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Un confronto normativo per la regolamentazione della Street Art. Intervista al Professor Riccio.

La Street Art è riappropriazione artistica e politica di spazi urbani.

Un movimento nato dalla rivoluzione urbana nelle metropoli americane dell’East Coast: Philadelphia, Detroit e New York. Le origini di tale fenomeno sono una storia di illegalità, come ci spiega Jean Baudrillard: sono interventi volti a modificare un tessuto sociale, un’azione pubblica che risulta avere un vero e proprio ruolo socio-politico. Ad oggi è forte l’esigenza di una forma legislativa nuova, volta alla tutela di questa forma d’arte.

Nel merito di un confronto normativo per la regolamentazione della Street Art la redazione di Dimt ha intervistato il Professor Riccio, associato di Diritto pubblico e Diritto comparato d’autore, di Diritto comparato ed europeo della comunicazione presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Salerno.

 

Come, secondo Lei, si può trovare un connubio tra l’esigenza di regolamentazione e la natura stessa della street art? Come, quindi, l’ordinamento può tutelare questa forma artistica nata come un atto illecito, che trova espressione primariamente in spazi urbani non convenzionali, in diverse tipologie di supporti e metodi espressivi?

Ritengo che, parafrasando Carver, vada chiarito di cosa si parla, quando si parla di street art. La street art non è un movimento artistico, ma, sotto tale definizione, rientrano manifestazioni artistiche differenti, che spaziano dal lettrismo, all’art brut e all’action painting, fino a giungere alla pop art (e sino a quelli che sovente sono citati come “padri” della street art: Jean-Michel Basquiat e Keith Haring) e al situazionismo; secondo altri, vi sarebbe un collegamento con il muralismo messicano e con le opere di Diego Rivera e José Clemente Orozco. Pur non essendo uno storico o un critico d’arte, la mia impressione (e la chiamo tale, non avendo strumenti di analisi adeguati) è che tali ricostruzioni, per quanto utili sul piano didascalico, non colgano l’essenza di un fenomeno più complesso e articolato. Per tale ragione, dal momento che mi appare complessa una tassonomia delle tipologie di opere che si suole ricondurre nell’ambito della steet art, preferisco discorrere arte negli spazi pubblici, locuzione che, anche nell’ambito del progetto ExP, che ho lanciato con MuRO Museo e YoCoCu, abbiamo deciso di adottare. Fatte tali premesse, doverose, provo a rispondere alla domanda. Se limitiamo lo sguardo alle sole opere realizzate in assenza di autorizzazione (e, quindi, illegalmente), dobbiamo porci il dilemma – che sembra essere accolto in senso positivo da molti artisti – se l’arte negli spazi pubblici sia ontologicamente effimera, destinata a essere spazzata via o modificata dal tempo, vivendo lo sviluppo del contesto urbano in cui è realizzata. Io ritengo che tale lettura colga solo parzialmente un fenomeno complesso, forse perché ingabbiata da una visione oramai superata, e non prenda in esame la possibilità che tali opere rientrino nel patrimonio culturale e siano trasmesse ai posteri. Al contempo, occorre prestare la dovuta attenzione alla “musealizzazione” delle città, scansando il rischio di voler conservare tutto, lasciando immobili i contesti urbani. Del resto, anche le nostre città d’arte, a partire da Roma e Firenze, sono il frutto di sovrapposizioni e, inevitabilmente, di distruzioni. La questione dell’illiceità, poi, non mi sembra sia determinante. La tutela dell’arte è tendenzialmente sganciata dalla sua liceità, per cui il problema maggiore, sempre a mio parere, resta la scelta di quali opere tutelare e conservare e, soprattutto, l’individuazione dei soggetti che possano operare tale selezione.

 

Nonostante il nostro ordinamento preveda una protezione della street art con il diritto d’autore (non è infatti il copyright a sanzionare le modalità in cui l’opera stessa viene creata) vi è un grosso limite rispetto alla tutela di queste opere quando si entra in contatto con il principio della proprietà. Infatti il diritto d’autore condiziona fortemente il diritto dominicale: il rapporto tra il proprietario del muro e l’opera d’arte è difficilmente paragonabile a quello esistente tra un dipinto e la sua tela.
Secondo Lei, come la legislazione potrebbe al meglio tutelare il complesso equilibrio tra il diritto dell’artista sulla sua creazione e il diritto di proprietà del proprietario di un immobile?

