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La tassazione del reddito delle PMI rispetto alle grandi imprese

di Alessandra Taccone

Abstract: La teoria e la politica economica hanno da tempo dedicato significativa attenzione alle PMI, alle loro specificità e al loro ruolo nel sistema produttivo, distinguendole dalle imprese medio-grandi. Tuttavia, nella tradizione della Scienza delle Finanze, e della teoria della politica fiscale in particolare, si può dire che tale impostazione sia stata, prevalentemente, rovesciata. Il lavoro affronta il tema della tassazione delle piccole e medie imprese, con riguardo all’esperienza italiana, mettendo in evidenza come gli indirizzi evolutivi della politica tributaria – già a partire  dalla riforma fiscale del 1974 – escludendo dalle loro scelte il criterio dimensionale dell’impresa, abbiano storicamente determinato effetti distorsivi. In tal senso la previsione dell’utilizzo degli studi di settore nel procedimento di accertamento induttivo per le PMI ha  rappresentato un significativo cambiamento dell’indirizzo originario della riforma del ’74. Il lavoro esamina, inoltre, la problematica della neutralità della tassazione dei redditi di impresa nei confronti delle scelte finanziarie delle PMI, analizzando le agevolazioni fiscali introdotte nel nostro ordinamento aventi ad obiettivo il riequilibro del trattamento fiscale tra finanziamento con mezzi propri e finanziamento con mezzi di terzi: la Dual Income Tax e l’Aiuto alla crescita economica. Sommario: 1. La tassazione del reddito e le specificità delle PMI; 2. Il trattamento delle PMI nella tassazione del reddito in Italia; 2.1 La riforma tributaria del 1974 e la sua applicazione alle PMI; 2.2 Gli “studi di settore” e la definizione del reddito tassabile delle PMI; 3. La struttura della tassazione del reddito delle PMI rispetto alle imprese di grandi dimensioni. 1. La tassazione del reddito e le specificità delle PMI La teoria e la politica economica hanno da tempo dedicato significativa attenzione alle PMI [1], alle loro specificità e al loro ruolo nel sistema produttivo, distinguendole dalle imprese medio-grandi e, in epoca più recente, dalle grandi società multinazionali. Anzi, si può dire che tutta la costruzione teorica neoclassica e degli equilibri generali (con le loro proprietà ottimali) che hanno costituito il quadro prevalente di riferimento della teoria normativa e delle conseguenti prescrizioni di politica economica, ha implicitamente assunto a modello un mondo produttivo di PMI: perché ha assunto mercati perfettamente concorrenziali nei quali nessuna impresa abbia dimensioni dell’offerta tali da poter incidere sul prezzo di equilibrio del mercato. Le grandi imprese, tali da avere potere di mercato – quelle monopolistiche ed oligopolistiche – nella teoria economica tradizionale hanno rappresentato casi tipici di “fallimenti del mercato”, che richiederebbero interventi pubblici correttivi per ristabilire le condizioni paretiane di “first best” o almeno approssimarle con soluzioni di “second best”. L’apparato analitico costruito dalla teoria economica, e mutuato dalla teoria normativa della politica economica, è dunque sostanzialmente riferito a una PMI rappresentativa; mentre le imprese medio-grandi sono oggetto di studio specifico i cui risultati si cerca quindi di raccordare al modello concorrenziale atomistico di riferimento. Nella tradizione della Scienza delle Finanze, e della teoria della politica fiscale in particolare, si può dire che tale impostazione sia stata, prevalentemente, rovesciata. L’attenzione degli studi sulla tassazione del reddito di impresa è stata ben presto attratta dalla presenza, nel mondo produttivo, di imprese di medio-grandi dimensioni, sia per la maggiore complessità della determinazione teorica del reddito da esse prodotto nel periodo d’imposta (l’anno fiscale di norma coincidente con l’anno solare), sia perché la rilevanza pratica della ritenzione in esse degli utili pone problemi circa la loro imputazione alle persone fisiche dei contribuenti, sia perché la loro frequente conduzione in forma societaria solleva questioni circa la loro capacità contributiva. In effetti, già agli inizi del ‘900 si aprì un dibattito teorico, non ancora concluso, tra chi sostiene che le società hanno capacità contributiva autonoma rispetto alle capacità dei singoli soci (perché beneficiano della responsabilità limitata, del più facile accesso al mercato dei capitali, della libera circolazione delle quote ed azioni, e perché inoltre si caratterizzano spesso per la separazione tra proprietà e gestione); e chi invece sostiene che in ogni caso il risultato della loro attività è il reddito imponibile, e che quindi eventuali benefici connessi all’esercizio dell’impresa in forma societaria si traducono in maggiori redditi e perciò vengono catturati dalla sua tassazione, senza che si debba “sovraimporlo” con un’imposta societaria ad hoc. Nelle esperienze di quasi tutti i Paesi industrializzati, l’imposta societaria è stata effettivamente introdotta, non tanto per adesione alla tesi della capacità contributiva autonoma delle società, quanto perché tale imposta risulta strumento agevole per colpire fiscalmente gli utili trattenuti nell’impresa. Non si è ritenuto, infatti, che la tassazione dei guadagni di capitale delle azioni e quote, nei quali gli utili trattenuti dovrebbero infine manifestarsi, fosse strumento sufficiente (o sufficientemente preciso) per raggiungere fiscalmente gli utili trattenuti. Inoltre, non si è ritenuto che nei confronti delle imprese societarie potesse essere applicabile il metodo del “partnership approach”, con imputazione figurativa degli utili trattenuti ai soci ai fini della loro tassazione personale. L’introduzione dell’imposta societaria ha portato con sé accesi dibattiti sui metodi alternativi del suo coordinamento con l’imposizione personale dei soci, e le soluzioni adottate negli ordinamenti sono risultate, nel tempo, oscillanti. Ha prevalso, dapprima, la soluzione “classica” della doppia imposizione dei redditi netti societari (a livello societario e a quello personale del socio). Si è affermato successivamente il metodo dell’integrazione tra imposta societaria e imposta personale attraverso il “credito di imposta” (totale o parziale) in favore del socio percettore degli utili a valere sulla sua imposta personale. In epoca recente il metodo del “credito di imposta” ha ceduto il passo all’esenzione, totale o parziale, degli utili distribuiti dall’imposta personale del socio, oppure alla “cedolare secca” (sostitutiva dell’imposta personale) sugli utili distribuiti così da rendere la loro tassazione omogenea con quella delle altre rendite finanziarie (queste sempre più escluse, nelle politiche tributarie, dalla tassazione progressiva per essere assoggettate a tassazione cedolare proporzionale) [2]. L’aspetto analitico che qui si intende sottolineare è che l’introduzione dell’imposta societaria ha attratto gran parte dell’attenzione della teoria delle imposte allo studio dei comportamenti delle imprese medio-grandi. La teoria dell’incidenza, abbandonato il riferimento allo schema concorrenziale, ha ricercato le determinanti della formazione dei prezzi nei mercati imperfetti, in cui operano imprese “price-leaders”, in presenza del “costo fiscale” e delle sue variazioni. Più recentemente la teoria dell’incidenza ha riformulato molte conclusioni raggiunte in riferimento ad un’economia chiusa con lo studio della mobilità internazionale del capitale, finanziario e di impresa, in risposta ai differenziali fiscali tra Stati, ancora studiando, sostanzialmente, i comportamenti e le reazioni delle imprese multinazionali aventi elevate dimensioni e capacità di muoversi con una strategia internazionale. Uno degli aspetti più approfonditi e dibattuti, nella teoria (e con riflessi incisivi sulle concrete politiche tributarie) è quello degli effetti della tassazione dei redditi delle imprese sulle loro scelte di finanziamento tra forme alternative (autofinanziamento, indebitamento, capitale di rischio attinto dal mercato o immesso dai proprietari) utilizzando schemi di analisi e ipotesi comportamentali che sono tipicamente appropriati alla grande impresa societaria [3]. Nel fiorire del dibattito teorico e delle proposte operative sulla tassazione delle imprese societarie, aventi potere di mercato e capacità di attingere al mercato dei capitali, interno ed internazionale, il ruolo e le specificità delle PMI sono stati tenuti sostanzialmente in ombra. Nelle analisi teoriche i riferimenti (complessivamente infrequenti) alle PMI prendono la forma di qualificazioni e casi particolari, rispetto alle argomentazioni e alle conclusioni principali che sono sostanzialmente riferite alle medio-grandi imprese societarie [4]. La considerazione relativamente modesta, da parte della teoria, delle specificità di comportamento e quindi anche di reazione delle PMI alle variabili fiscali, rispetto ai comportamenti e alle reazioni delle società medio-grandi, ha inciso in maniera significativa e visibile sulle concrete politiche della tassazione dei redditi d’impresa adottate nei Paesi industrializzati. Nella gran parte degli ordinamenti, e certamente in quello italiano (come espresso nei paragrafi successivi), la struttura della tassazione del reddito di impresa, soprattutto dalla metà del ‘900, è stata pensata in relazione alla attività economica e finanziaria delle imprese medio-grandi (quasi tutte operanti in forma societaria). Pensando alle imprese medio-grandi si sono definiti i criteri definizionali del reddito imponibile, in ciascun periodo fiscale, gli obblighi contabili e documentali, i metodi dell’accertamento; si sono stabiliti, e variati nel tempo, sotto l’influsso del dibattito dottrinale, i metodi di integrazione tra tassazione societaria e quella personale, e i trattamenti dei redditi di capitale avendo particolare riguardo ai differenziali di trattamento tra capitale di rischio e capitale di debito. Infine, sotto la spinta delle analisi della mobilità dei capitali nella crescente internazionalizzazione delle economie, si sono disegnati modelli alternativi di tassazione del reddito – che sono stati studiati e centrati sulle realtà operative delle società di medio-grandi dimensioni (l’argomento è approfondito più sotto). Con processo analogo a quello che ha caratterizzato l’evoluzione della teoria della tassazione dei redditi di impresa, anche nelle politiche tributarie le scelte di fondo sono state prese, dunque, avendo a mente la medio-grande impresa societaria. Successivamente, la forza dei fatti (e le pressioni delle PMI a modificare alcuni aspetti della tassazione a loro relativamente sfavorevoli o inadatti) ha indotto