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La disciplina dei prezzi predatori dal Trattato C.E.C.A. all’art. 102 T.F.U.E.

di Rosetta Surdo

Abstract Predatory pricing is, under Article 102 TFEU, one of the most complex and ambiguous form of abuse of dominant position centered on the prices of products or services. In general terms, prices are called predatory whenever, ranking below the costs necessary to make or sale products or services, do not provide to the company any margin of profit or, even, are likely to procure it losses, with the aim to foreclose markets to actual or potential competitors. In Europe, because of the absence of a precise definition of predatory pricing in the competitive law, the contribution of the Court of Justice has been very important. The Court, often called to decide on matters of great importance for companies and on the interpretation of competition law, has come to the identification of a predatory test focused on comparing price / cost and on the company’s intent. The objective of this study is therefore to analyze the evolution of the European legal framework for predatory pricing, highlighting the positive aspects, but also the inconsistencies that emerge.
Sommario: 1. Premessa; 1.1. Il Trattato C.E.C.A.; 1.2. Il Trattato C.E.E.; 1.3. L’interpretazione estensiva dell’abuso di posizione dominante; 2. Le decisioni comunitarie in materia di predatory pricing¸Il caso AKZO; 2.1. La sentenza della Corte di giustizia nel caso Akzo; 3. Altre decisioni fondate sul raffronto tra prezzi e costi: Tetra Pak II, British Sugar e BPB Industries; 3.1. Il caso France Télécom e il definitivo rigetto del recoupment test; 3.2. I rilievi della WIN; 3.3. Le decisioni delle Corti nel caso France Télécom; 4. L’intento escludente e la discriminazione di prezzo: i casi Meldoc e Compagnie Marittime Belghe; 5. Sintesi dei criteri di valutazione del predatory pricing.

1. Premessa
La condotta predatoria rientra tra gli abusi escludenti non espressamente previsti dall’elencazione della disciplina comunitaria né di quella nazionale. La pratica rappresenta, dunque, il frutto di una lunga e complessa elaborazione giurisprudenziale e dottrinale che ha consentito di individuare i presupposti e i criteri economici per un suo, non sempre agevole, riscontro. Analizziamo brevemente l’evoluzione normativa comunitaria della strategia ai fini di una migliore comprensione della stessa.
1.1 Il Trattato C.E.C.A. In ambito comunitario il predatory pricing compariva per la prima volta nel Trattato che istituiva, nel 1951, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio. La disciplina del Trattato s’incentrava sostanzialmente sugli articoli 65 e 66, che regolavano rispettivamente le intese e le concentrazioni. L’articolo 66, n. 7, prevedeva invece una disciplina in tema di imprese in posizione dominante [1]. Nel testo dell’articolo si ritrovava una definizione, seppur sommaria, della posizione dominante (la posizione, cioè, che sottrae l’impresa «a una concorrenza effettiva in una parte importante del mercato comune»), mentre risultava estremamente generica la nozione di abuso quale utilizzo della posizione stessa «a scopi contrari agli obiettivi del presente Trattato». È certo, comunque, che l’estrema genericità del dispositivo contenuto nell’articolo 66, n. 7 lasciasse agli Organi comunitari un ampio potere discrezionale nella precisazione degli obiettivi e dei parametri in virtù dei quali si sarebbe dovuta giudicare ogni azione intrapresa da imprese in posizione dominante. Oltre all’attività posta in essere da una singola impresa, la normativa trovava applicazione anche nell’ipotesi di abusi attuati da concentrazioni in precedenza autorizzate in conformità a valutazioni rivelatesi a posteriori erronee. All’articolo 60, contenuto nel capitolo V del Trattato (60-64), vi si trovavano invece disposizioni, per la regolamentazione dell’attività delle imprese operanti nel mercato carbosiderurgico, che si riferivano al meccanismo di formazione dei prezzi disponendo, in particolare, il divieto delle pratiche discriminatorie e la fissazione di listini dei prezzi. Quanto alle pratiche discriminatorie l’articolo 60. n. 1 così stabiliva: «Sono proibite in materia di prezzi le pratiche contrarie agli artt. 2, 3, 4, e in particolare: Le pratiche di concorrenza sleale, specialmente i ribassi di prezzi puramente temporanei o puramente locali, tendenti, all’interno del mercato comune, all’acquisizione di una posizione di monopolio…[…]». L’articolo, dunque, menzionava espressamente il predatory pricing quale pratica anticoncorrenziale. Il vecchio sistema introdotto dal Trattato C.E.C.A., in tema di concorrenza, era piuttosto completo, poiché riservava agli Organismi comunitari la competenza esclusiva sulla messa in opera dei divieti e delle autorizzazioni e l’irrogazione delle relative sanzioni. L’illustrazione della disciplina in tema di concorrenza/abuso introdotta dal Trattato carbosiderurgico costituisce l’antecedente logico, oltre che cronologico, a un’analisi delle importanti regole contenute, sempre in materia di concorrenza, nel Trattato istitutivo della C.E.E. [2].
1.2 Il Trattato C.E.E. Le regole del Trattato C.E.E. (stipulato a Roma il 25 marzo 1957) s’inserivano nel più ampio contesto della Comunità Economica Europea, cui il Trattato stesso aveva dato vita. Contesto, dunque, di maggiori vedute all’interno del quale si gettavano le basi per un’integrazione economica di portata generale e non più limitata a settori particolari. Scopo della Comunità Economica era di «promuovere mediante l’instaurazione di un mercato comune il graduale ravvicinamento delle politiche economiche degli Stati membri, uno sviluppo armonioso delle attività economiche nell’insieme della Comunità, un’espansione continua ed equilibrata, una stabilità accresciuta, un miglioramento sempre più rapido del tenore di vita e più strette relazioni tra gli stati che a essa partecipano» (art. 2) Per contro, però, il Trattato C.E.E. all’articolo 86 relativo all’abuso di posizione dominante, successivo art. 82 T.C.E., non forniva alcuna definizione idonea a individuare l’impresa dominante ed era invece molto dettagliata l’esemplificazione delle pratiche che costituivano lo sfruttamento abusivo. Sembrava pertanto ignorare la pratica di predatory pricing.
1.3 L’interpretazione estensiva dell’abuso di posizione dominante La portata dell’articolo 86 non ha però soddisfatto gli interpreti, che hanno con vigore ampliato l’ambito d’intervento della disposizione ricomprendendovi anche i comportamenti escludenti e predatori. Importante è stato l’iter che ha condotto all’accoglimento dell’interpretazione estensiva, ormai indiscussa, e alla conseguente elaborazione della figura dell’abuso anticoncorrenziale. Sembrava poco plausibile che classici comportamenti anticoncorrenziali potessero essere tralasciati dall’applicazione della disciplina comunitaria. La Commissione accolse tale indirizzo nel “Memorandum sulle concentrazioni” [3]. Nel documento l’Organo antitrust comunitario rilevò la volontà di considerare abusivo ogni «comportamento contrario alla realizzazione degli obiettivi fissati dal Trattato», ricomprendendovi le pratiche con effetti negativi nei confronti «dei concorrenti attuali, dei concorrenti potenziali, nonché dei fornitori e degli utilizzatori». La Commissione proseguiva rilevando come: «lo stesso art. 86 enumera in modo non esauriente alcuni esempi di tali pratiche abusive. A tali esempi si potrebbe aggiungere innanzitutto una concorrenza di prezzi destinata a eliminare dal mercato un concorrente che non disponga degli stessi mezzi finanziari per sostenere a lungo vendite al di sotto del prezzo di costo». Si arrivò così al riconoscimento dell’abuso di esclusione (o d’impedimento), da affiancare all’abuso di sfruttamento. L’innovativa costruzione interpretativa fondava le proprie basi sull’originario dispositivo dell’art. 3 lettera f) del Trattato (ora lettera g), di cui l’articolo 86, come pure tutte le altre disposizioni del Trattato in tema di concorrenza, è considerato espressione. L’art. 3 lettera f), «contempla la creazione di un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia alterata»; ne deriva da ciò che la norma impone, «a maggior ragione, che la concorrenza non venga eliminata»[4].
