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Contributo scritto, con alcune proposte migliorative relative al ddl n. 2801 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, a complemento di quanto esposto da Scienza e Vita nell’audizione in Senato il 12 giugno 2017

Prof. Alberto Gambino (presidente nazionale) – Dott. Maurizio Calipari (portavoce nazionale) 

Contributo scritto, con la proposta di alcune proposte migliorative relative al ddl n. 2801 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, a complemento di quanto esposto durante l’audizione del 12 giugno 2017
 

NB: l’ordine dei rilievi del contributo segue gli articoli del ddl

 1.Si rileva come – all’art.1, co.5 – la disposizione sulla nutrizione e idratazione artificiali (NIA), non prevedendo alcun vincolo applicativo che la limiti solamente a situazioni cliniche di fine vita, sia fruibile, almeno in linea di principio, da chiunque decida di non alimentarsi o idratarsi artificialmente, per lasciarsi morire.

Teoricamente, quindi, essa si applica anche a casi di particolare precarietà esistenziale, che tuttavia non sono affatto terminali e non sono tenuti in vita da alcun intervento terapeutico intensivo.

Si potrebbe fare l’esempio di una persona anoressica: forse che l’eventuale rifiuto dell’alimentazione da parte di un simile malato dovrebbe essere recepita come una sua scelta libera e, in quanto tale, risultare insindacabile da parte del medico? Crediamo ovviamente di no. Ma in base all’attuale testo del ddl questa conseguenza è un rischio concreto. Pertanto urgerebbe una correzione che eviti tale deriva applicativa.

Ci sembra anche che sia una inutile “forzatura” accanirsi a voler definire per legge cosa debba considerarsi trattamento sanitario e cosa no. La persona titolata a operare tale valutazione è senz’altro il medico, in ragione della sua competenza professionale. Dunque, si lasci a lui almeno il compito di giudicare, nella concreta situazione clinica, se le modalità e i contesti della NIA assumano le caratteristiche di un tale trattamento. Ciò che infatti può risultare “sproporzionato”, in taluni casi, sono le modalità mediche necessarie per instaurare la NIA, ma non l’alimentazione e l’idratazione in se stesse, che oggettivamente non si configurano come interventi di contrasto di una patologia, bensì come semplici mezzi di sostegno vitale, necessari anche alle persone sane.

Naturalmente, la NIA può invece essere interrotta qualora l’organismo non sia più in grado di assimilarne l’azione.

Più semplicemente, si potrebbe espungere dal testo i passaggi riguardanti la NIA, che nella versione attuale del ddl, rappresentano una precisazione non necessaria e, con molta probabilità, fonte di equivoci applicativi e legali.

2.

All’art. 2, la prima parte del co. 2 stabilisce un dovere (“deve”) per il medico, del tutto indipendente dalla volontà (e quindi dal consenso) del paziente.

Alla luce di questa premessa, risulta eccessiva ed inaccettabile la perentorietà del divieto per il medico di ricorrere a trattamenti sproporzionati, senza che sia tenuta in alcun conto la volontà del malato.

Si consideri, ad esempio, il caso di un giovane malato (un papà, una mamma) con una breve aspettativa di vita, cui un intervento chirurgico – valutato come “sproporzionato” per i rischi che comporta, ma comunque potenzialmente efficace – sia l’unico mezzo in grado di allungare i suoi giorni, permettendogli così di adempiere importanti doveri o incombenze. Si dovrebbe precludere per legge a questo malato la possibilità di ricorrere a tale opportunità o non bisognerebbe piuttosto garantirgli libertà di scelta?

Risulta molto problematica anche l’espressione “Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza della morte”; il concetto di “prognosi infausta a breve termine si presta ad evidenti ambiguità, anche alla luce delle amplissime definizioni di terminalità proposte dalla letteratura medica più recente. La prevedibilità della morte, infatti, fa riferimento a percentuali statistiche differenti (a sei mesi, a un anno o addirittura, secondo alcune posizioni di area anglosassone, a due anni).

C’è poi l’espressione “(il medico) deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure” che risulta del tutto incongrua. Le cure, infatti, non si identificano con le sole terapie, includendo anche la palliazione ed ogni profilo di assistenza. Applicato alla lettera, dunque, il testo attuale limita anche simili interventi, suggerendo surrettiziamente quasi l’idea che a un certo punto il paziente possa essere abbandonato. Cosa che riteniamo inaccettabile.

Una precisazione sarebbe poi necessaria nella seconda parte del medesimo art. 2, co. 2., quando si relaziona la “sedazione palliativa profonda continua” a situazioni di “sofferenze refrattarie ai trattamenti”. E’ di tutta evidenza che le sofferenze refrattarie possono anche essere del tutto transitorie. Sarebbe quindi importante correggere la frase, riferendo la disposizione a “sofferenze irreversibilmente refrattarie”.

 

3. Il tema affrontato dall’art. 3 (Trattamento di minori e incapaci) – in particolare al co. 2 – è di particolare delicatezza. E’ condivisibile l’intento di fondo della norma, cioè assicurare che questi soggetti “deboli”, ma comunque in grado di esprimere il proprio punto di vista sui trattamenti cui sottoporsi, debbano effettivamente essere sentiti. Ma nel suo insieme, l’articolo finisce per ribaltare un principio basilare: quello per cui minori e incapaci sono titolari di un diritto alla vita e alla salute che non può essere compromesso per decisione di chi li rappresenti. La salvaguardia di tale diritto è anzitutto in carico al medico, che lo attua

in base ai criteri di appropriatezza dell’attività medica (ad esempio, il genitore di un neonato che manifesti problemi patologici, non può certo rifiutare la tutela della sua salute o della sua vita).

Nel caso di un soggetto maggiorenne, infatti, è l’interessato che esprime il suo consenso circa un’ingerenza sul suo corpo; nel caso di un minorenne (o incapace) è invece una persona terza che decide sulla tutela della vita e della salute altrui. La differenza fra le due situazioni è netta e decisiva. Perciò, nel secondo caso (minori e incapaci), solo il medico può essere garante oggettivo di tale tutela. Ma ciò non è previsto nell’attuale formulazione del ddl. Neanche l’indicazione dello scopo (ultima parte del co. 2) risolve il problema. Anzi, non si comprende perché in essa sia suggestivamente anteposta la “tutela della salute psicofisica” alla tutela della vita, senza peraltro prevedere nemmeno la consultazione di un comitato etico. Inoltre appare del tutto improbabile, in un contesto di diniego del consenso alle terapie sul minore o sull’incapace da parte del genitore o del rappresentante legale, che il medico attivi il previsto

procedimento giudiziario (co. 5), dal momento che, aderendo al diniego, egli sarebbe comunque esente, ai sensi dell’art. 1, co. 6, da qualsiasi responsabilità.

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http://www.scienzaevita.org/wp-content/uploads/2017/06/ScienzaVita_relaz-Senato-ddl-2801.pdf

 

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