i legislatori ad apportare modifiche legislative riservate alle imprese di minori dimensioni, sempre però nella logica del caso particolare e dell’eccezione alla regola generale, anziché come risultati di una razionale e strutturale considerazione d’insieme delle specificità economiche ed organizzative delle PMI. L’insufficiente attenzione della teoria e delle politiche tributarie all’economia e gestione delle PMI è stata aggravata dalla ricordata focalizzazione del dibattito sulla suddivisione tra forma societaria oppure personale della conduzione dell’impresa. Infatti, con l’introduzione dell’imposta societaria, essendo la forma giuridica societaria accessibile anche a imprese di modeste dimensioni, si è prodotta nella realtà una spaccatura di trattamento fiscale delle PMI tra quelle che hanno scelto – per motivi che, per rispettare l’efficienza del mercato, dovrebbero essere extra-fiscali – la forma societaria, e quelle che invece hanno preferito quella individuale o una delle forme delle società di persone. La non coincidenza del criterio dimensionale con quello della forma giuridica di conduzione dell’impresa ha determinato intuibili effetti economici distorsivi, prodotti dalle legislazioni (e dalle loro modifiche) che hanno assunto a riferimento il solo criterio della forma giuridica dell’impresa. Effetti distorsivi intuibili, poiché l’analisi economica ha abbondantemente mostrato che il fattore dimensionale è rilevante nel determinare comportamenti, reazioni, potenzialità dell’impresa: è sufficiente rinviare agli studi sulla particolare flessibilità produttiva, organizzativa e decisionale della PMI, sulla sua capacità di occupare “nicchie” anche nell’economia internazionale, di resistere pertanto, meglio di imprese più grandi, a shocks esterni (fluttuazioni della domanda, variazioni dei costi, ecc.). Per contro, le PMI sono maggiormente condizionate, rispetto a quelle medio-grandi, dalla capacità di autofinanziamento e (in alternativa) di indebitamento con il sistema bancario; hanno minore potere di manovra dei prezzi, e minore capacità di assorbimento rapido delle innovazioni tecnologiche più costose; si trovano a dover legare strettamente il patrimonio personale dell’imprenditore a quello societario; nell’internazionalizzazione, la loro eventuale decisione di muovere in altro Paese il capitale di impresa generalmente richiede l’abbandono dell’attività nel Paese di origine, causa l’indivisibilità, nelle PMI, del fattore imprenditoriale; gli effetti della tassazione e dei costi degli adempimenti fiscali sulla liquidità e sulla operatività della PMI si ripercuotono sulle sue decisioni economico-gestionali in misura fortemente ampliata che nel caso delle imprese medio-grandi. Pertanto i sistemi di tassazione e gli indirizzi evolutivi della politica tributaria, che escludono dalle loro scelte il criterio dimensionale dell’impresa (salvo particolari deroghe concepite nell’ottica dell’agevolazione) per fare invece riferimento esclusivo (o quasi) alla forma giuridica dell’impresa, e per imporre anche alle PMI i medesimi contenuti fiscali pensati in relazione all’operatività delle imprese medio-grandi, producono effetti economici distorsivi. Verificherò tale proposizione nei successivi paragrafi con riguardo all’esperienza italiana; essa peraltro conferma le preoccupazioni circa tali effetti distorsivi, poiché soprattutto negli ultimi anni il legislatore fiscale ha mostrato un inizio di nuova attenzione, benché con atti ancora limitati, alle specificità delle PMI rispetto alle imprese maggiori. 2. Il trattamento delle PMI nella tassazione del reddito in Italia 2.1 La riforma tributaria del 1974 e la sua applicazione alle PMI In Italia la riforma tributaria della prima metà degli anni ’70 ha, indubbiamente, adeguato il tradizionale sistema di tassazione diretta, centrato sulle imposte reali cedolari, ai sistemi oramai prevalenti nei Paesi industrializzati, centrati invece sull’imposizione personale del reddito con la distinzione dei contribuenti tra le persone fisiche e quelle giuridiche (società, escluse quelle di persone e assimilate). Che la riforma tributaria del tempo sia stata sostanzialmente pensata in relazione alle condizioni e all’operatività delle imprese societarie medio-grandi [5], emerge non solo dalla distinzione introdotta tra tassazione delle persone fisiche  e delle persone giuridiche – inizialmente con il metodo “classico” della doppia imposizione, che richiama la tesi della capacità contributiva autonoma societaria – ma anche, e soprattutto, dall’avere la riforma assunto a principi basilari della tassazione del reddito d’impresa il concetto del reddito effettivo, e la sua determinazione (ai fini fiscali) attraverso la regolamentazione apposita della contabilità d’impresa (appoggiata dai relativi obblighi documentali) ed il conseguente accertamento analitico. Con il senno di poi (l’avvertenza è necessaria, perché è da rendere il doveroso tributo storico al progresso culturale e di adeguamento ai Paesi avanzati compiuto dal legislatore della riforma), si può osservare che il legislatore della riforma non tenne in conto che la realtà delle PMI italiane, che costituiscono l’ossatura del nostro sistema produttivo ed occupazionale e sono essenziali nel settore-chiave delle esportazioni, avrebbe, nei fatti, ampiamente ricusato una nuova forma di tassazione del reddito che addossava ad esse nuovi e rilevanti costi di adempimento degli obblighi fiscali e imponeva ad esse una contabilità e obblighi documentali sentiti dall’impresa come una “sovrastruttura fiscale” [6] di costo, anziché come una componente intrinseca della gestione aziendale. Il risultato è sotto gli occhi dell’Amministrazione finanziaria, degli operatori, degli osservatori. Negli anni successivi all’introduzione della riforma, l’attenzione dell’Amministrazione, del legislatore, dell’opinione pubblica è stata polarizzata sul fenomeno dell’evasione agli obblighi fiscali presso le PMI (in questo accomunate a larghe fasce del lavoro autonomo) attraverso l’occultamento dei ricavi effettivi, il rigonfiamento artificioso dei costi, l’utilizzo distorto (elusione) di alcune norme tributarie. D’altra parte, è vero che l’ancoraggio della contabilità analitica al concetto di reddito imponibile “effettivo”, unito alla relativa scarsità di personale e di mezzi dell’Amministrazione nei compiti dell’accertamento della nuova tassazione personale (fisica o giuridica) di “massa”, hanno indotto non pochi contribuenti dell’universo delle PMI (e del lavoro autonomo) ad occultare realmente il reddito netto effettivo. Il processo si è autoalimentato, poiché la presenza di imprese che evadendo potevano abbassare i costi complessivi reali della loro attività, ha sollecitato altre imprese nella medesima direzione onde non soccombere alla concorrenza sui costi. Più in generale, la crescente consapevolezza, nella pubblica opinione, della rilevanza anche quantitativa del fenomeno dell’evasione presso le imprese e il lavoro autonomo, documentati (almeno in prima approssimazione) dai dati pubblicati tratti dalle dichiarazioni dei contribuenti di tali categorie, ha diffuso un sentimento di scarsa fiducia nell’“equità” del sistema fiscale (così come applicato), tale da generare ulteriori stimoli all’evasione ed elusione, ed istanze di riduzione della pressione tributaria legale (minori aliquote, maggiori detrazioni e deduzioni, ecc.) da parte dei contribuenti che non possono e non vogliono evadere o eludere. Le Autorità della politica tributaria (Governo e legislatore) hanno reagito a tale involuzione applicativa della riforma tributaria operando in diverse direzioni. La prima, tesa a ribadire e a rendere operative le disposizioni originarie e lo spirito della riforma tributaria del ’74, è consistita nell’introdurre obblighi documentali addizionali, nell’inasprire le sanzioni, nel razionalizzare l’attività di accertamento degli uffici cercando di concentrare le loro limitate risorse – rispetto a una platea di milioni di contribuenti – sui casi di dichiarazione del reddito effettivo che, alla luce di indicatori indiretti specificamente elaborati, facessero presumere una maggiore probabilità di inadempimento fiscale. Tale direzione di intervento, dunque, si è affidata all’aumento della capacità di controllo della veridicità del reddito effettivo dichiarato, e alla successiva coercizione e sanzione con il connesso “potere di minaccia”. Pertanto, essa ha mantenuto e anzi rafforzato le motivazioni del “dissenso” delle PMI verso un sistema di tassazione del loro reddito che, pensato in relazione alla differente realtà economico-finanziaria ed operativa delle grandi imprese, addossava alle PMI una sovrastruttura fiscale (contabile e documentale) costosa e intrinsecamente estranea alla loro realtà gestionale. D’altro lato le difficoltà evidenti, da parte delle Autorità, di realizzare, negli anni ’80 e ’90, gli obiettivi di accrescere sostanzialmente le capacità degli uffici di accertamento del reddito effettivo, facevano presumibilmente prevalere, presso gli imprenditori disponibili all’evasione, la previsione di alta probabilità dell’impunità (rafforzata dalla frequenza dei condoni) rispetto all’effetto deterrente delle minacce di rettifiche e sanzioni. Un corollario negativo di tale indirizzo di politica tributaria è stato, conseguentemente, l’innalzamento progressivo della pressione tributaria sui redditi d’impresa e societari [7], dovendo le Autorità rincorrere dal lato del gettito la dinamica, tendenzialmente più rapida del PIL, della spesa pubblica di parte corrente. Con tale politica, si è aggravato l’onere fiscale dei contribuenti che presentano dichiarazioni veritiere, approfondendo il divario di costo da un lato tra la loro attività e quella delle imprese dedite all’evasione, dall’altro lato tra la loro attività e quella delle imprese estere concorrenti nell’economia aperta (procedendo il processo di internazionalizzazione) e soggette, nei loro Paesi, a prelievo fiscale inferiore. Tale direzione di politica tributaria ha sollevato, anche nell’ambiente degli studiosi, prime critiche e prime riflessioni dubitative sull’opportunità delle scelte di fondo della riforma tributaria in merito alla tassazione dei redditi delle imprese in modo uniforme per ogni tipo e dimensione di impresa (reddito effettivo, contabilità analitica e connessa documentazione dettagliata, accertamenti sulle scritture contabili) [8]. Vi era la distinzione – non necessariamente dimensionale – tra imprese non societarie, per le quali è prevista l’imputazione ai soci dei redditi netti pro-quota ai fini della tassazione progressiva, e le imprese societarie, assoggettate all’IRPEG proporzionale e quindi a tassazione degli utili