2. Le decisioni comunitarie in materia di predatory pricing. Il caso AKZO Nello studio delle politiche predatorie, ai fini di una loro attenta comprensione, è essenziale dapprima l’analisi dei casi comunitari nei quali il comportamento predatorio è risultato predominante. Nel diritto europeo della concorrenza è possibile distinguere due principali approcci nei confronti dei casi di politiche predatorie dei prezzi: un primo approccio giurisprudenziale, più tradizionale, quale quello che emerge dai casi Akzo e Tetra Pak II, dove le decisioni si fondano principalmente sul raffronto tra prezzi e costi, seguito da una valutazione della strategia predatoria, quale frutto, invece, della discriminazione di prezzo e dell’intento escludente. Il landmark case comunitario in tema di prezzi predatori è il caso Akzo [5]. Si tratta della prima controversia per la quale gli Organi comunitari hanno dovuto affrontare la problematica questione della liceità delle vendite sottocosto. Secondo la Commissione, nella fattispecie in esame, il comportamento abusivo è consistito nell’attuazione di una politica di riduzione selettiva dei prezzi di vendita al di sotto dei costi di produzione, nei confronti dei clienti del principale concorrente, ECS, allo scopo di danneggiare le attività di quest’ultimo ed escluderne la concorrenza [6]. Sebbene il concetto di predazione non fosse espressamente utilizzato dalla Commissione, dalle argomentazioni da questa impiegate risulta comunque chiaro che l’Organo comunitario considerasse il presunto abuso quale predatorio. Nel provvedimento del 1985, la Commissione ha innanzitutto osservato come la Corte di giustizia, nel noto caso Continental Can, avesse definitivamente confermato la non esaustività dell’enumerazione delle pratiche abusive contenute nell’articolo 86, lettere da a) a d). Nella fattispecie in esame, la condotta è consistita in «riduzioni massicce e prolungate dei prezzi» e, «una riduzione dei prezzi potrebbe perseguire un intento anticoncorrenziale indipendentemente dal fatto che l’aggressore fissi i suoi prezzi al di sopra o al di sotto dei suoi costi, qualunque sia il modo in cui questi vengano intesi» (punto 79 della decisione) e […] un’analisi dettagliata dei costi invocati dall’aggressore può comunque avere un peso considerevole quando si voglia accertare la correttezza o meno del suo comportamento in materia di prezzi, nonché l’intento con esso perseguito. Gli effetti di eliminazione dei concorrenti di una campagna di riduzione dei prezzi svolta da un produttore possono essere così evidenti che non è necessario provarne l’intento. Viceversa, quando il basso livello dei prezzi può avere diverse spiegazioni possibili, può anche risultare necessario, per dimostrare l’esistenza di un’infrazione, comprovare anche l’intento di eliminare un concorrente o di restringere la concorrenza» (punto 80 della decisione) ossia l’esistenza di un «progetto inteso a danneggiare i concorrenti». Perciò, il raffronto tra prezzi e costi costituirebbe un elemento d’individuazione oggettivo di quello che appare il vero elemento peculiare del predatory pricing: l’elemento intenzionale dell’agente. Nella fattispecie, esistevano svariati elementi atti a dimostrare l’intento anticoncorrenziale di Akzo: il carattere selettivo delle riduzioni di prezzo, che erano concesse ai clienti abituali del concorrente ECS, mentre la clientela abituale di Akzo continuava a pagare prezzi più elevati (sino al 60%); il fatto che Akzo abbia deciso di non ripercuotere integralmente sui prezzi i costi di produzione degli additivi per farina, come faceva prima della controversia con ECS; l’aver applicato, nei rapporti con i clienti (RHM e Spillers), una strategia commerciale consistente nell’ottenere, da questi due acquirenti, precise informazioni sulle offerte di prezzi fatte da altri produttori, per proporre poi un prezzo appena inferiore in modo da ottenere l’ordinazione; nel caso del cliente Spillers, questa pratica era abbinata a un obbligo di approvvigionamento esclusivo che eliminava gli altri fornitori. Dopo aver esposto le proprie tesi in materia di predatory pricing, la Commissione ha inteso, poi, sgomberare il campo dal dubbio di voler colpire indiscriminatamente ogni forma di ribasso dei prezzi capace di indebolire l’esistenza di una pluralità di offerta. Si legge pertanto che «la Commissione tiene a precisare che […] un’impresa dominante è legittima a competere con le altre imprese sul piano dell’efficienza. Essa non vuole neppure sostenere che i grandi produttori dovrebbero anche minimamente astenersi dal fare una vigorosa concorrenza ai rivali di più piccole dimensioni o ai nuovi venuti. La salvaguardia di un sistema di concorrenza effettiva presuppone tuttavia che i concorrenti di piccole dimensioni siano protetti contro i comportamenti di imprese dominanti che si propongono di escluderli dal mercato non in virtù di una maggiore efficienza o di prestazioni superiori, ma abusando della forza di mercato». A giudizio della Commissione, pertanto, nella valutazione d’illiceità di una politica di riduzione dei prezzi, non dovevano essere presi in considerazione i dati oggettivi relativi ai costi marginali o totali [7], ma piuttosto era necessario indagare sulla strategia di lungo periodo e sulla volontà di discriminazione che ispira la politica dei prezzi dell’impresa dominante. «L’elemento fondamentale è come il rivale risente della determinazione dell’aggressore nel frustrare le sue aspettative» [8]. Si tratta dunque di discutibili argomentazioni attraverso le quali la Commissione tenta di colpire una pratica a essa ancora poco conosciuta.
2.1 La sentenza della Corte di giustizia nel caso Akzo La decisione veniva impugnata da Akzo dinanzi alla Corte di giustizia europea. Quest’ultima, con sentenza del 3 luglio 1991, confermava in gran parte la legittimità della decisione, pur non condividendo l’impostazione di principio seguita dalla Commissione. La Corte, infatti, «sembra orientata a restringere l’area degli indici rilevanti [9]»ritenendo che: «l’analisi dettagliata dei costi di un’impresa dominante potrebbe avere un rilievo considerevole quando si voglia accertare la correttezza o meno del suo comportamento in materia di prezzi. Le ripercussioni, in termini di eliminazione dei concorrenti, di una campagna di riduzione dei prezzi condotta da un produttore in posizione dominante potrebbero essere così evidenti che non sarebbe affatto necessario provarne l’intento. Viceversa, quando il livello basso dei prezzi può avere diverse spiegazioni possibili, potrebbe risultare necessario, per dimostrare l’esistenza di un’infrazione, comprovare anche l’intento di eliminare un concorrente o di restringere la concorrenza». Dopo aver chiarito il principio secondo il quale la nozione di sfruttamento abusivo è una nozione oggettiva [10], la Corte ha precisato il test da utilizzare nella valutazione di predatorietà, e quindi di abusività, dei prezzi applicati da un’impresa dominante: «i prezzi inferiori alla media dei costi variabili (vale a dire quei prezzi che variano in funzione dei quantitativi prodotti) mediante i quali un’impresa dominante persegue l’obiettivo di eliminare un concorrente devono ritenersi illeciti. Poiché ogni vendita comporta per l’impresa dominante una perdita, ossia la totalità dei costi fissi (vale a dire quei costi che restano costanti a prescindere da quale sia l’entità dei quantitativi prodotti) e, almeno in parte, dei costi variabili relativi all’unità prodotta, la detta impresa non ha, infatti, alcun interesse a praticare simili prezzi se non quello di eliminare i propri concorrenti, per poter poi rialzare i propri prezzi approfittando della situazione di monopolio. D’altra parte, prezzi inferiori alla media dei costi totali, i quali comprendono i costi fissi e quelli variabili, ma superiori alla media dei costi variabili, sono da considerare illeciti allorché sono fissati nell’ambito di un disegno inteso a eliminare un concorrente. Tali prezzi possono infatti estromettere dal mercato imprese le quali potrebbero essere altrettanto efficienti come l’impresa dominante, ma che, per via delle loro più modeste capacità finanziarie, sono incapaci di resistere alla concorrenza che viene esercitata nei loro confronti». Nulla si dice sui prezzi superiori ai costi totali, né espressamente sulla possibilità dell’impresa dominante di recuperare le sue perdite. In sostanza, la Corte sembra aver escluso che l’intento predatorio possa da solo determinare la qualificazione della pratica in assenza di un confronto oggettivo dato dal raffronto tra i prezzi e i costi [11]. La decisione, adottando in parte il criterio di Arreda-Turner [12], ha stabilito precise regole circa il livello al di sotto del quale l’abbassamento dei prezzi diviene pred atorio, e quindi abusivo [13]. Sebbene alcuni passi della sentenza Akzo (cfr. punto 71), sembri emergere l’impossibilità di spiegazioni alternative all’intento predatorio nell’ipotesi di prezzi inferiori ai costi medi variabili, la Corte non ha affermato espressamente che, in tali ipotesi, la presunzione di predatorietà sia assoluta. Una simile conclusione, d’altra parte, sarebbe stata considerata inaccettabile, atteso, che, in realtà, ben possono sussistere fondate ragioni commerciali che legittimino il ricorso a politiche di prezzo inferiori ai costi medi variabili: basti pensare alle vendite promozionali o alle vendite di prodotti che stiano per diventare tecnologicamente obsoleti [14]. La Corte ha quindi concluso che «Akzo, mantenendo prezzi inferiori alla media dei suoi costi totali per un periodo prolungato e senza obiettiva giustificazione, ha potuto danneggiare la ECS, dissuadendola dal rivolgersi alla sua clientela». Nel caso in questione, tuttavia, la Corte è apparsa consapevole del significato del recupment all’interno del paragrafo 71 della sentenza, nel quale ha evidenziato come un’impresa dominante non abbia alcun interesse a praticare prezzi al di sotto dei costi variabili medi: «se non quello di eliminare i propri concorrenti, per poter poi rialzare i propri prezzi approfittando della situazione di monopolio». Ciononostante non ha espressamente incorporato la necessità di una prova della possibilità di recupero come parte dell’infrazione. Pur confermando nella sostanza la quasi totalità delle infrazioni ascritte ad Akzo nella decisione, la Corte riduceva l’ammenda inflitta dalla ricorrente in ragione, tra l’altro, del fatto che gli illeciti commessi attenevano «a un ambito normativo nel quale le regole non erano mai state precisate» e che l’infrazione non aveva influito in modo apprezzabile sulle quote di mercato detenute dalle due imprese interessate nel settore degli additivi per farine [15].
