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Regolare Internet, perché un approccio flessibile è necessario. Intervista a Salvatore Sica

Salvatore Sica è professore ordinario di Istituzioni di diritto privato e titolare della cattedra di Diritto privato delle nuove tecnologie presso l’Università degli Studi di Salerno. È socio fondatore della Italian Academy of the Internet Code (IAIC).

Quando si discute di come regolare Internet si parla spesso della necessità di un “approccio flessibile”. Può aiutarci a capire in cosa consiste e perché, al contrario, un approccio “rigido” è sconveniente?

Il problema della sconvenienza di un “approccio rigido” in tema di regolamentazione della Rete e quindi – entrando nel dettaglio – della frammentazione legislativa e dell’oscillazione giurisprudenziale deve essere collocato nel più ampio dibattito e nel difficile rapporto tra disciplina giuridica ed evoluzione tecnologica; è del pari risaputo che l’intervento del diritto nella regolamentazione delle tecnologie – specie della comunicazione – è sempre più postumo e tardivo.

Né deve trarre inganno il proliferare di normazioni settoriali e, appunto, in sede europea soprattutto, regolamentari.

L’“alluvione regolatoria” non va confusa con il ruolo del Diritto, inteso come sistema di regole, espressione di una composizione di interessi in un quadro in senso lato politico. Apertis verbis, il diritto dell’informazione e della comunicazione è il luogo in cui si consuma il divorzio tra statalismo di matrice liberale e capitalismo, tra supremazia della disciplina giuridica rispetto alla self regulation di stampo categoriale.

Con Internet – ed il suo carattere di spazio fuori dal tempo e dal territorio fisico – non entrano in crisi i soli connotati tradizionali dello Stato ordinante, ma viene messa in discussione, forse per la prima volta e molto di più in confronto all’utopia marxiana del diritto quale sovrastruttura, l’idea in sé delle regole giuridiche eteroprodotte da uno o più soggetti diversi da coloro che dell’attività regolata sono i protagonisti.

La comunicazione tra sfera privata e poteri pubblicistici in un continuo “gioco delle parti”, svuota quasi completamente di senso le partizioni elaborate nei tradizionali modelli di civil law: volgendo ai rapporti tra diritto privato municipale e fonti sovranazionali, un esempio lampante di approccio flessibile è rappresentato dall’estensione del modello di ragionamento giudiziale per principî e clausole generali nel campo del diritto comunitario e, nello specifico, con riferimento al ruolo sempre più rilevante ricoperto dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nell’ambito dell’assolvimento dei poteri di cui all’art. 267 del TFUE.

La tecnica del “bilanciamento” e del “giusto equilibrio” tra diritti e libertà fondamentali attuata dalla Corte di Lussemburgo per risoluzione specifiche questioni pregiudiziali – senza dimenticare i modelli impliciti o espliciti di ricezione delle decisioni della Corte EDU – penetra negli ordinamenti nazionali anche a prescindere da qualsivoglia effetto normativo diretto o indotto (regolamenti o direttive) incidendo sul complessivo assetto di valori di una data esperienza giuridica nazionale

Prendendo in esame proprio l’osservatorio del diritto delle comunicazioni elettroniche nella più recente giurisprudenza della Corte di giustizia, è possibile registrare e sintetizzare tre distinti fenomeni, che operano valicando il mero spazio delle relazioni orizzontali tra Stato e cittadino.

a) I diritti fondamentali come principî, sovrintendono le regole comunitarie di settore e il loro recepimento ad opera degli Stati membri, armonizzando o correggendone, ove necessario, effetti e scopi. Diritti fondamentali di diverso contenuto possono essere oggetto di bilanciamento al fine di apprestare la soluzione di un caso concreto, assicurando il “giusto equilibrio” tra gli interessi coinvolti, secondo criteri di ragionevolezza e proporzionalità. Ciò accade di frequente in relazione ai conflitti tra libertà d’impresa, diritti di proprietà intellettuale, libertà d’espressione e di informazione, o ancora con riguardo alla protezione dei dati personali. Ad esempio, nel caso Digital Ireland, la Corte ha invalidato un’intera direttiva sulla conservazione dei dati personali nei servizi di comunicazioni elettroniche accessibili al pubblico per fini di sicurezza pubblica, ritenendola eccedente i limiti imposti dal rispetto del principio di proporzionalità in relazione agli articoli 7 ed 8 della Carta.