distribuiti nelle mani dei soci. Quest’ultima disposizione, invero, venne contestata in primis dalle grandi imprese societarie per l’aggravio che essa poneva sulla remunerazione degli azionisti e quindi sul finanziamento con capitale di rischio. Su di essa, in effetti, il legislatore intervenne più volte, dapprima alternando la doppia tassazione piena degli utili distribuiti con l’applicazione di una cedolare secca su di essa (sostitutiva dell’IRPEF) ed infine accedendo al sistema “francese” del credito d’imposta (gli sviluppi recenti sono considerati più sotto). Ma tali preoccupazioni del legislatore ancora si erano tradotte in provvedimenti rivolti sostanzialmente alle medio-grandi imprese societarie, sensibili al trattamento fiscale dei dividendi e alle condizioni del loro finanziamento con capitale di rischio attinto dal mercato. Paradossalmente (almeno sul piano logico) l’uniformità del trattamento previsto dalla riforma tributaria del ’74 nei confronti delle imprese, indipendentemente dalla dimensione (salvo la distinzione tra quelle societarie e non), si è incrinata nei fatti, non ancora di diritto, con le innovazioni legislative apportate negli anni ’80 e ’90 allo scopo di contrastare l’evasione agli obblighi di dichiarazione del reddito effettivo. Si riteneva l’evasione così estesa presso le PMI da essere incompatibile non solo con le esigenze di finanziamento della spesa pubblica, ma anche con l’“equità” rivendicata, in particolare, dai lavoratori dipendenti soggetti alle ritenute  del datore di lavoro. Si sono introdotti, con provvedimenti successivi nel tempo, indici di spesa e coefficienti presuntivi di reddito (1983), una misura forfettaria dei costi (1985), coefficienti presuntivi di reddito o di ricavi di operazioni imponibili (1989) e successive modifiche legislative), il contributo diretto lavorativo (“minimum tax”, 1991); fino all’introduzione dei “parametri per la determinazione presuntiva dei ricavi, dei compensi e del volume d’affari” (dal 1995) che dovevano espressamente preparare gli “studi di settore”. Con questi ultimi, il legislatore ha imboccato di fatto la strada verso una specifica e separata forma di tassazione del reddito delle PMI, rispetto alle altre imprese. Con i provvedimenti precedenti, invece, ancorché essi abbiano contribuito a portare il legislatore sulla strada di una disciplina fiscale diversa poiché concepita per la diversità delle PMI rispetto alle grandi imprese, tuttavia l’obiettivo del legislatore restava quello di rendere efficace l’accertamento del reddito effettivo. Infatti, il significato di tali provvedimenti era di permettere agli uffici dell’Amministrazione di rilevare eventuali discordanze tra le voci del bilancio fiscale (ricavi, costi, ecc.) dichiarate dal contribuente e quelle presunte in base all’applicazione dei coefficienti o parametri. Verificate tali discordanze, gli Uffici potevano procedere ad una forma di accertamento induttivo che (in particolare dall’introduzione dei “coefficienti presuntivi” nel 1989 di fatto determinava l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, che doveva dimostrare, nel caso dell’accertamento, la veridicità della sua dichiarazione nonostante che i valori dichiarati risultassero incompatibili con i coefficienti presuntivi. Si modificava, così, il metodo dell’accertamento del reddito effettivo, e si indeboliva il ruolo della contabilità fiscale obbligatoria che, contraddittoriamente, da un lato veniva rafforzata negli adempimenti e vincoli, dall’altro veniva resa superabile dall’accertamento di natura induttiva da parte degli uffici. Dunque, il reddito effettivo rimaneva come nozione unica di reddito imponibile, ma si modificavano il ruolo della contabilità fiscale e i criteri dell’accertamento; e, soprattutto, si introducevano e si rendevano rilevanti anche ai fini dell’accertamento i limiti dimensionali dell’impresa. Questo perché i coefficienti presuntivi, la minimum tax e i parametri per la determinazione presuntiva dei ricavi vennero stabiliti per le imprese che non superassero i limiti di ricavi previsti per la tenuta della contabilità semplificata e che, dal 1995, si avvalessero dell’opzione per tale contabilità, e avessero dichiarato ricavi non superiori ai 10 miliardi di lire. Si può vedere che il legislatore tributario intendeva con tali provvedimenti spingere anche le imprese di minori dimensioni verso il regime “ordinario” della contabilità prevista per le grandi imprese; e inoltre che intendeva contrastare le opportunità dell’evasione al reddito effettivo, nell’impossibilità degli Uffici di procedere a verifiche di “massa” delle dichiarazioni. Però, il criterio dimensionale, relativo alle imprese minori ammesse alla contabilità semplificata (e ulteriormente precisato nel limite dei 10 miliardi di lire di ricavi dichiarati) cominciava a divenire rilevante per la determinazione del reddito d’impresa. Invero, la definizione fiscale dell’“impresa minore” (e di quella “minima”) aveva caratterizzato una seconda direzione in cui si era mosso il legislatore  per attenuare l’uniformità del trattamento delle imprese previsto dalla riforma del ’74: l’agevolazione alle imprese piccole, la cui logica è quella dell’”eccezione” alla regola. La nozione di “piccola impresa” è da tempo presente nel Codice Civile (art. 2083) e in passato lo era nella legge fallimentare (R.D. 16.3.42, art. 1); ma non erano coincidenti le due definizioni [9]. Nella riforma tributaria del 1974, il legislatore tuttavia non recepisce la nozione di piccolo imprenditore ricavabile dalle norme civilistiche, ma preferisce stabilire un regime agevolato per le imprese che operano entro un determinato limite di ricavi, suddividendole tra le due categorie delle “imprese minori” e delle “imprese minime”. Per la prima categoria, l’agevolazione consiste in un regime contabile semplificato (che diviene successivamente condizione per l’applicazione dei coefficienti e parametri presuntivi, come sopra esposto); per la seconda (costituita da imprese individuali), nella riduzione degli adempimenti contabili e nella determinazione forfettaria dei costi (specifiche detrazioni forfettarie dal reddito sono state concesse anche a particolari categorie di imprese minori, tipicamente nella logica della agevolazione). Al nocciolo, due sono gli aspetti caratterizzanti le scelte agevolative relative al trattamento fiscale delle imprese minori. Il primo è quello quantitativo (l’ammontare dei ricavi e, per le imprese minori, i limiti di valore dei beni strumentali e dei compensi ai dipendenti in rapporto ai ricavi, e l’assenza di cessioni all’esportazione); il secondo è quello del riferimento all’impresa individuale, quindi anche alle società in nome collettivo, accomandita semplice e soggetti equiparati, ed enti non commerciali (i requisiti soggettivi dell’impresa minore). Pertanto, l’indirizzo agevolativo verso le imprese minori si è fermato (quanto agli obblighi contabili e ai metodi di accertamento) dinanzi alla distinzione tra le imprese gestite nella forma della società di capitali (o comunque soggette all’IRES) e le altre. Tuttavia, specifiche leggi di agevolazione degli anni ’70 riferite al debito d’imposta (soprattutto nella forma di credito di imposta e detrazioni di imposta) hanno utilizzato, per definire l’ambito dei benefici, una definizione di PMI tratta dalla disciplina della Comunità europea (oggi UE). La disciplina comunitaria [10] ha adottato come parametri di riferimento sia il fatturato, sia il numero dei dipendenti (congiuntamente al requisito di “indipendenza”, che prevede che il capitale o i diritti di voto non siano tenuti per il 25% da altre imprese non rientranti nella categoria  delle PMI); ed inoltre ha distinto la categoria delle “piccole” da quella delle “medie” imprese. Il legislatore italiano a partire dal 1997 ha uniformato sostanzialmente alla definizione comunitaria (D.M. 18 settembre 1997, 446/98, 448/99), quelle adottate nelle leggi di incentivazione aventi obiettivi di incremento occupazionale, di localizzazione territoriale, di agevolazione agli investimenti. Tirando le fila, il legislatore della riforma del ’74 e degli anni successivi ha, nella sostanza, mantenuto anche per le PMI i principi di fondo della tassazione di tutte le imprese: l’adozione del reddito effettivo come base imponibile e la distinzione tra persone fisiche e persone giuridiche (società non di persone). Ma, nella ricerca di strumenti appropriati di accertamento del reddito effettivo, per le imprese piccole ha modificato ed indebolito, nel tempo, il ruolo assegnato dalla riforma alla contabilità fiscale come base della determinazione e dell’accertamento del reddito effettivo. Nella definizione fiscale dell’impresa minore si è introdotto il criterio della dimensione dell’impresa; l’affidamento a tale criterio è stato rafforzato nelle leggi di incentivazione delle PMI che hanno tratto dalle nozioni comunitarie di piccola impresa e media, su parametri quantitativi di ricavi e di addetti. Sono stati questi i primi, ma importanti, passi della legislazione della tassazione del reddito verso il riconoscimento delle specificità economiche, finanziarie e gestionali delle PMI rispetto alle grandi imprese. Tale riconoscimento appare più esplicito, organico e promettente di futuri sviluppi, nel terzo indirizzo attuato dal legislatore – di fatto sul finire degli anni ’90 – con l’introduzione degli studi di settore. 