3. Altre decisioni fondate sul raffronto tra prezzi e costi: Tetra Pak II, British Sugar e BPB Industries Il successivo caso comunitario per il quale la Commissione è rimasta fedele a una valutazione del predatory pricing basata sul raffronto tra prezzi e costi è il caso Tetra Pak II [16]. Si tratta di una strategia d’impresa finalizzata alla conquista del mercato italiano dei contenitori non asettici, attraverso una politica aggressiva di prezzi del cartone Rex [17] sovvenzionata dai profitti quasi monopolistici realizzati all’interno di un mercato differente, quello dei contenitori asettici [18]. Nel periodo considerato, Tetra Pak ha infatti venduto i suoi cartoni Rex a prezzi ampiamente inferiori a quelli praticati da Elopak sul suo cartone concorrente, il Pure-Pak, e la differenza di prezzo tra questi due tipi di cartoni è andata crescendo (fino al 30% e addirittura, ad un certo momento, al 50%). Ciò ha comportato un declino delle vendite di Elopak [19]. Tutto ciò, supportato dai documenti raccolti nel corso delle ispezioni e, in particolare, dai rapporti del CdA, dimostrava che le vendite in perdita furono deliberate in attuazione di una strategia predatoria. E, infatti, essendo «in posizione dominante sul mercato dell’imballaggio asettico, da cui traeva la quasi totalità delle sue risorse, il gruppo Tetra Pak poteva permettersi di vendere a prezzi che si devono considerare “eliminatori” in un settore per lui marginale». In tali condizioni, Tetra Pak avrebbe potuto continuare una tale politica, senza grandi danni finanziari, fino alla scomparsa totale dal mercato italiano di Elopak, la quale fortemente risentiva degli attacchi. Le corti comunitarie hanno ampiamente supportato le valutazioni elaborate dalla Commissione europea ed hanno, inoltre, contribuito all’introduzione, per la prima volta, di un ulteriore elemento caratterizzante la politica del predatory pricing: la non necessità del recoupment test, ovvero l’inopportunità del recupero delle perdite sostenute dall’impresa durante il periodo della predazione [20]. Nel presente caso, sia la durata sia la natura e la costanza delle perdite non risultavano obbedire ad alcuna razionalità economica che non fosse quella di estromettere la Elopak dal mercato e quindi rafforzare la posizione della Tetra Pak sui mercati dei cartoni non asettici, nei quali già essa deteneva una posizione egemone, com’era già stato accertato, indebolendo in tal modo la concorrenza su questi mercati. Simili comportamenti integravano gli estremi dell’abuso di cui all’art. 86 «senza che sia necessario accertare in modo specifico se l’impresa considerata potesse ragionevolmente supporre di recuperare le perdite volontariamente riportate». La Corte [21], in seguito, non soltanto ha ripreso il criterio d’identificazione dei costi già individuato nel caso Akzo ai fini della predatorietà del comportamento, ma ha confermato un elemento importante che contraddistingue tutt’oggi l’approccio europeo di fronte al predatory pricing: «per qualificare come eliminatori i prezzi praticati dall’impresa interessata, non sarebbe opportuno, nelle circostanze del caso di specie, esigere anche, come prova supplementare, la dimostrazione del fatto che l’impresa considerata disponeva di un’effettiva possibilità di recupero delle perdite subite. Infatti, una pratica di prezzi predatori deve potersi sanzionare non appena sussista il rischio di eliminazione dei concorrenti». L’obiettivo perseguito dalla normativa, che è quello di preservare una concorrenza non falsata, non consente, infatti, di aspettare che una strategia del genere pervenga all’effettiva eliminazione dei concorrenti [22]. Nel caso in questione, l’intento anticoncorrenziale dell’impresa, manifestato da una serie di atti abusivi, è risultato particolarmente chiaro; per di più il potere di mercato della stessa è apparso considerevole, fino al punto da poter considerare il caso contraddistinto da superdominanza anziché da mera dominanza. Ciò potrebbe essere utile per comprendere il motivo per cui la Corte ha statuito che “nelle circostanze del caso di specie” non fosse stato necessario imporre alla Commissione l’ulteriore onere di dimostrare la possibilità di recupero, con ciò lasciando chiaramente aperta la possibilità che nei futuri casi, ove la prova dell’intento eliminatorio sia meno chiara e il predatore non sia superdominante, la Corte possa prendere in considerazione una tale prova [23]. Altro caso in cui la Commissione è giunta alla condanna di una pratica di prezzo a seguito del raffronto tra prezzi e costi è il caso British Sugar [ 24] (di seguito BS), in cui il più grande produttore e fornitore di zucchero del Regno Unito è stato accusato di aver cercato di estromettere dal mercato Napier Brown (di seguito NB), il più importante commerciante di zucchero, impiegando, tra gli altri mezzi, prezzi predatori. Sulla base delle informazioni concernenti i prezzi, raccolte dalla Commissione nel corso dell’istruttoria, risultava che BS aveva condotto una campagna di riduzione dei prezzi che lasciava alle imprese di confezionamento e di vendita di zucchero destinato al dettaglio, altrettanto efficienti quanto BS stessa in questo tipo di operazioni, un margine assolutamente insufficiente per sopravvivere nel lungo periodo. A tal proposito, la Commissione ha posto l’accento sulla circostanza secondo la quale «il mantenimento ad opera di un’impresa dominante, che è dominante sia sul mercato delle materie prime che su quello del prodotto derivato, di un margine tra il prezzo praticato per il prodotto derivato stesso, margine che sia insufficiente a rispecchiare i costi di trasformazione dell’impresa dominante (nella fattispecie il margine mantenuto da BS tra i suoi prezzi per lo zucchero industriale e quelli per lo zucchero al dettaglio rispetto ai propri costi di riconfezionamento) e che abbia come risultato di eliminare la concorrenza per il prodotto derivato, configura un abuso di posizione dominante» [25]. Infatti, la riduzione da parte di BS del margine tra i suoi prezzi per lo zucchero industriale e i prezzi dello zucchero al dettaglio, a tal punto che lo zucchero al dettaglio veniva da essa venduto a un prezzo che non rifletteva più i propri costi di trasformazione, dettagliatamente analizzati dalla Commissione, si è tradotto in un abuso di posizione dominante. Se, infatti, BS avesse mantenuto un tale margine nel lungo periodo, NB, al pari di qualsiasi altra impresa, tanto efficiente quanto BS nel riconfezionamento e sprovvista di una fonte di approvvigionamento di zucchero industriale di propria produzione, sarebbe stata costretta a uscire dal mercato britannico dello zucchero al dettaglio. Il mantenimento di una tale politica di prezzi rispondeva all’intenzione, o avrebbe avuto la conseguenza logica e prevedibile, di estromettere NB dal mercato dello zucchero al dettaglio. Una tale estromissione avrebbe inciso sensibilmente sul mercato comunitario, pregiudicandone la struttura competitiva e commerciale. Nel caso BPB Industries plc [26], invece, la Commissione confuta la tesi di un’eventuale politica di predatory pricing adottata dalla società produttrice di pannelli di gesso cartonato, fondando la propria motivazione sulle economie aggiuntive, ossia sulla riduzione dei costi che si sarebbe potuta ottenere ampliando l’ambito geografico della produzione, pur sanzionando l’impresa per abuso di posizione dominante consistente in svariati comportamenti distorsivi della concorrenza. La Commissione ha osservato, infatti, che il regime di prezzi praticati dall’impresa, durante la fase di sperimentazione iniziale, poteva considerarsi supportato da obiettive giustificazioni giacché «soltanto in parte la riduzione dei prezzi praticata era compensata dalle economie effettivamente ottenute in materia di costi: per un’altra parte, la riduzione dei prezzi corrispondeva alle economie aggiuntive che sarebbe stato possibile conseguire se il regime fosse stato attuato su scala nazionale». A parere della Commissione, dunque, non vi erano indizi per ritenere che un tale regime di prezzi fosse un’operazione anticoncorrenziale [27].
3.1 Il caso France Télécom e il definitivo rigetto del recoupment test La controversia France Télécom [28], giunta innanzi ai giudici della Corte di giustizia, non ha risparmiato pesanti critiche sul metodo di valutazione dei prezzi utilizzato dalla Commissione [29]. Il caso ha come protagonista la Wanadoo Interactive Sa (WIN in prosieguo), che all’epoca dei fatti era una società del gruppo France Télécom operante in Francia nel settore dei servizi di accesso a Internet, accusata dall’Organo comunitario di aver praticato, nel periodo marzo 2001 – ottobre 2002, per i suoi servizi ADSL, prezzi predatori che non le hanno permesso di ricoprire, fino all’agosto del 2001, i suoi costi variabili, e, a partire dalla stessa data, i suoi costi totali, nell’ambito di un disegno diretto ad appropriarsi prioritariamente del mercato dell’accesso a internet ad alta velocità in una fase importante del suo sviluppo. Quanto ai prezzi collocati tra i costi variabili e i costi totali, da considerare illeciti allorché siano fissati nell’ambito di un disegno inteso a eliminare un concorrente, la Commissione aveva sottolineato che l’intento escludente fosse chiaramente desumibile dalla documentazione interna [30], la quale accertava che la società era perfettamente consapevole delle perdite sopportate in pendenza della condotta e che era parimenti intenzionata e reiterarla nel 2003 e nel 2004.
