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No all’anonimizzazione delle sentenze senza controllo umano

Il Tar Lazio boccia l’utilizzo dei sistemi automatici: c’è il rischio che l’algoritmo si trasformi da strumento di trasparenza a meccanismo di opacità

di Germana Lo Sapio e Oreste Pollicino*

*Socio fondatore di IAIC

Tra le applicazioni più pervasivamente introdotte dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari, l’anonimizzazione delle decisioni rappresenta, almeno in apparenza, un intervento virtuoso: finalizzato a tutelare la riservatezza delle parti in causa, senza compromettere il principio di pubblicità delle decisioni giudiziarie. Tuttavia, il caso italiano recentemente affrontato dal Tar del Lazio (sentenza n. 7625 del 17 aprile 2025) mostra come, in assenza di un bilanciamento attento e consapevole tra diritti, l’algoritmo può trasformarsi da strumento di trasparenza a meccanismo di opacità.

Il caso

La vicenda è, nei fatti, emblematica. Con la sostituzione dell’Archivio giurisprudenziale nazionale (Agn) con una nuova banca dati pubblica (Bdp), il ministero della Giustizia ha inteso rendere più accessibile il patrimonio delle sentenze italiane. Ma all’apertura del nuovo portale, gli operatori del diritto – avvocati e studiosi – si sono trovati davanti a documenti svuotati del loro contenuto informativo: rimossi non solo i nomi delle parti, ma anche le date, i riferimenti normativi e giurisprudenziali, persino le coordinate fattuali essenziali.

Una radicale automatizzazione del processo di anonimizzazione, priva di controllo umano e svincolata dal contesto, ha prodotto l’effetto paradossale di annientare la funzione conoscitiva, orientativa e garantista della giurisprudenza. In nome della privacy si è finito per negare il diritto alla conoscenza della legge vivente, mettendo in discussione la stessa intelligibilità dell’ordinamento.

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