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Intervista Prof. Valerio Pescatore su “Identità di genere ed auto-percezione di sé. Riflessioni a margine della legge tedesca sui «trattamenti di conversione»”

 

In occasione della pubblicazione del volume Identità di genere ed auto-percezione di sé. Riflessioni a margine della legge tedesca sui «trattamenti di conversione» la redazione di DIMT ha intervistato il Professor Avvocato Valerio Pescatore. Professore ordinario di Diritto privato presso l’Università degli Studi di Brescia, Dipartimento di Giurisprudenza. Già componente, quale Conciliatore, della Camera di Conciliazione e Arbitrato presso la CONSOB Commissione Nazionale per le Società e la Borsa. Dal 2014, componente del Collegio di Garanzia dello Sport del CONI Comitato Olimpico Nazionale Italiano (Terza Sezione), dal 14 aprile 2016 ammesso all’Albo degli Arbitri della Camera Arbitrale per i contratti pubblici presso l’ANAC Autorità Nazionale Anticorruzione,

 

il Professor Avvocato Valerio Pescatore

 

Professore, cosa sono, propriamente, i «trattamenti di conversione»? 

Per «Trattamenti di conversione» si intende ogni ‘pratica’ volta a modificare o, comunque, incidere sull’identità di genere e in generale sull’orientamento sessuale. Non vi sono definizioni precise, ed anzi con tale espressione ci si riferisce a pratiche assai varie: da quelle che prevedono interventi sul fisico, quali l’elettroshock o la somministrazione di farmaci, alle coercizioni psicologiche, variamente collegabili a dialoghi, incontri o consultazioni con guide religiose, o anche a sedute di psicoterapia, all’interno delle quali si discuta di esperienze legate all’orientamento sessuale, con l’obiettivo di convincere la persona coinvolta a mutare tale orientamento, conformandosi ad indicazioni altrui.

Anche in questa prospettiva, la legge tedesca, che ha costituito l’occasione degli studi raccolti in questo volume, fornisce indicazioni assai interessanti. La Relazione allegata all’originario disegno di legge (riprodotta in appendice al volume) precisa che la qualificazione di una pratica come «trattamento di conversione» non può che tenere conto delle caratteristiche peculiari del singolo caso; nella precisa consapevolezza, tuttavia, che non costituisce «trattamento di conversione» ciò che non si traduca in una pressione fisica o psicologica superiore ad una soglia di «normale tollerabilità», valicata la quale è ora possibile ravvisare i presupposti della neointrodotta responsabilità. Le condotte genericamente ricollegabili alla manifestazione di opinioni personali non possono dunque essere ricondotte alla disciplina in commento, che opera esclusivamente quando il trattamento eseguito sia, anche solo potenzialmente, idoneo a danneggiare l’integrità fisica o psicologica del soggetto che lo riceve. Il § 1 KonvBG, inoltre, esclude che possano essere qualificati «trattamenti di conversione» gli interventi che si rivolgono ai disturbi della sessualità riconosciuti a livello medico (quali esibizionismo, feticismo e pedofilia), nonché gli interventi chirurgici od ormonali finalizzati a consentire di esprimere l’identità sessuale autopercepita e a rispondere ai desideri sul punto espressi da colui che vi si sottopone. Si tratta di una limitazione all’ambito di operatività del divieto che risulta particolarmente problematica: perché suscettibile di consentire non solo l’esecuzione di trattamenti modificativi delle caratteristiche sessuali individuali in presenza di situazioni esistenziali (transessualismo) che già ne permettevano (in Germania, come anche in Italia) la realizzazione; ma perché, più ampiamente, tale impostazione potrebbe legittimare ogni trattamento diretto a garantire la piena emersione di percezioni non necessariamente stabili e definitive.

 

‘Trattamenti’, ‘pratiche’, farmaci, psicoterapia, ‘interventi’: è una materia assai delicata, che peraltro pare evocare una correlazione con la medicina. È così?

Sotto questo aspetto occorre essere estremamente chiari e precisi.

In effetti, in esperienze giuridiche straniere si ricorre ad espressioni che, in italiano, sarebbe più facile volgere in «terapie di conversione»: la parola «Behandlung» – utilizzata nella legge tedesca – può anche essere intesa in tal modo.

Tuttavia, il consapevole impiego, da parte mia e degli altri autori, della espressione «trattamenti di conversione» vuole dare conto, sia sul piano linguistico sia su quello giuridico, di una significativa conquista di civiltà medica: mi riferisco alla ‘depatologizzazione’ di omosessualità, transessualità e intersessualità. Superate, infatti, le ragioni che avevano indotto a considerare tali modi di essere vere e proprie malattie, sarebbe evidentemente irragionevole insistere nell’impiego di termini anche soltanto evocativi dell’idea che essi invece siano, o addirittura debbano essere, ‘curabili’. Il ricorso al termine «terapie», cioè, avrebbe rischiato di confondere, perché potrebbe portare a credere che i trattamenti in esame siano realizzati da personale medico. Essi provengono, invece, da soggetti privi di adeguata professionalità, e anche per questo motivo non riescono mai a produrre conseguenze corrispondenti alle intenzioni di chi li ha posti in essere, provocando al contrario, di frequente, danni in capo a chi li subisce. La formula «trattamenti di conversione», dunque, è sembrata maggiormente coerente con una nuova, più diffusa sensibilità, che prende atto dell’oggettiva impossibilità di curare quanto in realtà non costituisce una patologia.