3.2 I rilievi della WIN La WIN, cui è subentrata France Télécom in seguito ad un’operazione di fusione avvenuta il 1° settembre 2004, ha proposto ricorso innanzi al Tribunale diretto all’annullamento della decisione controversa. Tra le obiezioni sollevate dall’impresa, rientrava la negazione, da parte della Commissione, del riconoscimento del diritto di ogni impresa di allinearsi in buona fede ai prezzi dei propri concorrenti; tale diritto sarebbe riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte e dalla prassi decisionale anteriore della Commissione. L’Organo comunitario avrebbe giudicato accertata l’esistenza di un disegno predatorio sostenendo che la dimostrazione del recupero delle perdite non fosse necessaria, utilizzato un criterio del calcolo dei costi scorretto oltre che commesso errori di calcolo. La WIN lamentava inoltre che il ragionamento della Commissione sulla dominanza si era sostanzialmente appiattito sulla rilevazione delle quote di mercato, ponendo scarsa attenzione sulla concorrenza attuale o potenziale. La Commissione avrebbe anche commesso un errore manifesto di valutazione nel considerare come predatori prezzi che erano perfettamente razionali in un contesto di forte concorrenza, giudicandoli illeciti nonostante avessero consentito all’impresa il raggiungimento di economie di scala ed effetti di apprendimento [31]. Quanto al recupero delle perdite economiche, l’impresa ha sostenuto che esso costituisse una componente integrale del test sulla strategia predatoria di cui la Commissione avrebbe dovuto fornire la prova. La WIN, in particolare, riteneva che, se un’impresa in posizione dominante non potesse ragionevolmente sperare di ridurre la concorrenza nel lungo periodo per recuperare le perdite, in particolare perché l’ingresso sul mercato considerato è facile, non sarebbe stato razionale per essa impegnarsi in una politica di prezzi predatori. In tale ipotesi, la politica di bassi prezzi condotta dall’impresa avrebbe trovato necessariamente la sua spiegazione al di fuori di una strategia predatoria. Secondo la WIN, tale posizione era condivisa dalla totalità della dottrina economica e giuridica, così come da numerosi organi giurisdizionali e Autorità di vigilanza sulla concorrenza, tra le quali figurano quelle degli Stati Uniti, ma anche quelle di diversi Stati membri dell’Unione europea. La stessa giurisprudenza comunitaria non avrebbe mai escluso che si dovesse procedere a una tale dimostrazione [32]. Orbene, le condizioni di concorrenza nel mercato dell’accesso a internet ad alta velocità erano totalmente differenti da quelle che il Tribunale e la Corte hanno avuto modo di accertare nelle precedenti cause in materia di strategie predatorie. Infatti, le barriere all’ingresso in tale mercato erano basse [33], la crescita forte, la situazione concorrenziale non sarebbe stata rigida e sarebbero stati numerosi i nuovi operatori effettivi e potenziali.
3.3 Le decisioni delle Corti nel caso France Télécom Il Tribunale di primo grado [34] ha invece avvalorato il lavoro e le valutazioni della Commissione [35]. Ciò che emerge dalla decisione, quanto alla prima contestazione, è che, sul piano dei principi, «è vero che nuovi operatori o imprese che non esercitano una posizione dominante hanno il diritto di praticare prezzi promozionali per durate limitate nel tempo. Il loro solo obiettivo consiste nell’attirare l’attenzione del consumatore sull’esistenza stessa del prodotto, in modo più persuasivo che attraverso un semplice messaggio pubblicitario, e tali offerte non esercitano effetti negativi sul mercato. Al contrario, l’allineamento dell’operatore dominante ai prezzi promozionali dell’operatore non dominante non è giustificato. Benché sia vero che non è vietato, in assoluto, all’operatore dominante allinearsi ai prezzi dei concorrenti, ciò non toglie che tale facoltà deve essergli negata qualora essa comporti per l’impresa dominante la mancata copertura dei costi del servizio in questione. Benché una posizione dominante non possa privare un’impresa, che si trovi in una tale posizione, del diritto di preservare i propri interessi commerciali, qualora questi siano minacciati, non si possono ammettere tali comportamenti quando essi abbiano precisamente per oggetto di rinforzare tale posizione dominante e di abusarne. Incombe così all’impresa dominante una speciale responsabilità di non pregiudicare con il suo comportamento una concorrenza effettiva e leale nel mercato comune». Quanto alle contestazioni sulla predatorietà della condotta, il Tribunale ha rilevato che, ai fini dell’applicazione dell’art. 82 C.E., la prova in merito all’oggetto e quella concernente l’effetto anticoncorrenziale avrebbero potuto, eventualmente, confondersi [36]. Qualora, dunque, si dimostri che il comportamento di un’impresa in posizione dominante abbia lo scopo di restringere la concorrenza, detto comportamento sarebbe anche idoneo a produrre un effetto di tal genere. Infatti, se un’impresa in posizione dominante attua una pratica il cui fine sia l’estromissione di un concorrente, il fatto che il risultato atteso non si sia realizzato non è sufficiente a escludere la qualifica di abuso di posizione dominante ai sensi dell’art. 82 T.C.E. Peraltro, che si trattasse di prezzi inferiori alla media dei costi variabili oppure di prezzi inferiori alla media dei costi totali, ma superiori alla media dei costi variabili, non era necessario dimostrare, a titolo di prova supplementare, che l’impresa considerata avesse la reale possibilità di recuperare le sue perdite [37]. La Corte [38], proponendo le conclusioni cui erano giunti la Commissione e il Tribunale, ha definitivamente chiarito la non necessaria applicazione del recoupment test [39], il quale ha invece riscosso crescente attenzione negli USA, quale elemento complementare della riduzione dei prezzi attuata nel periodo della predazione [40]. L’importanza relativa da attribuire al recoupment test per l’accertamento di una violazione antitrust costituisce dunque un elemento di divergenza tra l’approccio comunitario e quello statunitense. Sulla necessità o meno del recoupment test l’Avv. Generale Mazà, nelle sue conclusioni [41] presentate all’interno del caso Wanadoo, nel vano tentativo di un’evoluzione in chiave economica dell’orientamento prevalente, aveva rilevato come il Tribunale, nelle proprie motivazioni, avesse citato una sentenza (caso Tetra Pak II) in cui si era affermato chiaramente che, nelle circostanze del caso di specie, non fosse opportuno esigere la dimostrazione del fatto che l’impresa dominante disponesse di un’effettiva possibilità di recupero delle perdite subite. Pertanto, lo stesso, non avrebbe dovuto semplicemente trasformare quella dichiarazione, che era chiaramente basata sulle specifiche circostanze di fatto della causa Tetra Pak II, in una regola di portata generale. La Corte, utilizzando nella sentenza Tetra Pak II la predetta espressione, intendeva chiaramente evitare di formulare una dichiarazione di portata generale, che avrebbe reso superflua la prova della possibilità di recupero nei futuri casi di strategie predatorie. Nella fattispecie in questione, la Corte ha invece affermato che la possibilità di recupero dei costi, sostenuti per l’applicazione, da parte di un’impresa in posizione dominante, di prezzi inferiori a un determinato livello di costi, non costituiva un presupposto necessario per dimostrare il carattere abusivo di una siffatta politica in materia di prezzi. Ciò non esclude tuttavia che la Commissione possa considerare una siffatta possibilità come elemento rilevante in sede di valutazione della natura abusiva della pratica in questione in quanto, per esempio, essa può contribuire a escludere, in caso di applicazione di prezzi inferiori alla media dei costi variabili, giustificazioni economiche diverse dall’eliminazione di un concorrente, oppure a dimostrare, in caso di applicazione di prezzi inferiori alla media dei costi totali ma superiori alla media dei costi variabili, l’esistenza di un piano avente lo scopo di eliminare un concorrente. Del resto, la mancanza di qualsiasi possibilità di recupero delle perdite non poteva bastare a escludere che l’impresa in questione giungesse a rafforzare la sua posizione dominante in seguito, in particolare, all’uscita dal mercato di uno o più tra i suoi concorrenti, di modo che il grado di concorrenza esistente sul mercato, già indebolito proprio a causa della presenza dell’impresa in questione, sarebbe risultato ancor più diminuito; e che i consumatori avessero subito un danno derivante dalla limitazione delle loro possibilità di scelta. Sebbene, dunque, la giurisprudenza comunitaria non richieda la dimostrazione della plausibilità del recupero, la probabilità di recoupment nella presunta fase predatoria è stata spesso affrontata dalla Commissione, con legittimazione della Corte, quale elemento aggiuntivo di valutazione.
