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Il fumo negli occhi

 

Smentendo le tesi e le documentazioni scientifiche della difesa e di precedenti decisioni giurisprudenziali – basate sul convincimento che all’epoca in cui l’uomo aveva cominciato a fumare già esistesse ampia consapevolezza dei rischi legati al fumo – i giudici di Milano criticano la parzialità della selezione delle fonti. Parziali perché avrebbero trascurato “del tutto altre popolari ed efficaci forme di comunicazione capaci di influenzare, in maniera sia consapevole sia inconscia, il modo di pensare e i comportamenti della vita quotidiana di grandi masse di persone”.

Il riferimento è alla tv, che all’epoca cominciava ad entrare nelle case degli italiani, ma soprattutto al cinema che ha reso immortali personaggi perennemente con la sigaretta in bocca o in mano. Dal Clark Gable di Via col Vento al James Dean di Gioventù Bruciata, piuttosto che all’Humphrey Bogart di Casablanca e alla Rita Hayworth di Gilda.

I modelli di comportamento di questi personaggi, in altri termini, sarebbero stati idonei a influenzare il comportamento di tante persone avvicinandole al fumo. Personaggi di Hollywood di successo, uomini e donne belli, ricchi, famosi con cui intere generazioni hanno convissuto, amandoli e appassionandosi alle loro avventure, imitando i loro stili di vita.

Il rapporto Hollywood – “tabacco” non è nuovo. Il cinema lo aveva trattato per esempio nel 2005 col film “Thank you for smoking”. Protagonista lo pseudo lobbista Nick Naylor, che mette le sue capacità al servizio di un’impresa americana, la Big Tobacco.

Per superare le difficoltà dell’azienda, Naylor propone una collaborazione con il cinema: “quando qualcuno fuma in un film o è uno psicopatico o è un sudamericano”, ma nel passato (quel passato cui si riferisce la sentenza milanese) Hollywood ha associato al fumo le scene di maggior impatto dei suoi classici. Il faccendiere avvia quindi i contatti con un produttore di successo per realizzare un film ambientato nel futuro, la cui scena madre sarebbe di fatto un messaggio pubblicitario: Brad Pitt e Catherine Zeta-Jones che fumano una sigaretta di una nuova marca, lanciata per l’occasione dalla società.

Il film andrà in un’altra direzione, ma il senso è chiaro e coincide con quello evocato dalla sentenza. La capacità di alcuni soggetti e strumenti di comunicazione di influenzare il comportamento dei consumatori. Talora tracimando verso forme di persuasione più o meno occulta. La ricostruzione che abbiamo fatto è naturalmente un po’ semplicistica, ma rende l’idea del dibattito sempre più attuale su cosa davvero influenzi le opinioni pubbliche e i comportamenti delle persone. Una dozzina di anni fa (era il 2003) i due esperti americani di marketing Edward Keller e Jonathan Berry scrivevano “The Influentials” sostenendo che “One American in Ten Tells the Other Nine How to Vote, Where to Eat, and What to Buy” e quel 10 per cento erano gli individui più impegnati nelle loro comunità locali. Adesso, la caccia agli influenti si sposta sui social media, come dimostrerà ulteriormente la campagna presidenziale americana. In mezzo, lo testimonia la sentenza di Milano, mass media come tv e cinema, soprattutto se ad “influenzare” sono grandi divi e celebrity che interpretano, anzi indirizzano il loro tempo. E a volte, i suoi vizi. Questo intervento è inserito in Occhio di riguardo: la comunicazione tra tecnologia, mercato e diritto, rubrica affidata a Gianfrancesco Rizzuti, docente di Relazioni Pubbliche Economiche e Finanziarie all’Università Europea di Roma. 26 aprile 2016

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