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Nota all’ordinanza in materia cautelare Tribunale di Matera, sezione penale, del 13 aprile 2016: Reato di contraffazione o illecito in violazione della tutela della “varietà vegetale”?

 

Posto infatti che il marchio “Candonga” era stato registrato ad opera della società Planitalia, la Guardia di Finanza di Policoro insospettita dal fatto che le fascette di trasporto e le cassette vuote riportassero l’espressione “Candonga”, aveva ravvisato gli estremi del reato di cui all’art. 473 c.p. e di conseguenza aveva disposto il sequestro di circa 80.000 imballaggi.

Le successive operazioni condotte dalla Polizia Giudiziaria avevano poi consentito di constatare che tutte le fragole commercializzate dall’impresa romagnola appartenevano alla varietà vegetale nota indifferentemente come “Sabrosa” o “Candonga” e, in quanto tali, erano state regolarmente commercializzate dalla società romagnola, che da anni acquistava abitualmente tali fragole nella zona del Metapontino, luogo di produzione delle medesime.

L’ordinanza cautelare in commento, divenuta irrevocabile in quanto non impugnata dalla Procura della Repubblica, rappresenta la risposta che il Tribunale di Matera ha ritenuto di offrire rispetto all’istanza di riesame presentata in data 8 aprile 2016 dalla difesa della società romagnola, coinvolta nel procedimento penale di cui trattasi, avverso il decreto di sequestro operato dalle autorità competenti.

Il Collegio, in particolare, si è trovato a decidere se potesse configurarsi il reato di cui all’art. 473 c.p. per il fatto che gli imballaggi recavano indicazioni potenzialmente idonee a creare confusione nel pubblico, violando peraltro diritti di privativa di terzi.

La pronuncia in esame rappresenta dunque una decisione di grande importanza in materia perché ha permesso all’Autorità giudiziaria di esprimersi sulla delicata questione giuridica riguardante le differenze pratiche tra il reato di contraffazione ex art. 473 c.p. e l’illecito previsto dall’art. 127, comma primo, D.Lgs. n. 30 del 2005 (cosiddetto “Codice della proprietà industriale”, d’ora in poi CPI), rubricato “sanzioni penali ed amministrative”, in un delicato settore come quello della commercializzazione di prodotti ortofrutticoli.

Come è noto, integra il reato di cui all’art. 473 c.p. la contraffazione o l’alterazione di marchi o segni distintivi di opere dell’ingegno o di prodotti industriali che siano tali da ingenerare confusione nei consumatori e nuocere al generale affidamento. L’articolo in questione (inter alia anche il seguente art. 474 c.p.) tutela la pubblica fede con riferimento ai segni riprodotti su una determinata merce ed ha come presupposto l’attività fraudolenta del soggetto consistente nell’alterazione di marchi, etichette o sigilli originali.

Il Collegio ha sposato la ricostruzione avanzata dalla Corte di Cassazione in un caso analogo (cfr. sentenza n. 37553 del 2008), precisando che il suddetto reato si distingue dalla fattispecie già prevista dall’art. 127, co. 1, CPI in base al bene giuridico protetto (comma poi abrogato dalla riforma del 2009). Difatti, le due previsioni normative mirano alla tutela di beni giuridici diversi: la fede pubblica da un lato, e il patrimonio dall’altro.

L’art. 127 del CPI (peraltro oggetto di recenti modifiche normative ad opera del d.lgs. 140/2006 e, poi, della L. 99/2009), al comma 2 recita: “2. Chiunque appone, su un oggetto, parole o indicazioni non corrispondenti al vero, tendenti a far credere che l’oggetto sia protetto da brevetto, disegno o modello oppure topografia o a far credere che il marchio che lo contraddistingue sia stato registrato, è punito con la sanzione amministrativa da 51,65 euro a 516,46 euro.”

Dalla lettera della norma emerge chiaramente come il bene giuridico tutelato sia proprio il patrimonio, ovvero “il mero interesse privatistico all’esclusività dell’uso del marchio e non, come chiesto dall’art. 473 c.p., la fede pubblica”. Inoltre, come sottolinea la stessa ordinanza (che, pure, ha erroneamente indicato la previgente formulazione della norma), il fatto che la norma esprima una tutela di interessi esclusivamente privati è sin troppo chiaro.

Un altro interessante spunto di riflessione offerto dall’ordinanza riguarda il richiamo alla pronuncia della Corte di Cassazione n. 10193 del 2006. In questo caso la Suprema Corte ha puntualizzato che “non vi è coincidenza tra la condotta integrante l’illecito civilistico della concorrenza sleale e quella integrante il reato di cui all’art. 473 c.p., atteso che l’illecito civilistico, quale previsto dall’art. 2598, co. 1, c.c., richiede come condizione necessaria e sufficiente quella che si usino nomi o segni distintivi idonei a creare confusione con quelli usati da altri, o che si imitino servilmente i prodotti altrui, mentre l’art. 473 c.p., richiede, più specificamente, che gli altrui marchi o segni distintivi siano fatti oggetto di materiale contraffazione o alterazione, per cui, mancando queste, la sola possibilità di confusione non può, di per sé, valere a costituire il reato”.