2.2  Gli “studi di settore” e la definizione del reddito tassabile delle PMI La politica tributaria verso le PMI, dalla riforma del ’74 a tutti gli anni ’90, si può dire abbia evidenziato una contraddizione di fondo rispetto agli indirizzi programmatici della politica economica generale. Infatti, mentre nelle analisi e nella politica economica si sottolineavano l’importanza e l’essenzialità delle PMI nel tessuto produttivo italiano, sia nel profilo occupazionale, sia in quello della capacità di esportare in mercati sempre più aperti e competitivi, sia nel profilo della sua diffusione territoriale necessaria ad uno sviluppo geograficamente più equilibrato, d’altra parte nella politica tributaria le PMI erano considerate gli “avversari” principali dell’equità fiscale, ed era diffusa l’opinione che la politica nei loro confronti dovesse misurarsi esclusivamente (o quasi) sul terreno del recupero della materia imponibile evasa [11]. In effetti, è questo il clima culturale che ha fatto maturare, presso le forze politiche e quindi presso il legislatore, il progetto di fondare gli accertamenti dei redditi delle PMI sugli “studi di settore”. Questi sono stati preparati dai provvedimenti, ricordati al precedente paragrafo, attuati per rilevare discordanze tra i risultati presuntivi dell’impresa e quelli effettivamente dichiarati, così da superare la difesa legale della contabilità e addossare al contribuente l’onere della prova. Ma, tali provvedimenti hanno mostrato, nell’esperienza,  molteplici limiti: l’insufficiente organizzazione e adeguatezza degli uffici chiamati a gestirli; l’insufficiente o assente specificazione degli elementi esterni all’impresa (mercato, localizzazione, ecc.), sicché le presunzioni fondate sui dati d’impresa forniti dai dichiaranti non potevano bastare a identificare la effettiva capacità dell’impresa di produrre reddito imponibile; e, si deve aggiungere, i frequenti “condoni” (e attese di condoni) che hanno ridotto l’effetto sanzionatorio e deterrente dei provvedimenti medesimi. L’insoddisfazione verso i risultati degli indici, coefficienti e parametri per l’accertamento presuntivo ha motivato il legislatore ad orientarsi verso lo strumento degli “studi di settore”, già noto dalle esperienze di altri Paesi (Francia in particolare, ma anche Germania, Belgio ed altri). In questo senso l’adozione degli studi di settore può essere considerata una evoluzione delle scelte degli strumenti precedentemente adottati; ma, quel che rileva oggi, per le scelte odierne e le prospettive della politica tributaria verso le PMI, è che orientandosi verso gli studi di settore il legislatore tributario ha compiuto una svolta importante (più o meno consapevole, almeno agli inizi) della politica della tassazione delle PMI, rispetto alle altre maggiori imprese. Gli studi di settore [12] hanno superato il limite dei precedenti provvedimenti di stabilire i valori congrui dei ricavi sulla base dei dati contabili dichiarati dal contribuente, perché hanno incluso nelle stime dei valori di riferimento dati strutturali del mercato, dell’impresa, della localizzazione territoriale. Inoltre, la previsione della collaborazione delle associazioni di categoria (che è considerata essenziale nel sistema francese) ha reso più agevole la loro accettazione da parte delle imprese, e più trasparente e realistica l’elaborazione dei dati da parte dell’Amministrazione. Peraltro, il contenuto innovativo della legge introduttiva degli studi di settore (D.L. 331/1993) si esprime incisivamente nella disposizione di accertamenti induttivi “fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi… e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio delle specifiche attività svolte, ovvero degli studi di settore” (art. 62 sexies). Infatti, con la previsione dell’utilizzo degli studi di settore nel procedimento di accertamento induttivo, si sono fortemente ampliate le possibilità di rettifica delle dichiarazioni da parte degli Uffici. Questi possono, normativamente, disattendere le risultanze delle scritture contabili non solo quando la loro veridicità è messa in dubbio da contraddizioni e inesattezze inerenti alla contabilità, ma anche quando i dati della dichiarazione non risultino congrui con quelli ricavati dagli studi di settore. Nei fatti, per le PMI (nei limiti dimensionali sotto precisati) l’accertamento di tipo induttivo, ovvero fondato su elementi economico-gestionali indiretti ed estranei alla contabilità, è innalzato da metodo residuale ed eccezionale a metodo generale, al pari dell’accertamento analitico (le citate disposizioni del D.L. 331/1993 sull’utilizzo degli studi di settore nell’accertamento sono state ribadite dalla L. 146/1998). A tale proposito, vale ricordare che, nel corso degli anni si è consolidato un orientamento giurisprudenziale piuttosto “scettico” verso una determinazione della ricchezza non facilmente conciliabile con i criteri “analitico aziendali” [13]. Secondo consolidata giurisprudenza [14], infatti, pur rappresentando gli studi di settore indici rilevatori di possibili antinomie nel comportamento fiscale del contribuente, essi costituiscono una presunzione semplice che da sola non può realizzare motivazione fondante di un avviso di accertamento. In tale senso, è certamente da apprezzare il ruolo del contradditorio obbligatorio [15] nel corso del quale il contribuente e l’Ufficio dovranno provare rispettivamente la credibilità del risultato e l’inesattezza dello stesso attraverso la messa a disposizione di ulteriori elementi di persuasione. Tale nuovo schema, logico e organizzativo, dell’accertamento nei confronti dei redditi delle PMI rientranti nei limiti di ricavo prestabiliti per l’applicazione degli studi di settore, è stato completato (D.P.R. 195/1999) dall’introduzione dell’accertamento con adesione (c.d.“concordato”) e, ancor più di recente, dall’introduzione dell’istituto dell’adesione agli inviti al contradditorio [16]. E’ consentito al contribuente di adeguare spontaneamente i ricavi dichiarati a quelli risultanti dall’applicazione dello studio di settore, o in fase di contraddittorio con l’Ufficio ovvero, ancora prima, aderendo direttamente al contenuto dell’invito al contradditorio; e nel primo caso l’adeguamento in dichiarazione escluderebbe la successiva fase del contenzioso che si verrebbe ad instaurare  dinnanzi alle commissioni tributarie territorialmente competenti [17], nel secondo caso l’adesione all’invito al contradditorio precluderebbe gli ulteriori accertamenti basati sulle presunzioni semplici (di cui all’art. 39, primo comma, lett. d) del D.P.R. n. 600/1973) qualora l’ammontare delle attività non dichiarate, con un massimo di Euro 50.000, sia pari o inferiore al 40% dei ricavi o compensi definiti. Di recente sono intervenute alcune interessanti modifiche normative che hanno rafforzato l’idea secondo cui gli studi di settore possono svolgere un ruolo importante nel contrasto all’evasione fiscale per i contribuenti esercenti attività d’impresa (e/o di lavoro autonomo) provvedendo, nella sostanza, ad intensificare i poteri di accertamento dell’amministrazione finanziaria. In particolare, l’articolo 8 del D.L. n. 16 del 2012, modificando la precedente disposizione introdotta dal D.L. n. 98 del 2011 [18], ha previsto la possibilità per l’Agenzia delle entrate di ricorrere all’accertamento induttivo anche in caso di omessa presentazione dei modelli per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell’applicazione degli studi di settore e di indicazione di cause di esclusione o di inapplicabilità degli stessi non sussistenti [19]. A ciò si aggiunga che, ai sensi della medesima disposizione normativa, l’amministrazione finanziaria può procedere all’accertamento induttivo, altresì, nei casi in cui la compilazione infedele degli studi di settore determini uno scostamento superiore al quindici per cento, o comunque superiore a Euro 50.000, tra i ricavi stimati applicando gli studi di settore sulla base dei dati corretti e quelli stimati sulla base dei dati indicati in dichiarazione [20]. Ulteriori modifiche sul tema, operative già con riferimento al periodo d’imposta 2011, sono state introdotte dall’art. 10 del Decreto Salva Italia  (D.L. n. 201/2011) che da un lato ha previsto un regime premiale, subordinato all’assolvimento di determinati oneri, a partire dall’anno d’imposta 2013, per favorire la trasparenza tra fisco e contribuente, dall’altro ha definito alcune regole sull’accertamento dei contribuenti soggetti al regime di accertamento basato sugli studi di settore con riferimento alle dichiarazioni relative al periodo d’imposta 2011 e ai periodi d’imposta successivi. Le nuove regole sull’accertamento prevedono che per i contribuenti che dichiarano ricavi pari o superiori a quelli risultanti dall’applicazione degli studi sono preclusi gli accertamenti basati sulle presunzioni semplici mentre invece, per i contribuenti che dichiarano ricavi inferiori a quelli risultanti dall’applicazione degli studi settore e che risultino non coerenti con gli specifici indicatori previsti dai decreti di approvazione degli studi,è previsto che i controlli siano svolti prioritariamente con l’utilizzo dei poteri istruttori. In altri termini, nei riguardi di un contribuente soggetto a studi di settore con ricavi congrui e coerenti, l’amministrazione finanziaria non è legittimata a desumere l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate sulla base di presunzioni semplici anche se gravi, precise e concordanti. L’introduzione, nell’ordinamento, degli studi di settore come strumento innovativo di accertamento dei ricavi delle imprese piccole e come strumento di definizione, nei fatti, dell’imponibile e dell’imposta attraverso l’adesione ad esso del contribuente, segna dunque un significativo cambiamento dell’indirizzo originario della riforma del ’74, che era invece intesa alla disciplina uniforme della tassazione del reddito di tutte le imprese (salva la distinzione delle imprese societarie con personalità giuridica rispetto alle altre). Il cambiamento di indirizzo tocca il mondo delle PMI in quanto è legato al criterio dimensionale. Infatti, gli studi di settore si applicano alle imprese fino al limite superiore di ricavi dichiarati di Euro 5.164.569 annui (a partire dal 2008), esclusi quelli di natura finanziaria; mentre non si applicano ai contribuenti in regime forfettario e sostitutivo (piccole imprese esercenti attività considerate dagli studi di settore, ma che hanno ricavi inferiori ai limiti minimi per la loro applicazione). Attualmente, dunque, una parte importante delle PMI, definite secondo il criterio dimensionale (i ricavi), vive il rapporto tributario in modo significativamente differente da quello proprio delle medie-grandi imprese societarie, alle quali ancora si applicano i principi originari della riforma del ’74, ovvero l’accertamento del reddito effettivo ancorato alla contabilità fiscale. Invero, in punto di diritto rimane il principio che l’accertamento deve essere finalizzato all’individuazione del reddito effettivo . Ma, nella realtà operativa prevale il fatto che l’Amministrazione – le cui possibilità di verifica del reddito effettivo nei confronti di milioni di contribuenti sono assai limitate – con elevata probabilità emette gli accertamenti quando si verificano scostamenti rilevanti tra i ricavi dichiarati dal soggetto e quelli presunti sulla base degli studi di settore, anche senza ispezione in sede (innescando l’eventuale successivo contraddittorio). Il contribuente interessato sa che può prevenire l’azione accertatrice dell’Amministrazione adeguando i ricavi contabilizzati a quelli presunti in base allo studio di settore (non solo ai fini IRPEF, ma anche IVA e IRAP). Invero, nel contraddittorio con l’Amministrazione, qualora il contribuente non si adegui, vi è sostanzialmente inversione dell’onere della prova, a carico del contribuente che deve giustificare lo scostamento, salvo la possibilità di avviare la fase del contenzioso mediante la presentazione di ricorso alla competente