4. L’intento escludente e la discriminazione di prezzo: i casi Meldoc e Compagnie Marittime Belghe Nei casi qui di seguito trattati, gli Organi comunitari attribuiscono un ruolo di notevole rilievo alla discriminazione di prezzo e all’intento, pressoché ignorando, invece, il raffronto tra i prezzi e i costi delle imprese coinvolte. Nel caso Meldoc [42], infatti, gli aggressivi ribassi di prezzo praticati in conseguenza dell’ingresso di un’impresa rivale sul mercato, sono frutto di un cartello stipulato all’interno dell’industria lattiero-casearia olandese. In particolare, l’accordo di cooperazione concluso dai cinque membri prevedeva sistemi di quote, soggette a periodiche modifiche, finalizzate alla ripartizione del mercato; il coordinamento delle vendite e dei prezzi nell’ottica di una politica commerciale comune; misure per impedire le importazioni in Olanda da parte di altri Stati membri, in particolare il Belgio; misure compensative. La Commissione in primis ha notato che l’elemento dell’illiceità si rintracciasse nello stesso accordo sul comune prezzo da praticare, avente dunque un oggetto anticoncorrenziale [43], ha poi evidenziato l’illiceità del comportamento consistente in vendite sottocosto selettive al fine di estromettere o ostacolare l’ingresso sul mercato di un concorrente. L’esistenza di una stretta cooperazione tra i membri del cartello era poi ulteriormente dimostrata dalle numerose riunioni svoltesi in seno a Meldoc. Anche se l’accordo non conteneva alcun riferimento alle importazioni o alle esportazioni, esso tuttavia imponeva alle parti l’obbligo specifico di tutelare le loro vendite contro i terzi. In particolare, i partner di Meldoc intendevano far cessare la concorrenza del latte belga sul mercato olandese sia perché il latte belga, più conveniente, comprimeva i loro prezzi, sia perché temevano un’erosione delle loro quote. Nei documenti di lavoro su cui si fondava la discussione dell’accordo di base era già ammessa la «crescente concentrazione dei dettaglianti» e «l’ulteriore penetrazione dall’estero sul nostro mercato» e quindi l’urgenza di una cooperazione più stretta. La cooperazione offriva, tra gli altri vantaggi, la possibilità di intraprendere un’azione comune e, in particolare, di organizzare «una lotta serrata contro la residua concorrenza nonché un’infiltrazione comune oltre frontiera». Risultava dalle prove fattuali che i membri di Meldoc proteggevano le loro vendite contro i terzi mediante un’azione comune diretta a impedire le importazioni. Falliti, infatti, gli interventi presso i fornitori belgi affinché cessassero le importazioni, il cartello prevedeva, tra le altre cose, offerte selettive a basso prezzo ai clienti olandesi per indurli a rinunciare alle importazioni del latte a un prezzo migliore. Le perdite erano poi ripartite tra i membri e recuperate attraverso la previsione di sistemi di compensazione. I margini di perdita sul latte venduto sottocosto erano notevoli, tant’è che nelle relazioni si parlava di vendite in perdita. L’entità del cartello, insieme all’obbligo di difendere le vendite contro i terzi e all’intensa cooperazione in termini di vendite e di prezzi, sminuiva la possibilità per i fornitori esteri di penetrare sul mercato olandese, i quali si trovavano dinanzi ad un mercato diviso tra i membri di un cartello che copriva più del 90% del mercato di cui trattasi, membri che hanno agito in comune accordo per mantenere il volume delle loro vendite e compromettere, in tal modo, il sistema di libera concorrenza. La discriminazione di prezzo è stata utilizzata come importante indice di esclusione dal mercato del concorrente anche all’interno del caso Compagnie Marittime Belghe. La fattispecie classica delle fighting ships o “navi da combattimento” già incontrata nel primo caso di politiche predatorie, il caso Mogul Steamship [44], si ripropone nella controversia in questione dove però, nel frattempo, l’approccio nei confronti di simili comportamenti attuati dalle Conferenze marittime era ormai evoluto verso una visione ostile all’utilizzo di tali strumenti competitivi. Anche in questo caso, però, sia la Commissione [45] sia le Corti comunitarie hanno attribuito un’autonoma forza persuasiva all’argomento fondato sull’intento escludente e sulla discriminazione di prezzo, pressoché ignorando, invece, il raffronto tra il prezzo e i costi, al fine dell’attuazione della strategia eliminatoria nei confronti delle compagnie di navigazione non associate. Nel caso in questione, Cewal (Associated Central West Africa Lines), Cowac (Continental West Africa Conference) e Ukwall (United Kingdom West Africa Lines Joint Service), erano tre conferenze marittime attive nel trasporto marittimo tra l’Europa del Nord e l’Africa Occidentale. Tra le stesse, accusate di aver attuato un’intesa restrittiva del commercio consistente in una compartimentalizzazione dei mercati, merita particolare attenzione la strategia intrapresa dalla Cewal nei confronti del concorrente, quale impresa indipendente [46], che le varrà la condanna, tra l’altro, per abuso di posizione dominante collettiva [47]. In particolare, dai documenti in possesso della Commissione, risultava che la Cewal avesse fatto ricorso, tra il maggio del 1988 e il novembre del 1989, alla pratica delle fighting ships al fine di eliminare il suo principale concorrente sul tratto tra il Mare del Nord (escluso il Regno Unito) e lo Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo). Si trattava della Grimaldi e della Cobelfret (di seguito G & C), che avevano istituito un servizio comune di collegamento sulla predetta tratta. La suddetta pratica constava del seguente schema: la segreteria della conferenza marittima informava i membri delle date delle prossime partenze previste dalla compagnia indipendente, della natura dei carichi da trasportare e, se nota, dell’identità dei caricatori; era poi convocata, con frequenza pressappoco bimestrale, un’apposita riunione dello «Special Fighting Commitee» al fine di determinare quali navi di Cewal avrebbero dovuto offrire “noli aggressivi” ridotti e diversi dai normali noli praticati dalla conferenza. Tali navi avrebbero dovuto salpare alla medesima data, o a date vicine (prima e dopo), di quella prevista per la partenza della nave dell’outsider. Le “tariffe aggressive” erano fissate di comune accordo in funzione delle tariffe offerte dalla compagnia concorrente e costituivano una deroga alle tariffe normalmente praticate dalla conferenza. La differenza, tra la normale tariffa della conferenza e le tariffe in deroga, era posta a carico dei membri della conferenza. L’intento della Cewal di utilizzare un simile strumento di concorrenza era rinvenibile in vari elementi, tra cui l’utilizzo del termine fighting ships in diversi documenti interni e la creazione di un apposito comitato. A giudizio della Commissione, i membri della Cewal detenevano una posizione dominante collettiva per effetto dell’accordo di conferenza che le univa e che instaurava legami economici assai stretti tra loro. Secondo l’Organo comunitario, ai fini della valutazione della condotta competitiva «la multilateralità e intenzionalità» erano indici di abusività del comportamento consistente nel fissare un prezzo eccezionale concordato che mirava a estromettere il concorrente. Cewal, dal canto suo, ha sostenuto, senza peraltro dimostrarlo, che i membri della conferenza non avevano subìto alcuna perdita dai «noli aggressivi» praticati, ma semplicemente avevano guadagnato un margine di profitto inferiore a quello guadagnabile applicando «noli normali». A questo proposito la Commissione, pur rilevando che tali affermazioni apparentemente fossero contraddette dalle dichiarazioni dei membri della conferenza menzionate nei verbali delle riunioni del «fighting committee», ha affermato che il fatto di compensare il costo dei noli aggressivi con i noli normali conferenziati ottenuti sugli altri trasporti, per i quali la conferenza non ricorreva a «fighting ships», costituiva di per sé, nel caso in oggetto, «un comportamento abusivo che distrugge(va) la concorrenza e atto a estromettere dal mercato un’impresa forse altrettanto efficiente della conferenza dominante, ma che a causa della sua inferiore capacità finanziaria non […] (poteva) resistere alla concorrenza organizzata in modo concertato e abusivo da un potente gruppo di armatori riuniti in una conferenza marittima», turbando, così, le normali correnti di scambio nel mercato comune. L’esistenza di perdite finanziarie effettive era irrilevante, essendo sufficiente che si verificassero perdite di entrate. Pertanto, nel caso in questione, ci si limitava a parlare di possibili perdite senza soffermarsi sul loro esatto ammontare. Ai fini della valutazione del comportamento in questione il Tribunale [48] ha rilevato la necessità di ricordare che, secondo una costante giurisprudenza, l’art. 86 del Trattato (102 TFUE) pone a carico di un’impresa in posizione dominante, indipendentemente dalle cause di tale posizione, la particolare responsabilità di non compromettere con il suo comportamento lo svolgimento di una concorrenza effettiva e non falsata nel mercato comune [49]. Rientra, quindi, nelle previsioni dell’art. 86 qualsiasi comportamento di un’impresa in posizione dominante atto a ostacolare il mantenimento o lo sviluppo del grado di concorrenza su un mercato nel quale, proprio in conseguenza del fatto che vi opera tale impresa, il grado di concorrenza sia già sminuito [50]. A questo proposito, il Tribunale ha ritenuto che, tenuto conto dei verbali dello Special Fighting Committee, in particolare del verbale del 18 maggio 1989, nel quale si parlava di «sbarazzarsi» dell’armatore indipendente, la Commissione ha sufficientemente dimostrato che tale pratica era stata attuata al fine di estromettere l’unico concorrente della Cewal sul mercato di cui trattasi. La Corte di giustizia [51] ha confortato un tale criterio di qualificazione sancendo l’illiceità del comportamento consistente in una riduzione selettiva dei prezzi al fine di allinearli, in maniera mirata, a quelli dell’unico concorrente. In particolare, secondo la Corte, qualora una conferenza marittima in posizione dominante proceda a una riduzione dei prezzi al fine di allinearli, in maniera mirata, a quelli di un concorrente, questa ne approfitta doppiamente. In primo luogo, essa elimina il principale, se non il solo, mezzo di concorrenza a disposizione dell’impresa concorrente. In secondo luogo, la stessa può continuare a chiedere agli utenti prezzi superiori per i servizi che non siano minacciati da tale concorrenza. Non era poi necessario, nel caso di specie, prendere posizione, in maniera generale, sulle circostanze in presenza delle quali una conferenza marittima potesse legittimamente adottare, caso per caso, prezzi inferiori a quelli della tariffa da essa pubblicata, al fine di far fronte a un concorrente che offra prezzi più interessanti. Basti ricordare che si trattava, nella fattispecie, del comportamento di una conferenza che deteneva una quota di oltre il 90% del mercato di cui trattasi e che aveva un solo concorrente[52]. Le ricorrenti, del resto, non hanno mai seriamente contestato, ma hanno in definitiva riconosciuto all’udienza, che lo scopo del comportamento contestato era quello di estromettere la G & C del mercato.