b) I diritti fondamentali come valori, possono essere adoperati al fine di imporre un ordine gerarchico precostituito (o di massima) tra gli interessi coinvolti nelle dinamiche comunicative. Ne è testimonianza la pronunzia nel caso Google Spain, in cui nell’ambito dell’accesso alle funzioni di ricerca in Internet, la Corte di giustizia ha collocato i diritti fondamentali di solidarietà ad un livello di tutela più elevato e in linea di principio sovraordinato agli interessi economici degli intermediari, nonché a quelli del pubblico.

c) I diritti fondamentali come regole esprimono diritti pieni, pretese super-soggettive dotate di efficacia cogente nei rapporti orizzontali tra privati, ma anche tra differenti ordinamenti statuali. Seguendo la teorica dei diritti fondamentali di stampo costituzionale si suole parlare di unmittelbare Drittwirkung (effetto immediato), in cui è la norma costituzionale ad incidere direttamente sui rapporti privatistici poiché da essa derivano diritti soggettivi privati dell’individuo, contrapponendola alla mittelbare Drittwirkung, effetto mediato che la norma primaria esercita a livello interpretativo sulle regole sottostanti. Sia nella sentenza Google Spain che nel caso Schrems I, la Corte di giustizia utilizza l’argomento dei diritti fondamentali per riconoscere ai privati facoltà, poteri o precisi standard di tutela che hanno contenuto maggiore rispetto a quello fissato dalla disciplina settoriale e ancora prescindono dall’intervento dell’autorità giudiziaria competente o dalla giurisdizione degli Stati sovrani, configurandosi come autonomi diritti soggettivi.

Una grande questione – al momento irrisolta – è se le grandi piattaforme digitali debbano essere ritenute responsabili di ciò che viene pubblicato al loro interno. Qual è la sua posizione?

Ricollegandomi a quanto sostenuto precedentemente in linea più generale, il diritto statale sovente rappresenta un quid pluris  – se non un intralcio – nella prospettiva degli Over the Top della comunicazione. I segnali di una simile deriva sono molteplici ma, probabilmente, il punto in cui è determinato la maggiore “subalternità” del diritto alle “ragioni” dell’Information and Communication Society è la soluzione giuridica alla responsabilità civile del provider.

Le prime risposte al quesito (sempre più attuale) sul soggetto al quale ricondurre l’obbligazione di risarcire i danni causati nella o per il tramite della Rete furono negli anni ’90 dei giudici nazionali; e ciò ebbe luogo secondo sensibilità ed approcci differenti, diretti a ricollegare il ruolo dei ora providers all’effettività del proprio apporto soggettivo (e, dunque, con tendenziale esclusione della loro responsabilità), ora a vedere gli intermediari della comunicazione come i terminali dell’esposizione risarcitoria in chiave di rischio di impresa.

Non occorre la sfera di cristallo per rendersi conto che la soluzione prevalsa e rifluita nella Dir. 2000/31, all’interno della più generale disciplina del commercio elettronico, esclude il modello del rischio di impresa ed atterra nel tranquillizzante territorio della  sostanziale “irresponsabilità” dell’Internet provider “salvo che” non sussistano determinanti comportamenti (attivi o omissivi) residuali, concepiti, in termini di eccezione, in forma autonoma e caso per caso, a seconda del tipo di provider (mero, caching o hosting).

Varie le ragioni giustificatrici ma due sono le principali: l’ossequio di fondo alla retorica della “nuova frontiera della Rete” e la necessità di assicurare potere concorrenziale alle imprese europee del settore, altrimenti soccombenti nel confronto con quelle americane che già dal 1998 godevano di analogo regime esoneratorio in forza del Digital Millennium Copyright Act.

Rispetto al modello legislativo a cui si ispira, la direttiva non copre i servizi resi dai motori di ricerca, lasciando tale disciplina aperta all’applicazione diretta delle normative settoriali (reg. UE 679/2016, ma anche diritto d’autore con la direttiva 2001/29/CE) o, ancora all’esercizio interpretativo analogico/estensivo della direttiva 2000/31/CE.