Commissione tributaria. Posso ora proporre una valutazione di tale importante modifica, di fatto, alla costruzione logica unitaria della tassazione dei redditi delle imprese prevista dalla riforma del ’74. Una prima riflessione è che la proposta degli studi di settore è stata mutuata, in Italia, dalle precedenti esperienze di altri Paesi; ma tali esperienze si differenziano significativamente, a seconda che i risultati degli studi di settore costituiscano la base per la definizione dell’imponibile e dell’imposta, come è in Francia [21]; oppure che gli studi di settore siano considerati (come è in Germania e in Belgio) nei limiti dello strumento utile all’Amministrazione per concentrare le sue limitate forze negli accertamenti dei casi evidentemente “sospetti”, e al contribuente per orientare le sue dichiarazioni e prendere atto delle valutazioni “ufficiali” dell’attività del suo settore (talora formulate anche con il contributo dell’associazione della sua categoria). A tale riguardo, si deve osservare che il legislatore italiano si è mosso, negli anni passati, nella direzione della soluzione “francese”, ammettendo anche una forma di “concordato” dell’imponibile (quindi dell’imposta) tra Uffici e contribuente. Tuttavia, il legislatore ha mantenuto la preoccupazione verso l’ipotesi di rottura formale (sancita in legge) del principio della tassazione del reddito effettivo nei confronti delle imprese soggette agli studi di settore, e perciò non si è spinto ad adottare esplicitamente e formalmente la soluzione “francese”. Mi sembra, pertanto, che rimanga una zona d’ombra (scarsa trasparenza) nella tassazione del reddito delle PMI soggette agli studi di settore, poiché in punto di fatto esse contano di non subire accertamenti se si adeguano ai risultati degli studi di settore, ma in punto di diritto rimangono soggette a possibili (ancorché rari) accertamenti del loro reddito effettivo. Una seconda riflessione è che, rimanendo rilevante ai fini della tassazione la forma giuridica dell’impresa (ai fini dell’applicazione dell’imposta societaria, e delle norme del suo coordinamento con la tassazione dei redditi di capitale), la coesistenza della tassazione del reddito effettivo (principio generale) con forme di tassazione – di fatto – del reddito “normale”, può condizionare (distorcere) le scelte imprenditoriali sulla forma giuridica dell’impresa. Anche sotto questo profilo, una definizione esplicita (formale) e compiuta del campo di applicazione di eventuali ipotesi di tassazione del reddito normale potrebbe migliorare la funzionalità della tassazione del reddito delle imprese. In tal senso, le suddette disposizioni normative introdotte nel corso del 2012, volte a definire un regime premiale per il contribuente “diligente” (congruo e coerente con il relativo studio di settore), hanno di fatto ulteriormente allontanato la tassazione delle piccole e medie imprese da criteri impositivi basati sul reddito effettivo rendendola, al contrario, sempre più prossima a criteri su base  “normale”. Una terza riflessione riguarda gli effetti di tali recenti orientamenti innovativi della tassazione delle PMI (di parte di esse) rispetto agli obiettivi della politica tributaria. L’obiettivo principale (e dichiarato) di tali innovazioni è stato di migliorare la qualità e i risultati degli accertamenti, di spingere i contribuenti a dichiarazioni più veritiere, in sintesi di combattere e ridurre l’evasione. Anche le esperienze internazionali mostrano che a tale obiettivo gli strumenti adottati (in particolare gli studi di settore) sono appropriati [22]. La auspicabile conseguente riduzione delle evasioni, oltre a ridurre il fabbisogno finanziario dello Stato, migliorerebbe le valutazioni del sistema da parte delle altre categorie dei contribuenti (in particolare del lavoro dipendente soggetto alle ritenute del datore di lavoro), e darebbe un significativo contributo a costruire un corretto rapporto tra Amministrazione ed imprese, che è tradizionalmente fondato, invece, sulla reciproca sfiducia e quindi su comportamenti conflittuali anziché cooperativi (il coinvolgimento delle associazioni delle categorie produttive nella formazione degli studi di settore dovrebbe aggiungere motivi di fiducia del contribuente) [23]. Peraltro, un’avvertenza sull’utilizzo di tale strumento si impone. La teoria insegna che il “reddito normale” presenta vantaggi per la corretta (e meno costosa) gestione del rapporto tributario, e può anche incentivare la produttività dei contribuenti, a condizione che i valori determinati con tali studi siano rappresentativi della media dei risultati economici realizzati dai contribuenti del settore, ed inoltre dei risultati tendenziali del medio periodo (superando le oscillazioni cicliche annuali). Il pericolo è che le Autorità intendano, invece, utilizzare lo strumento in relazione ai loro fabbisogni contingenti di gettito o (peggio ancora) per rendere efficaci in termini di gettito le decisioni di aumento delle aliquote di legge.  Il pericolo, oggi certamente maggiore rispetto al periodo iniziale d’introduzione degli studi di settore, è che le Autorità preposte fissino i valori a livelli alti rispetto a quelli realmente rappresentativi, così da costringere le imprese ad adeguarsi rapidamente alle indicazioni degli studi di settore, in modo da “recuperare” velocemente la presunta evasione (anche pregressa). Ovvero, il pericolo (per lo Stato la tentazione) è che gli studi di settore siano utilizzati come strumento diretto di produzione di maggior gettito, mentre questo dovrebbe essere il risultato ultimo di un nuovo rapporto tra Amministrazione ed imprese fondato su analisi tecniche degli imponibili economici (analisi trasparenti e controllate anche dalle Associazioni di categoria), come tali suscettibili di essere largamente accettate anche nel mondo delle imprese. Le analisi tecniche sono infatti riferite alla determinazione, attraverso i ricavi, delle basi imponibili. La questione del livello della tassazione, che da un lato costituisce l’onere per le imprese e dall’altro la fonte del gettito per lo Stato, deve essere determinata – in un sistema corretto e trasparente – in sede di discussione delle aliquote; anche perché, seguendo tale corretta procedura si evitano (o almeno si attenuano) le tradizionali distorsioni a svantaggio dei contribuenti onesti. Per arrivare in Italia ad un sistema di tassazione del reddito delle PMI (soggette agli studi di settore) improntato a tali principi di correttezza e trasparenza – unici principi peraltro vincenti nel medio-lungo periodo – avvalendosi degli studi di settore, è auspicabile un maggiore coordinamento tra informazioni contabili e studi di settore tenendo ben a mente che a tal fine è necessario che gli studi medesimi siano maggiormente rispondenti alle caratteristiche proprie dell’attività svolta dalle imprese (nella pratica spesso infatti tale rispondenza non sussiste e di conseguenza lo studio di settore perde la sua efficacia) [24]. 3. La struttura della tassazione del reddito delle PMI rispetto alle imprese di grandi dimensioni I differenti criteri dell’accertamento rappresentano, nell’attuale ordinamento, la principale differenziazione di trattamento tributario delle PMI (per la precisione, della parte di esse soggette agli studi di settore) rispetto alle medio-grandi imprese. Ma essi non esauriscono la tematica della ricerca di soluzioni tributarie idonee alle particolari caratteristiche strutturali ed esigenze gestionali delle PMI, che non coincidono con quelle tipiche delle imprese maggiori. L’attuale struttura della tassazione, infatti, ed anche (in prospettiva soprattutto) le proposte europee ed interne di riforma di tale struttura, appaiono ancora sostanzialmente pensate per l’operatività della grande impresa societaria. In sintesi, la struttura della tassazione dei redditi di impresa poggia, come ho ricordato, sulla suddivisione tra imprese individuali e società di persone da un lato, delle società di capitali ed enti assimilati dall’altro. Si tratta, dunque, di una suddivisione che non fa riferimento ad un criterio economico, quale è la dimensione della produzione (ricavi), bensì alla scelta della forma giuridica dell’impresa. In forza di tale suddivisione, le imprese individuali e quelle esercitate da società di persone sono tassate in base al principio dell’imputazione del reddito all’imprenditore o a ciascun socio in proporzione alla sua quota di partecipazione agli utili ai fini dell’imposta personale progressiva (IRPEF). Invece, le società di capitali ed enti assimilati sono assoggettati ad una imposta proporzionale (IRES), assolta a livello societario; tale forma di imposizione apre le successive opzioni riguardanti la forma del suo coordinamento con la tassazione al livello dei soci e dei finanziatori con capitale dato a prestito. Negli anni recenti, la crescente internazionalizzazione delle economie e dei mercati finanziari, ed in essa la grande mobilità (per rapidità di tempi e relativa modestia dei suoi costi) del capitale finanziario, e anche (in misura minore) di quello di impresa, hanno messo in crisi non solo i sistemi di tassazione “classica” (somma dell’imposta societaria e di quella personale) ma anche quelli di integrazione tra imposta societaria e imposta personale attraverso il “credito di imposta”. Questo meccanismo, se attuato in misura piena, avrebbe permesso almeno alla quota di utili distribuiti di subire lo stesso trattamento di quelli delle imprese non societarie, imputati ai redditi personali dei soci (gli utili trattenuti sarebbero stati invece tassati all’aliquota proporzionale, relativamente favorevole per i contribuenti ad alto reddito e quindi soggetti ad alte aliquote marginali dell’IRPEF, relativamente sfavorevole ai soci con più modesto reddito complessivo). Ma, si è sopra detto, l’internazionalizzazione ha rivelato forti difficoltà a gestire il “credito di imposta” in presenza di soci non residenti e di soci residenti di imprese aventi sede in altri Paesi; inoltre, la mobilità internazionale del capitale in un clima di esistente o potenziale “concorrenza fiscale” tra Stati, ha introdotto nuove preoccupazioni (evitare il deflusso di capitali all’estero) presso i “policy makers” delle politiche tributarie [25]. La maggior parte dei Paesi europei si è orientata, pertanto, verso sistemi di esclusione degli utili distribuiti dall’imponibile dell’imposta personale progressiva dei percipienti (persone fisiche): scegliendo la strada dell’esenzione (totale o parziale) di tali utili dall’imposta personale progressiva, oppure quella della sostituzione di tale imposta con una cedolare secca (proporzionale). L’attuale ordinamento italiano ha scelto la prima strada per gli utili da