5. Sintesi dei criteri di valutazione del predatory pricing Nonostante il tentativo, da parte delle Autorità antitrust, di regolare in maniera chiara e puntuale l’utilizzo di prezzi predatori, non esiste tutt’oggi una disciplina coerente della materia [53]. Una tale incertezza è dovuta probabilmente al fatto che la pratica non riesce a collocarsi immediatamente, nel diritto europeo, in una delle fattispecie di cui all’art. 102 TFUE. Le corti hanno, dunque, dovuto procedere all’identificazione di criteri che consentissero un distinguo tra le forme di concorrenza lecita e quelle illecite. La Corte comunitaria, in particolare, ha riconosciuto che non tutti gli atti che portino all’estensione o al rafforzamento della posizione dominante debbano considerarsi vietati; vanno distinti i mezzi abusivi dai mezzi di concorrenza “normale” imperniata sui meriti. Sarebbe predatorio, pertanto, il comportamento imperniato sui prezzi che si discosti da una concorrenza meritoria che faccia leva sugli stessi. L’impianto che è emerso dalla casistica giurisprudenziale in tema di applicazione delle norme concernenti il predatory pricing è qui di seguito esposto. Per i prezzi inferiori ai costi medi variabili vige una presunzione iuris tantum di predatorietà (casi Akzo, Tetra Pak, British Sugar, France Télécom). La difesa di un tale livello di prezzi potrebbe essere supportata ricorrendo all’argomento del raggiungimento delle economie aggiuntive (caso BPB). I prezzi compresi tra i costi medi variabili e i costi medi totali sono abusivi allorquando siano parte di un piano volto all’eliminazione del rivale, provato sul fondamento d’indizi “gravi e concordanti” (caso Akzo). Sia la Commissione sia le Corti europee hanno dato chiara importanza alla documentazione interna dell’impresa, considerata a volte come prova diretta dell’intento escludente. Quanto ai prezzi superiori al costo totale medio, è possibile considerarli predatori, in casi eccezionali, fondandosi prevalentemente sulla valutazione dell’intento dell’impresa in odore di predazione (caso Compagnie Marittime Belghe). Per tali prezzi, il divieto di prezzi predatori e il divieto di discriminazione si sovrappongono. Il recoupment test, come criterio di preselezione dei casi rilevanti, è stato espressamente rigettato dalle Corti (casi Tetra Pak II, France Télécom). Sebbene nella giurisprudenza comunitaria non sia richiesta la dimostrazione della plausibilità del recupero dei costi sostenuti durante la fase predatoria, ciò non esclude, tuttavia, che la Commissione possa considerare una tale eventualità come elemento rilevante in sede di valutazione della natura abusiva della pratica in questione. La stessa può, per esempio, contribuire a escludere, in caso di applicazione di prezzi inferiori alla media dei costi variabili, giustificazioni economiche diverse dall’eliminazione di un concorrente, oppure a dimostrare, in caso di applicazione di prezzi inferiori alla media dei costi totali ma superiori alla media dei costi variabili, l’esistenza di un piano avente lo scopo di eliminare un concorrente (caso France Télécom). Si tratta sicuramente di argomentazioni intrise di valutazioni economiche che contraddistinguono la natura economica del predatory pricing rispetto alle altre pratiche abusive. Tuttavia, l’ambizione di colpire l’utilizzo strategico dei prezzi utilizzando, come spartiacque tra lecito e illecito, l’intento dell’impresa non va esente da critiche. L’unico criterio probabilmente valido rimane quello di valutare se, dal punto di vista dell’impresa che pone in essere un dato comportamento, il suo impiego è economicamente razionale a prescindere da qualsiasi effetto escludente, nei confronti del rivale, che il comportamento possa avere. Sebbene il metodo di raffronto tra prezzo e costi sia arduo, lo stesso rimane il più appropriato. Il livello di scarsa certezza nei confronti della strategia predatoria probabilmente sarà destinato ad accentuarsi in conseguenza delle previsioni contenute nel Guidance Paper. La disciplina che emerge dalle stesse richiede come elemento di preselezione dei casi rilevanti il deliberato sacrificio dei profitti da parte dell’impresa dominante, sia sotto forma di vendita sottocosto che di prezzi inferiori rispetto a una condotta di prezzo alternativamente razionale. L’effetto di preclusione anticoncorrenziale è di seguito rilevato attraverso l’esame di una serie di fattori, quali la posizione sul mercato dell’impresa, dei suoi clienti e concorrenti, le specifiche condizioni di mercato e l’ampiezza della condotta escludente. Si sostituisce pertanto all’intento, quale secondo criterio elaborato dalle corti, l’interpretazione dei fattori di mercato quali indici di probabile preclusione anticoncorrenziale. Tuttavia, sebbene la Commissione cerchi di discostarsi da valutazioni soggettive, focalizzandosi invece sugli effetti della condotta, l’intento risulta persistente nel primo elemento del test, rappresentato dal “deliberato” sacrificio dei profitti. Sembra che tali elementi non coincidano in maniera puntuale con i classici elementi del test sul predatory pricing elaborati dalle corti comunitarie. L’approccio che ne deriva risulta maggiormente restrittivo per la Commissione: mentre la Corte valuterà esclusivamente il sacrificio economico, il Guidance Paper richiede, accanto allo stesso, l’idoneità della pratica alla preclusione anticoncorrenziale del mercato, quest’ultima di non agevole dimostrazione al fine dell’assolvimento dell’onere probatorio. Al di là delle discussioni sull’opportunità degli Orientamenti, il bando dei prezzi superiori a un’appropriata misura dei costi non sembra trovare solide fondamenta né nella giurisprudenza comunitaria né in termini economici. La giurisprudenza ha, infatti, accolto la possibilità di condanna di tali prezzi in casi eccezionali, rappresentati dalla coesistenza di una posizione dominante collettiva e di una previa intesa tra le imprese coinvolte. In termini economici, poi, una simile valutazione rischia, non solo di costituire un’indebita ingerenza nelle scelte e nella valutazione del rischio d’impresa, ma altresì di creare un clima di esagerate paure per le grandi imprese, la cui attività potrebbe essere sottoposta a valutazione di predatorietà anche qualora i prezzi si collochino al di sopra dei costi aziendali [54]. Un uso del diritto antitrust non attento a queste considerazioni è destinato a conseguire un risultato paradossale: la normativa può diventare il primo strumento di stallo delle dinamiche del sistema concorrenziale ed essere impiegata per fini protezionistici. Per di più, un tale approccio potrebbe dare origine a significativi costi amministrativi, oltre che ad una sostanziale imprevedibilità della disciplina antitrust a danno della certezza del sistema giuridico.
