imprese al mondo del digitale. Anche qui ci sono risorse – 73 milioni di euro – e quello su cui dobbiamo concentrare la nostra attenzione è rendere questi centri dei luoghi vivi, in cui impresa, università e istituzioni lavorino insieme per rendere le nostre imprese più competitive e le nostre Università più capaci di ‘parlare’ con il tessuto produttivo.

Un passaggio – e lo dico a ragion veduta, essendo stato anche assessore regionale – un ruolo centrale lo hanno le Regioni. Noi nel Lazio avevamo avviato un programma, “Digital Impresa Lazio”, con l’ambizione proprio di avvicinare al digitale le imprese regionali. Attorno a questo obiettivo dobbiamo concentrare tutte le nostre risorse. E’ questa ‘la’ partita che si sta giocando in tutta Europa (e nel mondo), e noi dobbiamo essere in prima fila con questa consapevolezza.

Lei si è occupato a lungo di economia arancione o Creative Economy. In che modo la creatività può aiutare a rilanciare la crescita dell’economia italiana?

Quella della creatività è una delle grandi ‘incomprese’ dell’economia nazionale. Eppure vale il 7% del valore aggiunto, 95.8 miliardi di euro, senza aggiungere il valore creato negli altri settori, perché in quel caso si parlerebbe di un impatto di 265.4 miliardi di euro. E, se ci pensate, basta guardarsi attorno per vedere persone della ‘classe creativa’: dai designer alle persone del cinema e dell’audiovisivo, dai musei alle gallerie d’arte, sino alla moda, alla musica, all’editoria ai software e ai videogiochi. Insomma “creatività” – o, meglio, industrie creative – è un termine che abbraccia molto di quello che ogni giorno viviamo, vestiamo o produciamo.

Ma se è così, quanti di loro sono consapevoli di essere ‘classe creativa’? Quanti sanno di avere uno Stato che li riconosce come tali? In che modo sentono di essere sostenuti nelle loro attività? Ecco noi dobbiamo aiutare questo processo. E quindi definire una strategia nazionale, aiutare startup in questi settori, sostenere le imprese più mature a crescere ed andare sui mercati internazionali, occuparci di un aspetto cruciale come la ‘precarietà’ di molti lavoratori della classe creativa.

E, poi, c’è da aiutare l’incontro tra i creativi e le imprese tradizionali: perché se questo incontro c’è, l’impresa tradizionale si innoverà e sarà più competitiva, più capace di stare sui mercati e i creativi avranno più lavoro. Mi ha sempre colpito il c.d. “Fusion Effect” che stima che le imprese tecnologiche in cui lavorano insieme tecnici ed artisti hanno un tasso di vendite superiore rispetto alle aziende tradizionali del 8% e un 2% di possibilità in più di presentare sul mercato processi o prodotti radicalmente innovativi. Dati che ci dicono quanto sia importante – e direi per l’Italia più che per altri Paesi – tenere insieme creatività, impresa e tecnologia. Ecco noi dobbiamo far capire alla nostra classe creativa che abbiamo proprio questo in testa, che conosciamo il valore aggiunto che possono portare al nostro Paese ed alla sua economia.

Nel suo discorso di fine anno Macron ha ringraziato il contributo dei creativi francesi all’economia del Paese, penso sia un riconoscimento istituzionale importante. Ed è quello per cui dobbiamo lavorare su questa linea anche da noi. Con il Ministro Franceschini abbiamo già cominciato a lavorare in questa direzione.

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