partecipazioni qualificate (o percepiti da imprese individuali o società di persone); la seconda strada per gli utili distribuiti sulle altre partecipazioni (cedolare secca del 20% a partire dal primo gennaio 2012). Criteri analoghi, integrati dalle norme che prevedono requisiti per la “participation exemption”, sono seguiti per le plusvalenze azionarie. Dunque, il sistema di tassazione dei redditi di impresa a livello societario e a livello personale dei soci, si presenta articolato in forme del prelievo differenti, alle quali risultano difficilmente applicabili i principi basilari, elaborati dalla dottrina, dell’equità orizzontale e di quella verticale della tassazione. Scelta della forma giuridica dell’impresa, tipologia della partecipazione societaria e natura giuridica del percettore degli utili, distinzione tra utili trattenuti, utili distribuiti e plusvalenze sulle azioni, sono gli elementi che si intrecciano nel determinare la struttura effettiva del prelievo su ogni impresa e socio. L’elemento dimensionale dell’impresa è intrinsecamente presente, ma è oscurato dagli altri suindicati elementi presi in considerazione dalla legislazione fiscale. La valutazione della struttura del prelievo si complica quando si prende in esame anche la posizione fiscale dell’impresa che si finanzia indebitandosi, e del finanziatore che percepisce gli interessi. Nella tradizionale e consolidata definizione del reddito netto (utile) di impresa, gli interessi passivi sull’indebitamento costituiscono una voce di costo, ovvero una componente negativa del reddito netto imponibile. Al contrario, gli utili distribuiti al socio finanziatore con capitale di rischio sono parte del reddito netto tassabile. La deducibilità degli interessi passivi dal reddito di impresa ha sollevato la assai dibattuta questione, nella teoria e nei dibattiti di politica tributaria, sulla distorsione che la tassazione tradizionale dei redditi determinerebbe avvantaggiando il finanziamento con il capitale di debito rispetto a quello con il capitale di rischio. La distorsione si realizzerebbe perché si ipotizza che l’impresa debba garantire al finanziatore, sia esso apportatore di capitale di rischio sia di capitale di credito, un determinato rendimento netto di imposta, che può essere definito rendimento “normale” (in quanto ottenibile dal finanziatore su impieghi alternativi del risparmio, tenuto conto del diverso “premio” per il diverso rischio degli investimenti alternativi). Accogliendo tale impostazione – che è prevalente nella letteratura, in quanto fondata sul modello delle scelte razionali di portafoglio nel mercato dei capitali – la neutralità della tassazione verso le scelte della struttura finanziaria da parte delle imprese si otterrebbe soltanto se si tassassero gli utili “normali” distribuiti presso il socio (escludendo, attraverso il credito di imposta pieno o l’esenzione a livello societario, la tassazione di tali utili in capo alla società); e si tassassero nella stessa misura dei dividendi gli interessi attivi percepiti dal finanziatore. Alternativamente, dovrebbero essere resi indeducibili gli interessi passivi nella determinazione del reddito imponibile di impresa; e presso il finanziatore tassati in quanto interessi attivi come gli utili distribuiti. Tale impostazione circa la “neutralità” della tassazione dei redditi di impresa verso le scelte finanziarie ha influenzato, in alcuni Paesi, il legislatore fiscale: in Italia nel 1997 è stata introdotta una forma di Dual Income Tax (DIT) finalizzata esplicitamente ad attenuare (insieme all’inclusione degli oneri finanziari nell’imponibile IRAP) tale distorsione. Nel mio precedente lavoro [26] ho approfondito le motivazioni di tale soluzione e le sue potenzialità e limiti nel sistema italiano. Tra gli altri aspetti, ho sottolineato che lo schema logico delle scelte di portafoglio dell’investitore privato, che è indifferente rispetto all’impresa in cui investire, e se investire in capitale di rischio oppure di debito (purché gli sia offerto il rendimento “normale”, incluso il premio per il rischio) non è adattabile, né agevolmente né sempre, all’effettivo processo decisionale dei proprietari delle PMI. Infatti, i proprietari delle PMI (imprenditori individuali e loro familiari, o soci) nei fatti sono legati personalmente, con il loro patrimonio e con la loro posizione giuridica, all’andamento e agli esiti della loro impresa (la responsabilità limitata è una protezione giuridica assai fragile del patrimonio personale nel caso del fallimento – e quindi nel caso in cui un creditore minacci istanza di fallimento). Frequentemente i soci decidono il finanziamento in relazione al fabbisogno di impresa  che reputano necessario, anche se il mercato dei capitali offrisse loro opportunità di maggiore remunerazione netta su impieghi alternativi. D’altra parte, la prassi, richiesta dagli istituti bancari, dell’indebitamento garantito da fidejussione personale dei soci, loro familiari e/o terzi garanti, rende incerta e parzialmente arbitraria la distinzione, centrale nella teoria, tra capitale di rischio e capitale di debito [27]. Per queste ed altre ragioni, esposte nel mio precedente citato lavoro, non dovrebbe sorprendere il fatto che l’esperienza italiana della DIT sia stata preminentemente utilizzata dalle grandi società, soddisfatte del beneficio agevolativo concesso ad aumenti di capitale che, è lecito presumere, comunque erano stati decisi – per la rilevanza di tali atti nella strategia finanziaria, di bilancio e proprietaria della società – sostanzialmente per motivi extra-fiscali. Specularmente, l’agevolazione della DIT non parrebbe aver inciso significativamente sulle scelte delle PMI relative alla propria struttura di finanziamento. L’esperienza della DIT italiana è stata abbandonata a partire dal 2004; e, benché – prima della recente introduzione nel nostro ordinamento fiscale dell’aiuto alla crescita economica “ACE” di cui si dirà in seguito – ancora molti erano i sostenitori autorevoli della tesi dell’opportunità di una sua ripresa, neppure il ritorno al governo della coalizione politica che nel 1996-1997 aveva  introdotto la DIT, ha riportato tale esperienza nel programma governativo. D’altra parte, le organizzazioni imprenditoriali, inclusa quella rappresentativa delle imprese industriali medio-grandi (Confindustria) insistono oggi, come al tempo dell’introduzione della DIT, sull’esigenza – essenzialmente per ragioni di competitività internazionale – di ridurre il carico tributario e parafiscale complessivo su tutto il reddito e di tutte le imprese (incluse le PMI), piuttosto che ottenere un regime tributario agevolativo delle operazioni di aumento di capitale; e peraltro chiedono l’abolizione della tassazione degli oneri finanziari (che sono elementi tipici di costo) con l’IRAP. Invero, la DIT italiana appare essere una versione particolare, ovvero finalizzata ad un particolare obiettivo (agevolare fiscalmente la capitalizzazione delle imprese) di uno schema più generale di tassazione duale del reddito che, accantonando il principio tradizionale dell’equità orizzontale e rovesciando la tesi tradizionale della discriminazione qualitativa dei redditi che intendeva favorire quelli di lavoro, si propone invece di svincolare la tassazione del reddito del capitale da quella del reddito da lavoro in modo da poter privilegiare la prima. Questo schema, certamente assai innovativo della tradizione consolidata della Scienza delle Finanze, ha trovato concreta applicazione nei Paesi scandinavi che, negli anni ’90, hanno introdotto la DIT nordica, allo scopo di creare uno strumento fiscale idoneo a proteggere i loro sistemi nazionali dai pericoli di attrazione dei capitali (finanziari e reali) da parte dei Paesi che sottoponessero a minore pressione fiscale i redditi dei capitali, divenuti assai mobili internazionalmente. Nel mio precedente lavoro ho esaminato le basi teoriche e le caratteristiche applicative della “DIT nordica”; soprattutto perché autorevoli studiosi l’hanno proposta a “modello” di una futura tassazione armonizzata del reddito d’impresa da adottare nell’UE, così da superare l’ostacolo che l’odierna frammentazione tra gli Stati membri della legislazione fiscale in materia frappone alla attuazione effettiva del Mercato Unico interno. Nel mio lavoro, ho ricordato che l’esperienza della DIT nordica nei Paesi che l’hanno adottata ha rivelato problematiche di applicazione e di effetti soprattutto nei confronti delle PMI, dove è generalmente rilevante l’apporto del socio (imprenditore) all’attività dell’impresa (“soci attivi”). Il tema può essere approfondito anche alla luce della riforma norvegese della DIT attuata in quel Paese nel 2006. I problemi applicativi di tale imposta verso le piccole imprese hanno indotto la Norvegia a tale riforma che ha comportato, nella definizione data da uno dei maggiori studiosi della DIT, una “reinvenzione” della imposta stessa, un “cambiamento della filosofia sottostante alla DIT” [28]. Per inquadrare correttamente il tema, si deve ricordare che la premessa rimane l’assenza di efficaci e importanti accordi per il coordinamento fiscale internazionale, che siano tali da togliere forza alla “concorrenza fiscale” tra Stati e quindi alle convenienze a spostare capitali, attività e profitti di bilancio (“paper profits”) in risposta ai differenziali fiscali: la premessa è ancora oggi valida anche all’interno dell’UE. La conseguenza che si trae per la politica tributaria, è che in un’economia aperta ma relativamente piccola nel panorama internazionale (quale è oggi l’Italia), l’aliquota effettiva della tassazione dei redditi di impresa e di capitale deve essere completamente svincolata dalla struttura delle aliquote progressive delle imposte personali sul reddito così configurando una tassazione duale; ed inoltre che l’aliquota della tassazione dei redditi di capitale (incluso il capitale d’impresa) deve essere bassa rispetto alle aliquote marginali più elevate applicate ai redditi di lavoro. Questo schema di tassazione duale – ferme restando le osservazioni di carattere generale che già ho espresso nel precedente lavoro – solleva una questione di fondo riguardante le PMI con i soci attivi nella gestione (un caso diffuso specialmente in Italia, dove prevale la struttura dell’impresa familiare). Infatti, l’applicazione della DIT a tali imprese richiede che il reddito netto tassabile sia suddiviso nella componente reddito di capitale, calcolato come rendimento imputato al valore del capitale investito nell’impresa, e nella componente residuale di reddito soggetto all’imposta personale progressiva. Ma tale sistema non ha funzionato in modo soddisfacente, almeno in Norvegia [29], nei confronti delle