 

Nel suo saggio, lei scrive che il legislatore tedesco ha legiferato su «un tema delicato» – è sufficiente sul punto ricordare il dibattito pubblico che ha coinvolto, in Italia, il ‘disegno di legge Zan’ – offrendo una lettura e una impostazione teorica scevri «da pregiudizi e preconcetti» e dal «dannoso paternalismo di certi interventi italiani ed europei». Quali sono i principali contenuti precettivi del provvedimento?

La normativa tedesca vieta i trattamenti di conversione su minori; ed anche sui maggiorenni che abbiano prestato un consenso viziato. La disciplina conserva dunque il potere individuale di scelta e di autodeterminazione sulla propria più matura identità sessuale. Il maggiorenne mantiene la possibilità di scegliere, in piena autonomia e in ogni momento, il proprio orientamento sessuale e, nel rispetto della più ampia libertà – di opinione, di espressione, di maturazione delle idee – può anche decidere di sottoporsi a pratiche inutili, o anche potenzialmente nocive, qualora egli lo desideri. E in ciò sta l’apprezzata astensione da ogni paternalismo. La finalità conservativa della libertà di autodeterminazione è a ben vedere evidente anche nei casi in cui il trattamento è vietato. Per il minore, in particolare, il legislatore ha opportunamente avvertito la necessità di preservare, in un soggetto non ancora maturo, la possibilità di scegliere. Il divieto che lo riguarda, cioè, intende conservare la potenzialità del minore di costruire liberamente il proprio futuro, rimandando ad una fase in cui sarà dotato di strumenti più adeguati di comprensione della realtà e di sé stesso, ed avrà quindi acquisito una maggiore consapevolezza, la possibilità di esercitare la propria libertà di autodeterminazione. Per il maggiorenne che abbia prestato un consenso viziato, invece, l’esigenza prioritaria sembra essere di natura informativa: egli deve liberamente decidere se sottoporsi al trattamento e deve dunque anzitutto essere consapevole del carattere non patologico della sua condizione e della conseguente improprietà di qualsiasi richiamo a «terapie» inidonee a garantirgli un effettivo benessere. In questa prospettiva, la conservazione dell’integrità della sfera di autonomia, valutativa e decisionale, mira evidentemente a proteggere un’identità in divenire: in tal senso, quindi, si può dire che la legge ha un fine strumentale e propedeutico all’esercizio pieno, da parte del cittadino, dei proprî diritti della personalità.

 

Perché reputa la legge tedesca così importante? Come spiegare ai nostri lettori l’accostamento, nel titolo del volume, di ‘identità’ e ‘auto-percezione’?

Questa disciplina tutela non solo un diritto all’autodeterminazione riferibile all’orientamento sessuale, ma, più ampiamente, la libertà di ciascun individuo di «trovare e riconoscere la propria identità di genere». Non si tratta, quindi, di un intervento normativo volto a proteggere, in via esclusiva, la salute fisica e psichica del soggetto che subisce i trattamenti.

La legge tedesca compie un passo inequivoco, e sistematicamente decisivo, nell’attribuzione di rilevanza positiva alla autopercezione del modo di essere del singolo. Sembra in qualche misura portare a compimento una parabola che trascorre dal diritto di essere visti dagli altri quali si è, al diritto del singolo, di ciascun singolo nella sua unicità, ad essere considerato come sente di essere. Se ‘di conversione’ è definito il trattamento che persegua l’obiettivo della modifica o della repressione di un orientamento sessuale e, più in generale, dell’identità di genere, la specificazione dell’aggettivo, che tale identità qualifica come ‘auto-percepita’, diviene decisiva. Tanto che il prefisso ‘auto-’, che compare nei §§ 1.(1) e 4.(1) della normativa tedesca, si scioglie poi, anche semanticamente, nella ‘identità sessuale percepita da una persona’ del § 1.(3): dove quella persona è, come ovvio, il titolare del diritto. Non si deve semplicisticamente concludere che, anche in questo modo, continua a rilevare la proiezione esterna della personalità. L’attenzione, infatti, è ormai spostata sulla sfera interna, cioè sul modo di essere del soggetto, il quale diviene l’unico legittimato a fissare il parametro alla stregua del quale valutare e stabilire se vi sia coerenza tra ciò che del singolo viene proiettato all’esterno – e così còlto nella dimensione sociale del suo essere – e ciò che il singolo davvero è.

