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Concorrenza nell’era digitale: alcuni spunti di riflessione. Intervista ad Alessandro Albanese Ginammi (ICI)

Alessandro Albanese Ginammi è presidente dell’Istituto per la Cultura dell’Innovazione (ICI).

Si discute moltissimo di dati e di big data, ma non tutti riescono a cogliere le differenze tra i due termini. Ci aiuta innanzitutto a fare un po’ di chiarezza?
La parola big data significa tutto e niente. La traduzione letterale – “grandi” o “tanti” dati – trasmette l’idea di una grande quantità, ma ci dice poco sulla qualità. Tra i giuristi e gli ingegneri informatici la definizione non è univoca, ma si è concordi sul fatto che la parola big data si riferisce più al trattamento che alla tipologia. Dunque, per parlare di big data non basta solo avere una grande quantità di informazioni (come per esempio anche l’INPS o l’Agenzia delle entrate hanno), ma servono anche gli strumenti tecnologici necessari per poterle gestire e analizzare.

Sono le Big Tech, tra cui Amazon, Facebook e Google, ad aver creato i big data circa dieci anni fa, quando tra le loro mani ci fu una sorprendente esplosione di dati capace di rivoluzionare l’intero settore. Fu impossibile ignorarli. Dati personali, generalità, contatti, numeri di telefono, indirizzi, documenti di identità, fotografie, video, spostamenti, itinerari, soste, numeri di carte di credito, acquisti, ricerche, commenti, mi piace e tante altre attività continuano a essere registrate in tempo reale su telefoni e computer, fornendo non solo statistiche interessanti quando queste informazioni vengono analizzate aggregate, ma anche quando si utilizza il dato individuale.

Cosa risponde a chi si preoccupa della profilazione su Internet?
Ascoltando recentemente, in varie manifestazioni, esponenti delle autorità antitrust e garanti della privacy italiani ed europei, ho imparato che i rapporti tra concorrenza e privacy non sono univoci: e cioè spesso meno privacy significa miglior consumer welfare, più concorrenza, prodotti migliori e prezzi bassi. Però mentre aumenta il consumer welfare del singolo, si rischia un impatto negativo sul social welfare, sulla privacy collettiva.

I modelli di business non vanno però demonizzati. Finché i dati vengono usati per scopi meramente commerciali, personalmente concordo che non ci sia ragione di preoccuparsi troppo. Le preoccupazioni sorgono invece in caso di utilizzi extra-commerciali.

La concorrenza nell’era digitale è stato il tema dominante dell’anno. L’Istituto per la Cultura dell’Innovazione se ne è occupato a lungo, anche commentando il report della DG Competition della Commissione europea. A quali conclusioni siete arrivati?
Intanto diamo alcuni dati di contesto. Nel 2018 ci sono stati 5,11 miliardi di utenti mobile al mondo, un incremento di oltre 100 milioni (+2%) rispetto al 2017. Ci sono stati 4,39 miliardi di utenti internet, cioè oltre 366 milioni in più (+9%). E ci sono stati 3,48 miliardi di utenti social, con un incremento di oltre 288 milioni (+9%). I dati provengono dall’ultima indagine We Are Social, e in sostanza ci dicono che il “mercato del web” è enorme. E che quindi è appetibile a molti.

Si è parlato, sia negli Stati Uniti che nell’Unione europea, di rischi e di pericoli per i consumatori, e di conseguenza anche degli urgenti interventi che le autorità di regolazione dovrebbero realizzare per limitare il potere di mercato delle Big Tech. Ma noi dell’Istituto per la Cultura dell’Innovazione pensiamo che si debba riflettere bene prima di agire. Abbiamo stilato una lista di cinque punti su cui riflettere.

Primo. Sebbene sia opportuno evitare i rischi dell’under-enforcement della legge antitrust nei mercati digitali, allo stesso tempo è anche auspicabile evitare casi di over-enforcement a discapito di quelle piattaforme digitali che intraprendono investimenti consistenti per innovare e per promuovere rapidamente il benessere dei consumatori. Gli ecosistemi digitali, poi, non dovrebbero essere visti come dei pericolosi buchi neri che intrappolano il consumatore. È preferibile dunque un’analisi equilibrata delle condotte commerciali di tutti i diversi attori, caso per caso, e a sostegno di un approccio promotore del benessere sociale.

Secondo. In riferimento alle grandi raccolte di dati personali, come ha sottolineato l’autorità garante, non sembra efficace utilizzare gli strumenti antitrust tradizionali, che ad esempio – come è stato suggerito – potrebbero comportare la messa a disposizione dei dati detenuti dal soggetto più forte a favore dei concorrenti. I dati personali “appartengono” infatti alla persona alla quale si riferiscono, che ha il diritto di controllarne liberamente l’utilizzo.

Terzo punto. Ad orientare le scelte deve essere, sempre e comunque, la qualità dei servizi. È importante che le autorità di regolazione ricordino i benefici apportati dalla digitalizzazione dell’economia, che invece vengono spesso dati per scontati.

Quarto. Il settore tecnologico è estremamente dinamico, tende ad evolvere velocemente. E i monopoli cambiano con la stessa velocità. Qualcuno si ricorda di Myspace? Fino ad una decina d’anni fa dominava il mercato dei social network, mentre oggi quasi non esiste più. Le attuali Big Tech hanno rafforzato la loro posizione da pochi anni, e non è detto che resteranno dominanti per sempre.

Quinto ed ultimo punto. Regole troppo stringenti e standard troppo elevati – per quanto riguarda ad esempio la gestione dei dati o il monitoraggio dei contenuti pubblicati sulle piattaforme – potrebbero paradossalmente avere l’effetto di rendere le Big Tech ancora più forti, invece che stimolare la concorrenza. Lo diceva anche l’Economist: il rispetto di queste regole potrebbe risultare talmente costoso che solo una manciata di aziende, quelle più grandi, potrà permetterselo.

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