Nel caso di specie, il Collegio ha sostenuto che non potesse sussistere alcun rischio di confusione: il marchio della società Planitalia (che contiene una espressione generica) riportava una rappresentazione grafica totalmente diversa da quella utilizzata dalla società romagnola su fascette ed imballaggi sottoposti a sequestro e, soprattutto “non può dirsi che la dicitura Candonga sia di pertinenza esclusiva, in qualsiasi forma e modo rappresentata, della società che ha registrato il marchio”.

Orbene, ecco che entra in gioco l’ultimo (ma non certo di minore importanza) aspetto da segnalare, ovvero la distinzione tra registrazione di marchio e registrazione di “varietà vegetale”, come previsto dall’art. 100 CPI. Difatti, è anche sulla base di tale discrimen che è stata risolta la questione controversa.

Sul punto, merita ricordare che l’art. 2 del CPI prevede che possano essere oggetto di brevettazione le nuove varietà vegetali, le quali trovano, poi, una disciplina molto dettagliata negli artt. 100-116 del CPI. Pertanto, in questa sede ci limiteremo a richiamare gli articoli rilevanti per la nostra trattazione, come ad esempio l’art. 100 CPI, il quale, nel chiarire ciò che può costituire oggetto del diritto su una nuova varietà vegetale, stabilisce che si deve trattare di un insieme vegetale di un taxon botanico del grado più basso conosciuto che, conformandosi integralmente o meno alle condizioni previste per il conferimento del diritto di costitutore, può essere: a) definito in base ai caratteri risultanti da un certo genotipo o da una certa combinazione di genotipi; b) distinto da ogni altro insieme vegetale in base all’espressione di almeno uno dei suddetti caratteri; c) considerato come un’entità rispetto alla sua idoneità a essere riprodotto in modo conforme.

L’art. 103 CPI, poi, offre alcune delucidazioni in ordine al significato da attribuire alla parola “novità”, statuendo che la varietà vegetale si reputa nuova quando, alla data di deposito della relativa domanda, il materiale di riproduzione o di moltiplicazione vegetativa, o un prodotto di raccolta della varietà, non è stato venduto né altrimenti ceduto a terzi, dal costitutore o con il suo consenso, ai fini dello sfruttamento della varietà: sul territorio italiano da oltre un anno dalla data di deposito della domanda; in qualsiasi altro Stato da oltre quattro anni o, nel caso di alberi e viti, da oltre sei anni.

Infine, in tema di tutela riconosciuta al costitutore – ovvero colui che ha creato o scoperto e messo a punto una varietà, o la persona che è il datore di lavoro della persona sopraindicata o che ne ha commissionato il lavoro o, infine, l’avente diritto o avente causa dai soggetti appena indicati – si richiama l’art. 107 del CPI, che elenca dettagliatamente gli atti per i quali è richiesta l’autorizzazione del costitutore, fra cui, a mero titolo esemplificativo, la produzione, la vendita, l’esportazione, la detenzione, etc.. Difatti, ricorrendo tutti i requisiti sopra indicati, gli artt. 110 e 111 CPI parlano rispettivamente di “diritto morale” e di “diritti patrimoniali” del costitutore.

Ciò detto, nel caso in esame il Collegio ha giustamente rilevato come tutta la frutta commercializzata dalla società che aveva subìto il sequestro fosse da ricondurre alla varietà vegetale (oggetto di tutela) da sempre contraddistinta con l’espressione “Candonga”, rilevando al contempo l’espressione non potesse assurgere, di per se stessa, a marchio di uso esclusivo di taluno.

In conclusione, secondo quanto sostenuto dall’ordinanza in esame, nel caso di specie non sussisterebbe il reato di cui all’art. 473 c.p., non essendo sufficiente ad integrarlo la mera possibilità di inserire la medesima espressione in due diversi contesti. Inoltre, nel caso di specie non sarebbe ravvisabile alcuna contraffazione del prodotto, poiché, come anticipato, è stato accertato che le fragole sequestrate appartenevano tutte alla varietà vegetale coltivata nel Metapontino. Peraltro, si è chiarito che la società Planitalia, pur avendo registrato il marchio “Candonga”, non è affatto legittimata ad impedire che altre società commercializzino prodotti della medesima varietà vegetale.

Infine, l’ordinanza parrebbe individuare nella promozione del giudizio da parte del presunto violato per l’illecito di cui all’art. 127 CPI (che dal 2009 non contempla più una fattispecie di reato, ma semplicemente un illecito amministrativo) l’unica possibilità che eventualmente la società Planitalia avrebbe avuto per agire in giudizio, al fine di tutelare il proprio patrimonio, nel caso in cui lo avesse ritenuto danneggiato dalla presenza della dicitura “Candonga” sulle fascette e sugli imballaggi delle fragole commercializzate dalla società romagnola. Del resto, l’art. 127 CPI al comma 3 contiene una clausola di sussidiarietà, “salvo che il fatto costituisca reato”, che appare sintomatica del fatto che essa tende a sanzionare quelle violazioni che non concretano una contraffazione piena (Cass. Pen., n. 23512 del 2009).

*Avvocato

30 novembre 2016

 

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