—————— Note: [*] Il presente saggio è stato preventivamente sottoposto a referaggio anonimo affidato ad un componente del Comitato di Referee secondo il Regolamento adottato da questa Rivista. L’Autrice desidera ringraziare il Prof. Baccini Alberto e l’Avv. Vasques Luciano per le preziose discussioni sugli argomenti trattati e per il supporto nella stesura del presente lavoro. [1] Esso disponeva: «se l’Alta Autorità (la Commissione) riconosce che imprese pubbliche o private che, di diritto o di fatto, hanno ovvero acquistano, sul mercato di uno dei prodotti oggetto della propria giurisdizione, una posizione dominante che la sottrae ad una concorrenza effettiva in una parte importante del mercato comune, usano di questa posizione a fini contrari agli scopi del presente Trattato, rivolge loro ogni raccomandazione atta ad ottenere che questa posizione non sia usata a tali fini. In mancanza di esecuzione soddisfacente di dette raccomandazioni entro un termine ragionevole, l’Alta Autorità, con decisioni prese in consultazione con il governo interessato e sotto le sanzioni previste rispettivamente agli artt. 58, 59, e 64, fissa i prezzi e le condizioni di vendita da applicarsi da parte dell’impresa in causa o stabilisce programmi di produzione o programmi di consegna da eseguirsi da parte della stessa». È necessario rilevare che, nel diritto CECA, le raccomandazioni erano datate di efficacia vincolante. [2] G. Bernini, La tutela della libera concorrenza e i monopoli, Vol. 1, Milano, Giuffrè, 1962. [3] Memorandum della Commissione della Comunità economica europea del 1° dicembre 1965, p. 1182. [4] Corte di giustizia delle Comunità Europee, 21 febbraio 1973, Continental Can, cit. c. 116. [5] Commissione, 14 dicembre 1985, ECS/Akzo in G.U.C.E. n. L 374 del 31 dicembre 1985, p. 1. Corte di giustizia, 3 luglio 1991, causa C-62/86, Akzo Chemie BV c. Commissione. Per un commento alla decisione della Commissione vd.: D. Guy, The AKZO Case. Predatory pricing as an Abuse of a Dominant Position, in «European Intellectual Property Review», EIPR Oxford, Vol. 9 No. 3, March 1987, pp. 86-89. [6] Nel senso di una vigorosa concorrenza sono L. Phlips e I. M. Moras. The AKZO Decision: A Case of Predatory Pricing? in «The Journal of Industrial Economics»; Vol. 41 No 3, Sep., 1993, pp. 315 – 321. [7] Interessanti dibattiti sono stati sollevati dai giuristi ed economisti del tempo in ordine alla decisione della Commissione sul caso in questione. In particolare, si veda R. Rapp, Predatory pricing and entry deterring strategies: the economics of Akzo, in «European Competition Law Review», ECLR Oxford, Vol. 7, No. 3, 1986, pp. 233-240. [8] Per un’analisi del caso Vd anche D. Guy: The Akzo case. Predatory pricing as an abuse of dominant position, in: «European Intellectual property review», EIPR Oxford, Vol. 9, No. 3, March 1987, pp. 86-89. [9] P. Giudici, I prezzi predatori, Milano, Giuffrè, 2000. [10] La nozione di sfruttamento abusivo è una nozione oggettiva, che riguarda il comportamento dell’impresa in posizione dominante atto ad influire sulla struttura di mercato in cui, proprio per il fatto che vi opera detta impresa, il grado di concorrenza è già sminuito e che ha come effetto di ostacolare, ricorrendo a mezzi diversi da quelli su cui si impernia la concorrenza normale tra prodotti o servizi fondata sulle prestazioni degli operatori economici, la conservazione del grado di concorrenza ancora esistente sul mercato o lo sviluppo di detta concorrenza, sentenza Hoffmann -La Roche/Commissione, causa 85/76. [11] “The Court emphasized that the concept of an abuse is an objective one, although the test which it devised retains an element of subjectivity”. J. Faull – A. Nikpay, The EC Law of Competition, Oxford, Oxford University press, 2007. Sul punto vedi: F. Alese, Federal Antitrust and EC Competition law analysis, casa editrice Ashgate, 2008. [12] La Corte considera abusivi i prezzi superiori agli AVC (average variable cost) ma inferiori agli ATC (average total cost) qualora siano parte di un piano diretto ad eliminare il concorrente. Sulla base del criterio di Areeda – Turner, invece, non vi è predazione qualora i prezzi siano superiori agli AVC. [13] A. Jones – B. Sufrin , EC Competition Law. Text, cases, and materials., Oxford, Oxford University Press, 2001. [14] P. Fattori – M. Todino, La disciplina della concorrenza in Italia, Bologna, Il Mulino, 2004. Sul punto vd. anche: R. Whish, Competition Law, Oxford, Oxford University press, 2009. [15] Sul punto Vd: L. Prosperetti, M. Beretta, M. Siragusa, M. Merini, Economia e diritto antitrust, un’introduzione., Roma, Carocci editore, 2006. [16] Commissione delle Comunità Europee, 24 luglio 1991. [17] In particolare, l’Organo comunitario ha riscontrato, sulla base di dati chiari ed univoci, che la redditività del prodotto in questione risultava negativa (da -10 a – 34%); in Italia le perdite registrate non mostravano un carattere occasionale in quanto esse si erano prolungate su un periodo di sette anni ed erano tali che il prezzo di vendita era lungi dal coprire i soli costi variabili e, in taluni casi, addirittura il solo costo delle materie prime. [18] Non occorreva dimostrare l’esistenza di una posizione dominante di Tetra Pak sul mercato non asettico, poiché i nessi esistenti fra i diversi mercati di cui sopra mostrano che un approccio distinto è infondato. La Commissione a tal proposito “si richiama su queste punto alle sentenze della Corte di giustizia nelle cause 6 e 7/73 «Commercial Solvents» e 311/84 CBEM/CLT («Télémarketing»), in particolare ai punti 23 e 25 della motivazione di quest’ultima sentenza, dove la Corte ha riconosciuto che l’esistenza di una posizione dominante su un mercato può creare una possibilità di controllare le attività delle imprese concorrenti su un mercato vicino. Nel caso di specie, la CGCE ha ritenuto che gli stretti legami esistenti trai i due marcati giustificassero l’applicazione della normativa antitrust. [19] La Commissione, ha giustamente analizzato l’eventuale esistenza di giustificazioni economiche alla base di un tale comportamento e, pertanto, ha ritenuto che «se è difficilmente ammissibile che un comportamento così evidentemente in contrasto con la logica della redditività economica e che proviene da un’impresa multinazionale estremamente efficiente possa dipendere da un semplice errore di gestione, occorre altresì chiedersi se circostanze eccezionali indipendenti dalla volontà di Tetra Pak abbiano potuto costringere tale gruppo a subire queste perdite nella vendita del suddetto prodotto». Così non sembrerebbe: è infatti da escludere che si trattasse di prezzi lancio, considerata sia la durata che l’entità delle perdite, sia il fatto che Tetra Pak era già da lungo tempo presente, e in posizione dominante, sul mercato dei cartoni di tipo Brik al momento in cui ha introdotto il cartone Rex e che la stessa disponeva di tutta l’infrastruttura tecnica e commerciale necessaria. Non si poteva nemmeno ritenere si trattasse di una risposta di Tetra Pak ad una pressione sui prezzi esercitata da Elopak, in quanto, per tutto l’arco del periodo considerato, Tetra Pak ha venduto il prodotto Rex nettamente al di sotto dei prezzi praticati dalla concorrente Elopak per il Pure-Pak e addirittura la differenza di prezzo tra i due prodotti è andata sempre di più aumentando, mentre le perdite sul cartone Rex aumentavano. [20] La Tetra Pak impugna infatti il provvedimento della Commissione dapprima dinnanzi al Tribunale, contestando il carattere eliminatorio dei propri prezzi e giustificando il loro livello sulla base di un accanita competizione commerciale esistente tra essa e la propria concorrente. Secondo la Tetra Pak, la vendita del prodotto al di sotto del costo variabile medio avrebbe potuto avere spiegazioni economiche alternative ad un mero intento estromissorio e ha argomentato come la sentenza Akzo non potesse essere interpretata nel senso di un divieto di praticare, da parte di un’impresa in posizione dominante, vendite a prezzi inferiori ai costi medi variabili. Incomberebbe poi alla Commissione, secondo Tetra Pak, non solo provare l’esistenza di un proposito eliminatorio ma, affinché le vendite in perdita configurassero una politica predatoria dei prezzi, era necessario che l’impresa che le effettuava potesse ragionevolmente pensare di recuperare, in seguito, le perdite volontariamente riportate, richiamandosi, a tal proposito, al criterio utilizzato dalla Suprema Corte degli Stati Uniti nel caso Brooke Group/Brown & Williamson Tobacco del 1993. In sintesi, affinché fosse configurabile una strategia predatoria era necessaria, secondo la ricorrente, l’esistenza della possibilità di recupero delle perdite durante la fase monopolistica successiva all’esito positivo della predazione. Si trattava del cosiddetto «recoupment test» ampiamente supportato sia dalla dottrina sia dalla giurisprudenza statunitense. Tale possibilità secondo Tetra Pak sembrava potersi escludere nel caso in questione. [21] Corte di giustizia, sentenza del 14 novembre 1996, causa C-333/94P. [22] Case Comment: A. Jones, Distinguishing Predatory Prices from Competitive Ones: Tetra Pak II, in «European Intellectual Property Review», 1995, pp. 252-259. [23] R. Whish, Competition Law, cit. [24] Commissione, 18 luglio 1988, Napier Brown – British Sugar. [25] Punto 20 del provvedimento di cui sopra. La fattispecie avrebbe forse potuto rilevare come compressione dei margini o price squeeze. Si è a lungo discusso, per quanto concerne la collocazione del c.d. price squeeze nell’ambito dell’art. 102 T.F.U.E., se esso configurasse un abuso stand alone, o se invece non fosse più esatto inquadrarlo, di volta in volta, fra i casi di imposizione di prezzi eccessivamente alti o discriminatori, o di prezzi predatori. Sebbene la Commissione si sia in passato più volte mostrata incline ad un riconoscimento autonomo della violazione, il Guidance Paper l’ha espressamente ricompresa tra le ipotesi di rifiuto di contrarre, assoggettandola ai presupposti tipici dell’essential facility. Sennonché, nelle recenti pronunce Deutsche Telecom e TeliaSonera, la Corte ha affermato la rilevanza autonoma della pratica, senza che sia necessario da un lato, che l’input a monte costituisca un’essential facility in virtù della quale sussista un obbligo legale di contrarre, dall’altro che le tariffe all’ingrosso e quelle al dettaglio siano di per sé abusive. La constatazione dell’esistenza della pratica considerata richiede dunque un’analisi volta a verificare la sussistenza di alcune