È una domanda complessa, che però individua i nodi iniziali del dibattito. Il diritto d’autore riconosce diritti agli autori a prescindere dalla eventuale illiceità dell’opera: nel nostro ordinamento, infatti, non ha mai trovato piede la doctrine dell’unclean hands, che vorrebbe vietare di riconoscere diritti ai soggetti che hanno commesso un illecito per realizzare un’opera. Tuttavia, anche negli Stati Uniti, tale doctrine sembra in via di superamento e, sebbene sia stata evocata in alcuni casi di street art, non pare una soluzione adeguata. Al contrario, in alcuni casi sono stati giustamente condannati quei soggetti che tentavano di approfittare di tali opere senza corrispondere alcun compenso agli artisti, come pubblicitari che ambientavano le proprie campagne in luoghi dove erano presenti le opere.
Allo stesso modo, lo sforzo dottrinale di applicare istituti civilistici tradizionali come l’usucapione e l’accessione non mi sembra che abbia prodotto risultati apprezzabili. Quindi, ritengo che si debba uscire dalle strettoie delle logiche stricto sensu proprietarie e interrogarsi sulle peculiarità di tali opere e, nuovamente, sulle esigenze di tutela e conservazione.
Per tamponare l’emergenza, si potrebbe ricorrere alla normativa urbanistica, ai regolamenti comunali in materia edificatoria (ai sensi dell’art. 871 cod. civ.), al Testo Unico dell’edilizia, e così via discorrendo. Tuttavia, non sono soluzioni idonee a risolvere sistematicamente il quesito dal quale siamo partiti.
Tempo fa, ho avanzato una proposta, partendo dalla legislazione americana, che impone ai proprietari di avvisare gli artisti prima di distruggere il supporto (es. il muro) su cui insiste l’opera. A mio avviso, tale soluzione è inefficiente, per due ragioni: innanzi tutto, perché impone ai proprietari di sostenere dei costi (per la notification) laddove gli stessi non hanno chiesto che l’opera fosse realizzata su di un proprio bene; in secondo luogo, perché l’esperienza statunitense insegna che spesso è complesso reperire gli autori. Pertanto, ho suggerito che i proprietari abbiano l’obbligo di inviare una comunicazione alla Soprintendenza competente, la quale ha un periodo di tempo per rispondere, decorso il quale – con un meccanismo di silenzio assenso – si può procedere alla demolizione o alla distruzione dell’opera.
La Soprintendenza, poi, dovrebbe essere assistita da una commissione nazionale, che coinvolga artisti, critici, restauratori, organizzatori di progetti di arte urbana e, non da ultimo, le comunità locali. Non bisogna dimenticare, infatti, che le opere di cui discorriamo sono spesso site-specific ossia sono pensate per i luoghi nei quali sono rappresentati.
Gli abitanti dei luoghi, anzi, dovrebbero essere coinvolti anche nella fase della realizzazione delle opere, nel caso in cui tali opere non siano il frutto di uno “spontaneismo” dell’artista, ma siano concordate, autorizzate o finanziate, attraverso un percorso che metta in discussione le regole proprietarie, con un dialogo che coinvolga diversi attori. Non solo i soggetti proprietari (giuridicamente) dei muri, ma anche, e ancor prima, gli abitanti dei quartieri in cui le opere si inseriscono, chiamati, insieme agli artisti, a pronunciarsi sull’impatto delle opere stesse nel contesto in cui si inseriscono, invitati a collaborare attivamente alla loro realizzazione, influendo sull’immaginario degli artisti. Un processo collettivo, che determina una sorta di “collettivizzazione” delle opere, che divengono di tutti e di nessuno.
Un’arte che convive con il contesto urbano, non lo violenta, che è il frutto di riflessioni del singolo che provano a farsi comuni, restituendo significato ai luoghi, riportando alla luce la memoria che, come flutti restituiti dalle onde, ritorna alla sua origine e coinvolge gli abitanti di quei luoghi. Un percorso condiviso, comune, come una pianta che rinasce nel suo habitat naturale.

 

 

Per ulteriori approfondimenti, la redazione di Dimt rimanda al seguente contributo : 

“L’arte oltre l’arte”
La street art come bene comune

di
Ilaria Ferlito

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