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“Il giusto rimedio contro le fake news”. L’intervento di Antonello Soro, Presidente del Garante per la protezione dei dati personali

Questo essenzialmente per due ragioni. La prima di natura economica, legata alla stessa struttura del capitalismo digitale. La pubblicazione delle fake news genera spesso profitti notevoli derivanti dallo sfruttamento economico dei banner pubblicitari collegati ai siti ospitanti le notizie false; profitti crescenti in ragione del numero di utenti collegati al sito stesso. In questo modo, dunque, la viralità della notizia alimenta il profitto ricavabile dalla sua stessa pubblicazione.
La seconda ragione ha radici più profonde, legate ai mutamenti antropologici determinati dalla rete. La retorica della disintermediazione ha favorito la polemica contro ogni idea di “verità” fornita dai media tradizionali, percepita come rappresentazione dominante, mistificante perché legittimata dal potere, dunque propaganda. I social assurgerebbero così a luoghi ove costruire una verità finalmente indipendente perché liberata dalla soggezione al potere, ove custodire l’autenticità contro l’ipocrisia del mainstream. Il tutto, aggravato dalla frammentazione dei centri d’informazione, che finisce con il determinare una sorta di autismo informativo: la tendenza cioè a informarsi soltanto da fonti inclini a confermarci nelle nostre pregresse convinzioni, ostacolando ogni possibilità di riscontro su false notizie o credenze.
Che fare? La scorciatoia tecnologica ovvero l’algoritmo in grado di depotenziare le notizie false ponendole in coda non potrà mai rappresentare una valida soluzione. Perché si alimenta della stessa logica viziata cui tenta di porre rimedio: la delega all’algoritmo di un’attività, quale il riscontro su fonti e notizie, che non può che essere umana e valutativa. L’automazione del riscontro fattuale contribuirebbe, infatti, a deprimere ulteriormente il già debole senso critico, senza cui non possiamo che condannarci al più assoluto relativismo.
L’assimilazione dei social a media company è questione delicata e controversa. È sicuramente opportuna una responsabilizzazione, in parte già in atto, dei big tech, rispetto all’uso distorto della rete che determini violazione della dignità. Ma un’estensione di tale sistema al campo delle fake news rischierebbe di degenerare in censura.
Per altro verso, la ricorrente tentazione del penale (incriminando la diffusione di notizie “false, esagerate o tendenziose” ) è altrettanto fuorviante. Non solo perché riduce un fenomeno così complesso a mera questione criminale, ma anche perché rende la magistratura un tribunale della verità, laddove in democrazia l’esattezza non è conseguibile altrimenti che con il pluralismo dialettico. E con il limite del rispetto dell’altrui dignità, assistito dalle norme (esse sì penali) su ingiuria, diffamazione, trattamento illecito di dati personali.
Queste fattispecie tracciano il confine al cui interno non può che residuare un’incomprimibile sfera di libera espressione, in cui dobbiamo saper accettare anche il rischio della falsità come controparte del pluralismo. “Costo” della democrazia? Certamente un dato con cui dobbiamo fare i conti, non tanto perché esiste il web ma perché non esistono organi certificatori della verità. Almeno da quando, con il pensiero moderno, essa da disvelamento, appunto, di un’essenza preesistente all’uomo, è apparsa essere, più modestamente, esattezza: risultato, cioè, di un’opera di falsificazione e riscontro; di confronto dialettico con l’altro esercitato con senso critico. Un’opera certamente più complessa e faticosa, da condurre all’insegna dell’etica del dubbio e del senso del limite, ma non sostituibile con alcun Tribunale della verità.
Fonte: La Repubblica, 8 marzo 2017