Il mutamento potrebbe essere davvero epocale, e il riferimento all’identità di genere e sessuale rappresenta, con tutta probabilità, solo la prima manifestazione di un fenomeno ancora in larga parte inesplorato. Gli ultimi decenni, e in particolare quelli del nuovo millennio, hanno portato, proprio nella sfera della sessualità, una mutevolezza ed una fluidità che il secolo breve non aveva gli strumenti (sociali, culturali, in parte scientifici e psicologici, ma anche giuridici e amministrativi) per categorizzare in modo compiuto. La sfera della rappresentazione sociale, da cui l’identità proviene, è destinata a rimanere sullo sfondo del discorso.

Per quanto il mondo del diritto, per definizione, scandisca e definisca, vivendo di e nella oggettività, il giurista è oggi chiamato a superare la (legittima) aspirazione del soggetto ad essere considerato dagli altri quale egli sente di essere, e deve interrogarsi sulle caratteristiche di un diritto della persona ad essere ciò che sente di essere.

Se si ragiona d’identità, in altri termini, attribuendo rilevanza principale alla sfera interna – e dunque a quanto dipende dalle sensazioni individuali del titolare – è inevitabile affermare la centralità della scelta del singolo. Anche l’identità, così, diviene un «fatto di decisioni» del soggetto. L’ulteriore tappa di questo percorso, e i delicati problemi che essa pone al diritto, in specie al diritto civile, sono stati preannunciati dagli studiosi più sensibili e precursori: i corollari di un’impostazione incentrata sull’affermazione dell’autodeterminazione possono essere dirompenti.

Nel momento in cui il diritto all’identità viene fatto dipendere dalla scelta del singolo, e quindi dal suo più profondo sentire, l’ulteriore sviluppo del percorso si coglie considerando fisiologica la mutevolezza di quel sentire, e dunque delle convinzioni, delle opinioni e degli orientamenti personali, suscettibili di evolversi nel tempo. Sicché davvero l’identità diverrebbe «un processo» in continuo, ininterrotto divenire.

È chiaro che ad una simile ricostruzione si accompagnano tanti interrogativi, accomunati dalla necessità di verificare se davvero il diritto possa o debba inseguire tale mutevolezza, e di stabilire come esso possa farlo. Non mancano, come ovvio, posizioni assai più caute ed anche critiche: già densamente espresse nelle splendide riflessioni di Natalino Irti, apparse sull’ultimo numero del 2021 de La cultura, ed intitolate, in modo assai significativo, «Pirandellismo giuridico (variazioni sul tema)».

È evidente, dunque, che la ricerca interdisciplinare che ha portato all’elaborazione degli scritti raccolti nel volume da me curato mira ad offrire un primo catalogo di interrogativi, e ad indicare alcune provvisorie risposte. In definitiva, ad avviare una riflessione.

 

Crede che vi siano le condizioni perché anche in Italia sia introdotto un provvedimento normativo con la medesima ratio? E quali sarebbero le conseguenze applicative?

Sicuramente, negli ultimi anni, si è andata diffondendo, nella società e nella cultura dei Paesi europei, una sensibilità più attenta a questi temi. Come dimostra il fatto che il divieto di trattamenti di conversione su minori, già disciplinato a Malta in termini più sommari ed essenziali di quanto previsto in Germania, è stato introdotto proprio in questi giorni, il 25 gennaio 2022, anche in Francia. In Italia, tuttavia, il dibattito legato al menzionato d.d.l. Zan non giustifica un particolare ottimismo: perché il Parlamento, forse ancora più che i cittadini, pare non essere ancora pronto per assumere decisioni su tali materie.

Non si deve trascurare, peraltro, che l’assetto normativo oggi vigente in Italia potrebbe comunque già garantire alla vittima la possibilità di invocare un complesso di rimedi che non si esaurirebbe nella pura e semplice misura risarcitoria. Anche per questo, il nostro volume propone anche un’analisi di natura esclusivamente penalistica, oltre che scritti specificamente dedicati ad istituti – quali la decadenza dalla responsabilità genitoriale o l’illecito endofamiliare – senz’altro applicabili alla fattispecie. Con riferimento, tuttavia, a transessuali e intersessuali, l’introduzione di un provvedimento analogo a quelli tedesco e francese creerebbe delicati problemi di coordinamento con la prassi applicativa maturata in ordine alla l. 14 aprile 1982, n. 164, imponendo la necessità di un suo riesame e, con tutta probabilità, di una sua radicale modifica. Il problema, in ogni caso, è più ampio e riguarda l’idea stessa di identità messa, profondamente in discussione dalla nuova impostazione di cui abbiamo detto.

Ecco, di nuovo, perché il nostro volume vuole essere soltanto il primo momento di una riflessione più ampia ed articolata, che provi proprio ad interrogarsi sull’attuale significato giuridico del concetto di identità personale.   

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