PMI con i proprietari attivi nell’impresa. Nell’ordinamento di questo Paese, fino al 2005, il socio era considerato “attivo” e quindi soggetto alla suddivisione del reddito di impresa tra le due componenti (capitale e lavoro) se svolgeva nell’impresa una attività di lavoro anche limitata ma significativa e se controllava almeno i 2/3 delle quote (da solo o con il nucleo familiare). In relazione a tale struttura della DIT, molti proprietari imprenditori norvegesi evitavano la suddivisione del reddito prevista dalla legge facendo figurare soci “passivi” di comodo nella società in modo da ottenere che il reddito dell’impresa fosse tassato alla bassa aliquota (bassa in assoluto e relativamente al reddito di lavoro) applicata alla componente di capitale. Verificato che dal 1992 (data di introduzione della DIT) il numero delle PMI assoggettato alla suddivisione del reddito era andato continuamente diminuendo, il legislatore norvegese ha provveduto ad una riforma, in vigore dal 2006. Essa ha sostituito il sistema dell’“income splitting”  riferito ai soci attivi, rivelatosi problematico, con la nuova “imposta sul reddito del socio” (“shareholder income tax”). Si tratta di un’imposta personale, fondata sul principio della residenza, applicata alla parte del reddito realizzato dal socio sulle sue azioni (dividendi più guadagni di capitale) che eccede il tasso di interesse “risk-free”, netto da imposta, imputato al valore delle sue azioni. Il reddito in eccesso del rendimento figurativo “normale” è tassato come reddito personale. Pertanto, i soci-imprenditori non avranno incentivo a trasformare il reddito di lavoro effettivo in dividendi e guadagni di capitale, poiché al margine l’onere totale, dell’imposta societaria e di quella personale, sul reddito azionario sarà all’incirca uguale all’aliquota marginale più elevata sul reddito di lavoro. Il tasso di rendimento normale imputato alle azioni è garantito anche agli investitori in titoli stranieri. La differenza tra la DIT nordica così riformata e la sua versione originaria è evidente perché mentre la DIT precedente tassava l’intero rendimento attribuito al capitale come reddito di capitale soggetto alla corrispondente bassa aliquota, nella DIT riformata la bassa aliquota sul reddito di capitale si applica soltanto ad un tasso di interesse figurativo, che esclude il “premio per il rischio”, imputato al valore delle azioni, mentre tutto il reddito realizzato in eccesso a tale interesse figurativo è tassato all’aliquota marginale dell’imposta personale; ovvero, nella DIT riformata il “premio per il rischio” è tassato come fosse reddito guadagnato. Si osservi che se il reddito realizzato sulle azioni non raggiunge il reddito figurativo imputato al capitale in un anno fiscale, la parte non utilizzata del reddito figurativo può essere portata in avanti per la determinazione dell’imponibile nei successivi anni fiscali. Peraltro, per un Paese come l’Italia caratterizzato dalla estesa ed economicamente rilevante (anche nel profilo occupazionale) presenza delle PMI, e nel loro ambito dalla prevalente struttura familiare di impresa, mi sembra importante tenere nella dovuta considerazione tali esperienze problematiche della DIT nordica, e la conseguente suindicata riforma Norvegese, a fronte di autorevoli proposte di assumere la DIT nordica a modello della futura tassazione del reddito di impresa nella UE. Sulla scia della DIT, sempre in ottica di promuovere il rafforzamento patrimoniale delle imprese italiane (cronicamente sottocapitalizzate), il già citato Decreto Salva Italia, ha introdotto un’agevolazione fiscale denominata “Aiuto alla crescita economica (ACE)” volto a riequilibrare il trattamento fiscale tra imprese che si finanziano attraverso capitale di debito (ovvero capitale di terzi) e imprese che si finanziano mediante capitale di rischio (ovvero capitale proprio). In particolare, l’ACE prevede l’esclusione dalla base imponibile del reddito d’impresa del rendimento nozionale riferibile ai nuovi apporti di capitale di rischio e agli utili reinvestiti, secondo il modello cosiddetto Allowance for corporate equity [30]. Più nel dettaglio, a partire dal periodo d’imposta 2011, l’ACE si sostanzia in una variazione in diminuzione dal reddito d’impresa di un ammontare pari al 3 per cento [31] dell’incremento di capitale proprio rispetto a quello di riferimento alla chiusura dell’esercizio in corso al 31 dicembre 2010, rappresentato dal patrimonio netto di bilancio al netto dell’utile del medesimo esercizio [32]. Il nuovo capitale proprio rilevante ai fini dell’ACE non è una grandezza statica ma una grandezza dinamica che si modifica nell’ammontare cumulando, anno per anno, le variazioni in aumento e le variazioni in diminuzione rilevanti ai fini dell’agevolazione. Nella relazione illustrativa al decreto si legge che, in concreto, l’incremento di capitale proprio rilevante, esistente a chiusura di un esercizio, può essere determinato prendendo direttamente in considerazione gli elementi che concorrono a formarlo ossia gli accantonamenti di utili e gli apporti in denaro, da un lato, e le attribuzioni ai soci, dall’altro, senza alcuna rilevanza effettiva del dato concernente il capitale proprio esistente alla chiusura dell’esercizio in corso al 31 dicembre 2010 [33]. Alla luce di quanto sopra, appare evidente l’analogia della nuova agevolazione ACE con la vecchia DIT, entrambe finalizzate a contrastare la sottocapitalizzazione delle imprese italiane. Il sistema della Allowance for corporate equity, tuttavia, si differenzia dalla vecchia DIT in modo significativo per alcuni aspetti. Il principale elemento di discordanza tra le due agevolazioni è rappresentato dal meccanismo applicativo. La DIT agiva sull’aliquota proponendosi di premiare la capitalizzazione delle imprese assoggettando il rendimento figurativo dei nuovi apporti a tassazione con aliquota ridotta (pari al 19 per cento). L’obiettivo in tal senso era quello di rendere uguale il regime impositivo del capitale investito nell’impresa rispetto a quello destinato ad altri investimenti finanziari che per gli investitori scontavano (e scontano tutt’ora) una tassazione alla fonte con aliquota ridotta incentivando, in questo modo, l’investimento nel capitale di rischio delle imprese italiane. L’ACE opera attraverso un meccanismo più semplice ed immediato prevedendo la deduzione dalla base imponibile, rilevante ai fini IRES, del rendimento figurativo del nuovo capitale immesso nell’impresa. Il meccanismo applicativo in base al quale si determina tale agevolazione potrebbe, nel medio periodo, rivelarsi significativo in termini di risparmio di imposta dal momento che – differentemente da quanto avveniva con la DIT, il cui beneficio aveva carattere permanente –  con l’applicazione dell’ACE il nuovo capitale proprio continua a  produrre componenti figurative deducibili non solo nell’esercizio di formazione, ma anche negli esercizi successivi, fino a quando non sarà restituito ai soci, cumulandosi con quelli derivanti da eventuali ulteriori apporti effettuati nel passaggio da un esercizio all’altro e, dunque, su base incrementale [34]. E’ ancora presto per dire se tale agevolazione, contrariamente a quanto si è verificato per la DIT, riuscirà a sortire l’effetto voluto dal legislatore, ossia quello di aumentare la patrimonializzazione delle  imprese italiane rendendole maggiormente competitive nel contesto internazionale soprattutto guardando l’esperienza delle imprese francesi, britanniche e tedesche. Certo è che l’ACE si inserisce in un contesto normativo in cui il nuovo regime di deducibilità degli interessi passivi è non meno penalizzante del superato meccanismo della thin capitalization, specialmente in relazione alle PMI che pur non essendo soggette alla thin capitalization sono oggi soggette alle disposizioni sulla deducibilità degli interessi passivi di cui all’art. 96 del T.U.I.R.. Da ciò ne dovrebbe derivare una maggiore apertura da parte delle piccole e medie imprese italiane verso forme di finanziamento basate più sul capitale di rischio che sul capitale proprio, pur nella consapevolezza del legislatore della ormai consolidata riluttanza di molte imprese a diluire la proprietà permettendo l’ingresso di nuovi soci. Ad ogni modo, ragionando per il medio-lungo periodo, più aderenti alla realtà delle PMI italiane mi sembrano le proposte di introdurre forme di tassazione delle loro attività e di componenti rappresentative delle varie fasi del ciclo produttivo [35]; ma l’esame di tali proposte, che andrebbero approfondite e verificate su schemi articolati di imposizione, esula dal presente lavoro. Nel breve-medio periodo, parrebbe più razionale concentrare le limitate risorse del bilancio pubblico (avendo presente la necessità di ridurre il debito pubblico) su un programma di riduzione del carico fiscale complessivo sulle imprese, poiché esso pesa sulla loro competitività [36]. Per le PMI potrebbero essere, inoltre, opportunamente rivedute le norme sugli ammortamenti, concedendo loro maggiore flessibilità. I soci-imprenditori delle PMI lamentano, inoltre, l’insufficiente separazione tra patrimonio personale e patrimonio dell’impresa, che ha riflessi fiscali, nelle procedure concorsuali e nei trasferimenti aziendali. Unitamente alla questione dell’accertamento dei redditi delle PMI (di cui sopra), vi sono linee promettenti di studio di possibili innovazioni fiscali nei confronti delle PMI che la letteratura internazionale ed anche i lavori finalizzati all’armonizzazione tributaria nell’UE non hanno ancora affrontato con l’approfondimento che esse meriterebbero. _______ Note [*] Il presente saggio è stato preventivamente sottoposto a referaggio anonimo affidato ad un componente del Comitato di Referee secondo il Regolamento adottato da questa Rivista. [1] Nella attuale normativa italiana, che è stata resa conforme alle Raccomandazioni e ai Regolamenti della Commissione Europea, sono definite PMI le imprese che occupano meno di 250 addetti e hanno un fatturato annuo non superiore ai 50 milioni di euro oppure un totale di bilancio annuo non superiore a 43 milioni di euro. Nell’ambito delle PMI sono definite piccole imprese quelle che hanno meno di 50 occupati e un fatturato annuo oppure un totale di bilancio annuo non superiore ai 10 milioni di euro. Nelle analisi economico-finanziarie riferite alle PMI si assumono generalmente anche parametri qualitativi tipici di tale categoria di impresa: – in termini relativi, si assume che le PMI hanno dimensione contenuta rispetto ad altre imprese operanti nello stesso settore, nel mercato interno e/o in quello internazionale aperto; – si assume che le PMI hanno un vertice direzionale formato da una o pochissime persone; – si