di Vittorio Occorsio e Alessia Amore [*] Cinque persone tra i 28 e i 49 anni…
Lo sviluppo tecnologico in medicina e la responsabilità medica: un paradosso?
di Vittorio Occorsio [*] Nel 2001 appariva sulla Rivista Italiana di Medicina Legale un articolo di Francesco Introna dal titolo “Un paradosso: con il progresso in medicina aumentano i processi contro i medici”. La provocazione coglieva nel segno: a partire dall’inizio del millennio, in parallelo con l’accelerazione dell’applicazione tecnologica in ambito sanitaria, alcune svolte giurisprudenziali hanno segnato un vigoroso revirement della Corte di Cassazione nei giudizi sulla responsabilità civile dei medici: in primo luogo è intervenuta, la sentenza del “contatto sociale”, n. 589 del 1999, con cui la Corte inquadrò la responsabilità del medico nell’alveo della responsabilità contrattuale – modificando l’orientamento precedente che riconduceva la responsabilità medica nelle regole del danno extracontrattuale, da cui discendeva per il medico una migliore posizione dal punto di vista dell’onere della prova; è stata poi pronunciata la sentenza a Sezioni Unite del 30 ottobre 2001, n. 13533, in cui si è stabilito che l’onere probatorio del creditore che agisce in giudizio anche solo per contestare un inesatto adempimento, si limita alla prova della fonte dell’obbligazione (il contatto con il medico) e dei danni, e alla mera allegazione di un inadempimento astrattamente idoneo a causare quel danno, mentre il debitore convenuto (ossia il medico) è gravato dall’onere della prova dell’avvenuto, corretto adempimento. Il passo successivo è avvenuto con la pronuncia a Sezioni Unite el 11 gennaio 2008, n. 577, in cui la Cassazione ha avuto modo di esprimersi a Sezioni Unite sulla opportunità della sopravvivenza della distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato. Un risultato, spiega la Corte, è dovuto in tutte le obbligazioni, e le cure stesse del medico “sono un mezzo per la guarigione del malato, ma sono un risultato se lo scopo preso in considerazione è quello di essere curato” (Cass. Sez. U. 11.1.2008, n. 577, in Danno e resp, 2008, p. 871 ss.). Sembra dunque che, a quindici anni circa dall’inizio di quel trend, l’obbligazione del medico sia quasi una obbligazione di risultato: d’altronde, si potrebbe assumere, la nuove tecnologie hanno talmente innalzato le probabilità di diagnosi e cura, che l’asticella della diligenza richiesta al medico si è spinta sempre più su, rasentando l’obbligo di garantire la guarigione. Tuttavia, senza voler sembrare assertore di una battaglia di retroguardia, mi sembra sempre opportuno ricordare che la medicina, benché tecnologizzata, conserva ancora una forte componente di “arte”, cioè la personalizzazione che ogni medico conferisce al suo agire in ciascun caso singolo sulla base della propria esperienza e della propria sensibilità professionale (e cfr. F. Introna La metodologia medico legale nella valutazione della responsabilità medica per colpa, in Riv. it. med. Leg., 1996, p. 1323 ss.). Per non trasformare il medico in un garante della guarigione, bisogna inquadrare il concetto di risultato dovuto all’interno del rapporto in cui sorge l’obbligazione: in sostanza, occorre intendersi su quale sia la prestazione esigibile da parte del medico. Si consideri ad esempio il caso degli interventi trasfusionali, proprio quello da cui nasceva la sentenza del 2008: i trattamenti trasfusionali ammettono una percentuale di rischio di infezione di epatite C non controllabile (infatti tale infezione ha un “periodo finestra” di 60 giorni, in cui il virus è in incubazione, e nei quali non viene rilevato dagli strumenti diagnostici: quindi esso poteva essere già presente nel paziente, ovvero nel sangue trasfuso, senza che nessuno potesse saperlo). Sicché il medico nel caso di paziente con anemia significativa, deve comunque procedere alla trasfusione, benché sia conscio di un margine di rischio: quindi al medico non si può chiedere altro che provvedere ad una trasfusione a regola d’arte, evitando, per quanto possibile e prevedibile, effetti collaterali (e cfr. A. Nicolussi, Sezioni sempre più unite contro la distinzione fra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi. La responsabilità del medico, in Danno e resp, 2008, 875 ss.). Nella decisione del 2008, la Cassazione si spinge forse un po’ oltre, e pretende che il medico provi, per risultare indenne da responsabilità, la specifica causa che rese impossibile il raggiungimento del risultato voluto, mentre questa potrebbe essere una causa inaccertabile (per il periodo finestra di cui sopra): al medico dovrebbe solo essere chiesto di provare di aver effettuato correttamente la trasfusione. Nel ragionamento della Corte, più che un’obbligazione di risultato, si addossa al medico una sorta di responsabilità oggettiva per qualsiasi accadimento avvenga nel corso delle sue operazioni. Il problema è che, come si diceva, con l’avanzamento della scienza e della tecnica, si tende ad alzare sempre di più l’aspettativa nei confronti del ”risultato” dovuto dall’intervento del medico: senza tener conto del fatto che in molti casi non vi sono, in medicina, risultati che possono essere raggiunti con assoluta certezza. Ecco che si invera il “paradosso” di cui parlava Francesco Introna, il quale calcola che l’80% dei medici chirurghi sarà citato per danni nel corso della sua vita lavorativa, e considerando la durata dei processi, passerà un terzo della propria vita lavorativa sotto processo. Eppure, a fronte di una buona dose di certezze, esistono numerosi processi biologici tuttora poco conosciuti: si pensi all’addome, definito da sempre la “tomba del medico”, a causa della molteplicità delle possibili cause patologiche di un vago dolore, prospettabile sia come una colica epatica o renale, una pancreatite acuta, un’occlusione intestinale, una perforazione gastrica o intestinale, una peritonite, una rottura di aneurisma aortico e perfino un infarto del miocardio con dolore in sede epigastrica anziché toracica. Il rischio maggiore del sopra descritto fenomeno, che sarebbe veramente paradossale, è che ciò determini un freno al progresso delle applicazioni tecnologiche in sanità. Invece, anche con una nuova concezione dell’alleanza terapeutica, grazie ad esse si potrà sviluppare un concetto di sanità totalmente nuovo, rivolto non più e non solo alla cura del malato, ma alla cura del benessere della persona. E in tal senso è assai indicativo il pilastro europeo della prevenzione, che passa, essenzialmente, tramite la diffusione dei nuovi ritrovati della tecnica che permettono una diagnosi precoce delle malattie, anche le più gravi. Un esempio ne è la diagnosi del cancro al seno. Il tutto, pur sapendo che, come diceva il Locke, la medicina è illuminata soltanto dal crepuscolo della probabilità (e cfr. P. Vineis, Nel crepuscolo della probabilità, Torino 1999): in molti casi, il medico non può far altro che illustrare le alternative, prospettandone al paziente i possibili esiti, fausti ed infausti, e giustificare le scelte terapeutiche. [*] Questo intervento è inserito all’interno della rubrica di Dimt “E-Health: diritto sanitario e nuove tecnologie” 16 ottobre 2014