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Dalle cellule staminali embrionali alla pluripotenza indotta: una nuova frontiera per una biotecnologia dal volto umano

di Mario Ganau, Lara Prisco

Da tempo, ormai, si assiste ad un acceso dibattito sull’impiego delle cellule staminali, particolarmente su quelle embrionali. La confusione su questo argomento e soprattutto sulle sue applicazioni cliniche è palese. Di recente, gli scienziati sono per la prima volta riusciti a riprogrammare cellule di pazienti ormai anziani, riportandole ad una fase di “pluripotenza indotta” e dimostrando che l’invecchiamento non è un processo irreversibile, almeno dal punto di vista puramente cellulare.
Il gruppo di ricerca che si è reso protagonista di questa importante scoperta proviene dall’Istituto di Genomica dell’Università di Montpellier. Gli articoli scientifici prodotti dal gruppo transalpino dimostrano inequivocabilmente quanto questa scoperta rappresenti una svolta epocale nell’interpretazione dei meccanismi cellulari che regolano l’invecchiamento, l’apoptosi e la degenerazione neoplastica.
Sebbene tutti noi siamo sempre stati abituati a pensare alla differenziazione cellulare come un processo progressivo, il lavoro appena pubblicato su Genes and Development ha dimostrato come anche cellule non solo differenziate, ma addirittura prelevate da pazienti geriatrici, possano regredire ad uno stato di pluripotenza; tutto questo grazie ad un processo di reingegnerizzazione con l’inserimento nel loro genoma di un apposito “cocktail genico”, composto da sei specifici geni che, adeguatamente manipolati, hanno permesso agli scienziati francesi di riportare sperimentalmente le cellule verso la fase S (replicazione) del loro ciclo cellulare.
Le cellule staminali pluripotenti indotte rappresentano una sfida ambiziosa per la comunità scientifica, perché alimentano la speranza di risolvere le problematiche etiche e tecniche che l’uso delle cellule staminali embrionali ha da sempre posto. Sebbene già i primi lavori del gruppo giapponese diretto dal Prof. Yamakanaka avessero gettato le basi per riuscire a fare regredire le cellule specializzate verso uno stadio piú immaturo, finora ció era stato possibile solo partendo da cellule giovani prelevate da donatori adulti. Cosí, già dallo scorso decennio numerosi laboratori erano riusciti nell’intento di fare regredire ad uno stato di pluripotenza delle cellule mature quali i fibroblasti (cellule del tessuto connettivo) prelevati da giovani donatori. Il limite invalicabile era peró costituito dai processi che regolano le varie fasi di replicazione del materiale genetico e di invecchiamento cellulare. Oggi, per la prima volta, questa barriera viene abbattuta riuscendo a fare regredire verso la pluripotenza anche cellule prelevate da pazienti ultracentenari. Ciò dimostra che finalmente l’età della cellula e del suo donatore non sono piú un limite sul piano sia teorico che pratico, ma soprattutto fa presupporre che a breve sarà possibile intervenire su qualsiasi aspetto genico di differenziazione e regressione cellulare.
Non solo, il protocollo sperimentale appena descritto ha anche chiarito meglio quali siano i meccanismi non genetici che contribuiscono all’invecchiamento delle cellule. Questo processo è infatti causato da diversi stress cellulari che risultano in specifiche lesioni a carico del genoma, con la conseguente attivazione di risposte a catena in cui il diverso ruolo svolto dalla cromatina e dalla duplicazione del DNA non era mai stato del tutto chiarito. Per la prima volta, lo studio francese ha suggerito che il processo d’invecchiamento può verificarsi indipendentemente dall’attivazione dei geni proapoptotici (quali p53, p21 e p16), la cui alterazione gioca un ruolo cruciale nella trasformazione neoplastica, mostrando finalmente un meccanismo cromatina-dipendente d’invecchiamento che potrebbe a sua volta essere sfruttato nella lotta ai tumori. In futuro, ció potrebbe aprire nuove strade alla farmacogenomica, poiché sarebbe possibile indurre la morte delle cellule neoplastiche senza dover altresì causare ulteriori danni al loro patrimonio genetico.
Oltre alle tematiche tumorali, per le quali sono prevedibili tempi più lunghi, all’atto pratico il risvolto clinico di tali esperimenti laboratoristici potrebbe giungere nell’arco di un decennio circa, aprendo nuove prospettive non solo per il trattamento di patologie degenerative quali l’Alzheimer o il Parkinson, ma anche per la produzione artificiale di tessuti autologhi (sangue, midollo osseo, etc.) impiegabili in trapiantologia.
Se tutto ciò attualmente appare ancora abbastanza di là da venire, fin d’ora si rilevano però le relative – importanti – implicazioni filosofiche e bioetiche. In particolare questi progressi scientifici, che rappresentano per il settore biomedico un passaggio epocale, da un lato potrebbero consentire di bypassare il dilemma posto dall’impiego nella ricerca scientifica di cellule staminali di origine embrionale, che finora ha interpellato duramente la coscienza e la responsabilità del legislatore, della giurisprudenza e degli studiosi; dall’altro, l’abbattimento del processo di invecchiamento cellulare comporta evidentemente ulteriori importanti implicazioni filosofiche e bioetiche. Infatti, l’acquisizione delle competenze necessarie per realizzare artificialmente “pezzi di ricambio” autologhi, e quindi privi di immunogenicità, significa non solo poter offrire una risposta ai tanti pazienti in attesa di trapianto, ma soprattutto – “a monte” – aver in prima istanza inquadrato tali competenze sia sul piano scientifico che su quello giuridico.
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