assume coincidenza tra la proprietà e il management, contatto personale tra il management e gli addetti, indipendenza dell’impresa da altre società e gruppi; – si presumono difficoltà di accesso diretto al mercato dei capitali, scarso potere contrattuale verso i soggetti economici esterni, e carenza di alcune specializzazioni (ad es. gestione della finanza aziendale) all’interno dell’impresa. Si precisa che in questo lavoro l’analisi è principalmente rivolta alle piccole imprese che effettivamente presentano tali caratteristiche qualitative, che si riscontrano anche presso alcune PMI di maggiori dimensioni, ma non presso tutte. [2] Su tali evoluzioni della tassazione societaria e della sua integrazione con quella personale e sul significato economico delle soluzioni alternative, cfr. il mio precedente studio: TACCONE (2005). [3] Cfr. TACCONE (2005), pp. 43 e ss.; pp. 63 e ss. [4] Cfr. ad esempio le note analisi di SÖRENSEN (1995) e FUEST-HUBER (2001) sulle fonti marginali di finanziamento delle imprese e quindi sugli effetti della tassazione sulle scelte imprenditoriali della struttura finanziaria. [5] Non è, forse, casuale che i “padri scientifici” della riforma, Visentini, Cosciani e i dirigenti dell’Assonime (l’Associazione delle società per azioni) fossero, direttamente o indirettamente, consulenti abituali di grandi società. [6] Cfr. INGROSSO-DI MAJO-JANIRI-PAZIENZA (2000), (a cura di), pp. 330 e ss. [7] Cfr. le stime dell’andamento delle aliquote medie nel periodo in CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA (2000), pp. 117 e ss. [8] Dubbi sull’opportunità di assoggettare le PMI alla disciplina del reddito di impresa e ai relativi criteri dell’accertamento, tipicamente attagliati alle grandi imprese, vennero espressi nei convegno organizzati alla fine degli anni ’70 e negli anni ’80 dall’Istituto di Finanza di Pavia; cfr. in particolare LONGOBARDI-VALIANI (1984). Cfr. inoltre FUA’-ROSINI (1985); PEDONE (1979). [9] Cfr. INGROSSO-DI MAJO-JANIRI-PAZIENZA (2000), (a cura di), pp. 2 e ss. [10] Si veda la nota 1. [11] La contraddizione non è, politicamente, di poco conto, poiché una delle possibili soluzioni ad essa consisterebbe nell’elevare il fenomeno delle evasioni ed elusioni a costituente intrinseca e necessaria della “forza competitiva” mostrata dalle PMI nei mercati internazionalmente aperti e nelle alterne vicende del ciclo economico. Benché nessuno, ovviamente, intenda sostenere pubblicamente tale tesi, vi sono segnali che parte almeno del mondo politico ed economico ritenga che le evasioni ed elusioni siano, in qualche misura, necessitate sia dall’elevatezza del carico fiscale e parafiscale complessivo di legge sulle imprese, sia dal clima di sfiducia degli Uffici fiscali nei confronti delle PMI; sicché il contribuente che dichiarasse tutto il suo reddito effettivo resterebbe comunque soggetto alla prassi degli uffici di pretendere sempre rettifiche in aumento del dichiarato. Pertanto, gli “studi di settore” rappresentano una effettiva svolta nella politica fiscale verso le PMI. [12] La prima introduzione degli “studi di settore” nell’ordinamento risale al D.L. 331/1993, convertito nella L. 427/1993, che prevedeva che gli appositi Uffici del Ministero delle Finanze, sentite le associazioni professionali e di categoria, elaborassero in relazione ai vari settori economici “appositi studi di settore al fine di rendere più efficace l’azione accertatrice e di consentire una più articolata determinazione dei coefficienti presuntivi”, di cui alla L. 154/1989. I termini per l’approvazione degli studi di settore sono slittati più volte, sino a che si è giunti ai primi decreti di approvazione del 1999, applicabili per il periodo d’imposta precedente all’anno di applicazione. [13] BIANCHI F., LUPI R. (2010) “Corte suprema e studi di settore: le ragioni della freddezza”, in Dialoghi Tributari, n. 3, p. 275 [14] Per tutte, si vedano le sentenze della Cassazione a Sezioni unite nn. 26635, 26636, 26637 e 26638 del 18 dicembre 2009 [15] L’art. 10, comma 3-bis, della legge 8 maggio 1998, n. 146 prevede, infatti, che gli uffici dell’Amministrazione finanziaria, prima della notifica degli accertamenti basati sugli studi di settore (articolo 62-sexies del Dl 331/1993 debbano sempre invitare il contribuente a comparire, ai sensi dell’articolo 5 del D.Lgs. 218/1997. [16] Il decreto “anticrisi” (articolo 27, comma 1, lettera b), del D.L. n. 185/2008), nel modificare la disciplina prevista all’articolo 5 del D.Lgs. n. 218/1997, ha aggiunto il comma 1-bis, con il quale è stato introdotto l’istituto della adesione ai contenuti e alle motivazioni dell’invito al contraddittorio emesso ai sensi del comma 1 dello stesso articolo. [17] In fase di contraddittorio, il contribuente,  illustra, agli Uffici dell’Amministrazione, le ragioni della discordanza dei valori dichiarati rispetto ai risultati dello studio di settore, , potendo provvedere a  modificare tali risultati. Nel caso in cui il contraddittorio non abbia sbocco in un “concordato”, il contribuente può impugnare l’accertamento presso le competenti Commissioni tributarie, che valuteranno gli elementi extra-contabili alla base dell’accertamento fondato sullo studio di settore. [18] L’art. 23, comma 28, lettera c), del D.L. 6 luglio 2011, n. 98 ha, infatti, aggiunto al secondo comma dell’art. 39 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, la lettera d-ter), in base alla quale l’Ufficio è legittimato a procedere ad accertamento con il metodo induttivo “quando viene rilevata l’omessa o infedle indicazione dei dati previsti nei modelli per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell’applicazione degli studi di settore, nonché l’indicazione di cause di esclusione o di inapplicabilità degli studi di settore non sussistenti. La presente disposizione si applica a condizione che siano irrogabili le sanzioni di cui al comma 2-bis dell’art. 1 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471. [19] Possibilità che nella previgente normativa (si veda la nota n. 18) era subordinata alla condizione che fossero irrogabili le sanzioni di cui al comma 2-bis dell’art. 1 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471. [20] Anche in questo caso  è stata eliminata la condizione di irrogazione delle sanzioni di cui al comma 2-bis dell’art. 1 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 (di cui alla nota 18). [21] Sull’esperienza francese della tassazione del reddito delle PMI cfr. VALIANI-LONGOBARDI (1984) e LONGOBARDI (1990). Cfr. inoltre LONGOBARDI-PASQUALE (2002). Sugli studi di settore cfr. LECCISOTTI (a cura di) (1990), che contiene studi di vari autori con diversa valutazione nei confronti del reddito normale. [22] Oltre al citato esempio della Francia, gli studi di settore sono stati applicati, sia per razionalizzare ed accrescere l’efficacia degli accertamenti, sia per orientare le dichiarazioni dei contribuenti, in Germania e Belgio; mentre in Inghilterra, Irlanda e Portogallo essi sono elaborati ed utilizzati come strumenti interni dell’Amministrazione, per guidare l’attività di controllo e verifica. [23] Osservano BOSI-GUERRA (2012, p.93) che “Il ricorso alla collaborazione delle categorie espone però l’operazione studi di settore al rischio di comportamenti corporativi che possono depotenziarne l’efficacia”. [24]  Osservano BIANCHI- LUPI (2010) che “c’è bisogno di un coordinamento tra autodeterminazione, che fa perno sull’intervento delle aziende, e richiesta delle imposte, ch deve avvenire per il tramite del fisco.….Il nostro sistema…passa troppo bruscamente dall’autodeterminazione all’intervento punitivo…” [25] Sulle ragioni della “crisi” del meccanismo del credito di imposta cfr. TACCONE (2005). [26] TACCONE (2005), op. cit. [27] L’indeducibilità, tradizionalmente piena, degli interessi passivi dal reddito di impresa può determinare scelte finanziarie motivate all’elusione: cfr. BOSI-GUERRA (2007, pp. 134-5). Allo scopo la “riforma Tremonti” ha introdotto un sistema di contrasto alla “thin capitalization” elusiva, le cui motivazioni e modalità e le conseguenti critiche sono state analizzate in TACCONE (2005, pp. 107-12). [28] SÖRENSEN (2006), p. 39-40. [29] Cfr. CHRISTIANSEN (2004); e cfr., anche per il confronto con le esperienze di Svezia e Finlandia LINDHE-SÖDERSTEN-ÖBERG (2004). [30] Modello così definito a livello internazionale, identificato con l’acronimo ACE, che, letteralmente, significa agevolazione in favore del capitale di rischio. [31] L’aliquota del 3% è in vigore per il primo triennio di applicazione; successivamente il rendimento nozionale del capitale proprio verrà determinato con apposito decreto. [32] A tale proposito è bene evidenziare che non tutti gli incrementi di capitale assumono rilievo. In via generale, risultano agevolabili i conferimenti in denaro (che rilevano alla data di versamento) e gli utili accantonati a riserva con esclusione della quota destinata a riserve non disponibili, che rilevano dall’inizio dell’esercizio in cui sono accantonati. Assumono rilevanza quali variazioni in diminuzione le riduzioni di patrimonio netto con attribuzione ai soci, a qualsiasi titolo effettuate, e gli acquisti di partecipazioni in società controllate. [33] Cfr. anche ISTITUTO DI RICERCA DEI DOTTORI COMMERCIALISTI E DEGLI ESPERTI CONTABILI,  “L’Aiuto alla crescita economica”, Circolare n. 28/IR del 29 marzo 2012, [34] ASSONIME, “La disciplina dell’ACE”, Circolare n. 17 del 7 giugno 2012. [35] Cfr., per l’Italia, le proposte di TREMONTI-VITALETTI (1994), pp. 119-122, TANZI (2002), pp. 26 e ss; 44 e ss; il mio sintetico commento in TACCONE (2005), pp. 124-5. e cfr. già FUA’-ROSINI (1985). [36] La ancora elevata progressività dell’imposta personale è un fattore che può avere effetti disincentivanti sulle attività dei soci e imprenditori delle piccole imprese; mentre il meccanismo della doppia tassazione dei redditi delle partecipazioni non qualificate aggiunge costi fiscali che appesantiscono la gestione dell’impresa societaria. Bibliografia AMBROSANIO M.F., BORDIGNON M., GALMARINI U., PANTEGHINI P. (1997), Lezioni di Teoria delle Imposte, Milano. ASSONIME, La disciplina dell’ACE, Circolare n. 17 del 7 giugno 2012. BIANCHI F., LUPI R. (2010), Corte suprema e studi di settore: le ragioni della freddezza, in Dialoghi Tributari, n. 3. BOSI R., GUERRA M.C. (2007), I tributi nell’Economia italiana, Il Mulino, Bologna. BOSI R., GUERRA M.C. (2011), I tributi nell’Economia italiana, Il Mulino, Bologna. CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA (2000), Previsioni dell’economia italiana. Benchmarking competitivo: redditività delle imprese e carico fiscale, dic., n. 2. CHRISTIANSEN V. 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