Ai sensi della direttiva sul commercio elettronico, è quindi possibile isolare un generale principio di esonero dalla responsabilità in favore del provider per cui chiunque fornisca servizi nell’ambito delle comunicazioni elettroniche non può rispondere delle condotte illecite degli utenti che danno origine o sono destinatari di flussi informativi, né può essere altresì obbligato a sorvegliare e limitare le attività ivi svolte.  In altre parole, nell’ambito di Internet e del c.d. web 2.0, lo schema di tutela adottato in prevalenza può essere sintetizzato in questo modo: atteso che l’utente deve operare in maniera libera sulla Rete, nei casi di contenuti creati e veicolati su piattaforme gestiti da terzi è il gestore della piattaforma ad essere chiamato ad agire – su input dell’autorità giudiziaria o ancora della persona offesa – per fornire i dati identificativi dell’autore del contenuto illecito e/o rimuovere l’informazione pregiudizievole, o  ancora a rispondere dell’eventuale mancata rimozione tempestiva del pregiudizio.

La graduale – ma pervasiva – affermazione di social network e motori di ricerca come veri e propri gatekeepers dell’informazione ha stimolato, soprattutto in ambito comunitario, l’avvio di un nuovo dibattito sui compiti che essi devono svolgere in relazione al fenomeno degli illeciti in Internet.

Ad esempio, con un sensibile discostamento rispetto agli indirizzi giurisprudenziali registratisi sino alla prima decade del nuovo millennio, la direttiva UE n. 790/2019 sul diritto d’autore nel mercato unico digitale ritaglia una nuova disciplina speciale in materia di tutela dell’opere dell’ingegno (e con ciò sottratta all’applicazione della direttiva 2000/31/CE) imponendo un obbligo di collaborazione e negoziazione in via preventiva dei diritti di riproduzione e/o comunicazione al pubblico delle opere protette con i titolari dei diritti o gli aventi causa, cui si collega l’implementazione di sistemi di verifica dei contenuti caricati e resi accessibili sulle piattaforme che in un certo senso lasciano un ruolo residuale (o complementare) ai rimedi in forma specifica e di carattere successivo quali le misure ingiuntive o le procedure di notice and take down.

La tendenza regolatoria, confermata dalla recente interpretazione della direttiva 2000/31 resa dalla Corte di giustizia nelle sentenze Coöperatieve Vereniging SNB-REACT U.A. c. Deepak Mehta (C-521/17) e Eva Glawischnig‐Piesczek  c. Facebook (C-18/18), sembra seguire l’impronta della nuova disciplina settoriale in materia di protezione dei dati personali introdotta dal GDPR, la quale declina il principio di responsabilizzazione anche nel senso di promozione di attività di tipo preventivo connesse alla parcellizzazione delle condotte e alla creazione di un rapporto qualificato tra il flusso informativo e i soggetti implicati nelle attività di trattamento.

Tale opzione di politica del diritto sottende un diverso inquadramento dei prestatori di servizi sotto il profilo giuseconomico: l’edificazione di un nuovo diritto comunitario della responsabilità del provider deve infatti fondarsi sulla consapevolezza dell’esistenza di posizioni imprenditoriali (sovente di tipo monopolistico) che abbracciano in maniera trasversale diversi settori dell’economia e della comunicazione in precedenza gestiti in via esclusiva da soggetti terzi ed eterogenei (quali ad es. i media tradizionali), con la conseguente imposizione di «costi» atti a redistribuire in parte la ricchezza prodotta dalle attività di intermediazione ed aggregazione di contenuti e ancora ad allocare in maniera più efficiente quei «danni anonimi» scaturenti dalla difficoltà, immanente in Internet, di imputare le condotte illecite al reale autore del comportamento pregiudizievole.

In definitiva, non sembra ancora avviarsi a compimento il percorso che, in materia, sovente muove dalle corti nazionali, passa per quelle europee, ed approda ad un livello di stabilizzazione credibile del tema; l’incertezza continua a regnare sovrana, ma è probabilmente figlia del balbettio del diritto in tema di Law and Technology ed in un simile contesto è difficile azzardare l’esito finale. La sola certezza è che il circuito tra la giurisprudenza nazionale ed europea è indispensabile, anche come unico tracciato in cui si possa ritrovare il filo delle regole giuridiche emanazione di scelte valoriali condivise, oggi smarrito nel caos (non casuale) che il governo economico dei processi ha generato.

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