condizioni: l’impresa deve detenere una posizione dominante sul mercato del prodotto a monte (prodotto di base o materia prima), deve altresì operare sul mercato del prodotto a valle (prodotto finito). Le imprese che operano a valle non riescono – a causa dell’incidenza del prezzo del prodotto di base sul costo di produzione del prodotto derivato – a sostenere il confronto competitivo sul mercato di quest’ultimo prodotto. Vd: A. Pappalardo, Il diritto comunitario della concorrenza. Profili sostanziali, Torino, Utet Giuridica, 2007; Faella G. – Pardolesi R., Squeezing price squeeze: la compressione dei margini nel diritto antitrust comunitario, in «Mercato concorrenza regole», 1, 2010, pp. 29 – 62, G. Colangelo, Il margin squeeze in Europa dopo Deutsche Telecom e TeliaSonera, in «Mercato concorrenza regole», 2, 2011, pp. 367 – 377. [26] Commissione, 5 dicembre 1988. [27] La riduzione dei prezzi era di entità minima e non aveva carattere discriminatorio (pag. 67 par. 132-133) . [28] Commissione 16 luglio 2003, caso COMP/38.233 − Wanadoo Interactive. [29] Per un’analisi del caso: M. S. Gal, Below – Cost Price Alignment: Meeting or Beating Competition? The France Télécom Case, in: «European Competition Law Review», 2007, Vol. 28, n. 6, pp. 382 – 391. [30] «Several documents found on Wanadoo Interactivès premises attest the existence of a strategy of preemption of the high – speed market on “ADSL market” (110) ». «A translation of this concept of preemption into market share terms can be seen in several documents, which state that Wanadoo Interactive is trying not just to be the market “leader” but to take and hold very large market share (112)». «A large number of company documents, […] confirm that the company was aware of the dangers associated with its pricing of ADSL services from a very early stage. These documents clearly show that Wanadoo Interactive knowingly weighed a short term profitability objective against an objective of vigorous penetration of the market, and that it deliberately sacrificed the first to the second (126)». Decisione della Commissione del 26 luglio 2003, COMP/38.233. [31] La WIN aveva ribadito la razionalità, in termini di efficienza, del proprio comportamento commerciale in quanto le avrebbe consentito di guadagnare esperienza e ridurre i costi della futura produzione. A tal proposito la Commissione aveva sancito che «for an argument based on efficiency gains to be admissible, it must be possible to prove that such gains could not have been achieved by means other than a below – cost selling strategy. In the present case, there is no guarantee that such gains could not have been achieved had the market developed in a balanced manner» (307). La WIN aveva inoltre sostenuto che la vendita a prezzi bassi del servizio ad alta velocità le avrebbe consentito una maggiore diffusione dello stesso tra i consumatori. Anche in tal caso, la Commissione ha rigettato l’argomentazione difensiva sostenendo che «An undertaking in a dominant position has no need to practice predatory pricing in order to attract new customers and draw consumers’ attention to the product» (311). [32] La Corte di giustizia ha riconosciuto, in particolare, in AKZO che la condotta predatoria si giustificava proprio in funzione di un successivo recupero; mentre in Tetra Pak II, ha sottolineato come nelle circostanze del caso non fosse necessario dimostrare la possibilità di recupero delle perdite. Sebbene la Commissione non lo considerasse un criterio necessario ai fini della classificazione di una pratica come predatory, ha ritenuto probabile, nel caso in questione, il recupero dei costi. A tal proposito ha sancito che «subsidiarily, it must be pointed out that the recoupment of losses is rendered plausible in the present case by the structure of the market and the associated revenue prospects (336). The Commission considers that there are indeed significant entry barriers and high entry costs to be paid for the acquisition of a critical size, even if these obstacles are not absolute in nature. Contrary to what Wanadoo Interactive maintains, entry (or reentry) into and the acquisition of a critical size on the relevant market are costly and time – consuming. These features create an environment conducive to the maintenance by Wanadoo Interactive of a position of very strong dominance and prevent the growth of competitors representing a danger to Wanadoo Interactive. The recoupment by Wanadoo Interactive of its initial losses is therefore a likely scenario. The predatory strategy introduced in 2000 appears pertinent in this context » (367). [33] Ragion per cui sarebbe stato particolarmente irrazionale cercare di escludere concorrenti su un mercato con tali caratteristiche, poiché ciò avrebbe comportato, anche se vi fosse stata esclusione, l’onere di dover affrontare un possibile ingresso in ogni momento, annullando in tal modo l’eventuale interesse all’esclusione dei concorrenti. [34] Sentenza del Tribunale di primo grado del 30 gennaio 2007, causa T 340/03 [35] Nel senso di una strategia aggressiva, tuttavia non predatoria, si A. Giannaccardi, Il caso Wanadoo, in: «Mercato Concorrenza e Regole», 1, 2007. [36] Quindi, per quanto concerne le pratiche in materia di prezzi, i prezzi inferiori alla media dei costi variabili praticati da un’impresa che detiene una posizione dominante sono giudicati di per sé abusivi, in quanto l’unico interesse che l’impresa può avere a praticare simili prezzi è quello di eliminare i propri concorrenti e prezzi inferiori alla media dei costi totali, ma superiori alla media dei costi variabili, sono abusivi allorché sono fissati nell’ambito di un disegno inteso a eliminare un concorrente. Non sarebbe stata necessaria alcuna dimostrazione degli effetti concreti delle pratiche di cui trattasi. [37] La Commissione a tal proposito aveva ribadito che la giurisprudenza chiaramente non richiederebbe in alcun modo il recoupment test. Ad abbundantiam, tale recupero era reso plausibile, nel caso in questione, dalla struttura del mercato e dalle prospettive di ricavi ad esso associate. La WIN ha poi anche esperito il tentativo di giustificare il proprio comportamento in quanto portatore di economie di scala e di processi di learning by doing. Gli argomenti avanzati dalla WIN, che avrebbero giustificato, nella fattispecie, i prezzi al di sotto dei costi, non erano tuttavia di natura tale da rimettere in causa la conclusione alla quale è giunto il Tribunale, e dunque esonerare l’impresa dalla sua responsabilità ex art. 82. Infatti, l’impresa che pratichi prezzi predatori può beneficiare di economie di scala e di effetti dell’apprendimento a causa di una produzione aumentata proprio grazie a tale pratica. Le economie di scala e gli effetti dell’apprendimento ottenuti, non possono in alcun modo esonerare l’impresa dalla sua responsabilità. [38] Sentenza della Corte del 2 aprile 2009. France Télécom Sa contro Commissione delle Comunità europee. Causa C-202/07P. [39] Per un’attenta analisi del caso si veda: A. Alemanno e M. Ramondino, The ECJ France Télecom/Wanadoo Judgment: “To Recoup or not to Recoup? That “was” the question for a predatory price finding under Article 82 EC, in: «European Law Reporter», 2009. N. 6, Jun, pp. 202-210. Si veda inoltre A. Giannaccardi, Il caso Wanadoo, in: «Mercato Concorrenza e Regole», 1, 2007. pp. 109 – 117. [40] La Corte Suprema considera infatti quale elemento essenziale ai fini della sussistenza della pratica di predatory pricing la «probabilità reale che l’impresa dominante sarà capace di recuperare le perdite subite durante la messa in opera della pratica, aumentando i prezzi una volta eliminata la concorrenza» , (Brooke Group Ltd. v. Brown Ɛ Williamson Tobacco Corp., in US Law Week 4699 21 giugno 1993). Sulla necessità di un’attenuata applicazione del test si veda: C. S. Hemphill, The Role of Recoupment in Predatory Pricing Analyses, in: «Stanford Law Review», Vol. 53, No. 6, Jul., 2001, pp. 1581-1612. [41] Conclusioni dell’Avvocato Generale del 25 settembre 2008, Sentenza della Corte del 2 aprile 2009. France Télécom Sa contro Commissione delle Comunità europee. Causa C-202/07P. [42] Commissione, 26 novembre 1986, Melkunie Holland e altri (Meldoc), in G.U.C.E., n. L 348 del 10 dicembre 1986, p. 50. [43] Si trattava di una restrizione cosiddetta hard-core non suscettibile di esenzione per categoria. [44] House of Lords, 18 December 1891, Mogul Steamship Co. versus McGregor, Gow & Co. and others, (1892) A.C.2. [45] Commissione, decisione del 23 dicembre 1992, 93/83/CEE. [46] Il concorrente indipendente, grazie ad una politica di noli molto aggressiva, era riuscito a ritagliarsi una quota pari al trenta per cento circa del mercato di riferimento. [47] La definizione di posizione dominante collettiva e di coordinamento tra le imprese in questione, soprattutto a livello di differente onere della prova, ha dato adito ad ampi dibattiti dottrinali. Qui è sufficiente ricordare che, trattandosi di una conferenza marittima che deteneva una quota di mercato pari al 90% dello stesso, risultava agevole, per gli Organi comunitari, la prova della sussistenza di una posizione dominante collettiva e del relativo abuso. [48] Sentenza del Tribunale di primo grado dell’8 ottobre 1996. – Compagnie marittime belghe contro Commissione delle Comunità europee. Cause riunite T-24/93, T-25/93, T- 26/93, T- 28/93. [49] In particolare, sentenza 6 ottobre 1994, Tetra Pak/Commissione, citata, punto 114. [50] Infine, se l’esistenza di una posizione dominante non privi un’impresa che si trovi in questa posizione del diritto di tutelare i propri interessi commerciali, qualora questi siano insidiati, e se detta impresa ha la facoltà, entro limiti ragionevoli, di compiere gli atti che essa ritenga opportuni per la protezione di tali interessi, non è però ammissibile un comportamento del genere che abbia lo scopo di rafforzare la posizione dominante e di farne abuso. Sentenza del Tribunale 1° aprile 1993, causa T-65/89, BPB Industries e British Gypsum/Commissione, Racc. pag. II-389, punto 69 [51] Sentenza del 16 marzo 2000, cause riunite C-395/96P, C-396/P. [52] La posizione dominante può assumere diversi gradi di intensità. Nelle sue conclusioni alla causa, peraltro, l’Avv. Gen. Fennelly esplicitamente enunciava l’innovativa teoria della superdominanza secondo cui, per quelle imprese dotate di una posizione di completo dominio sul mercato, vigerebbe una responsabilità accresciuta, con la conseguenza che, ad esempio, una strategia di prezzi aggressivi non necessariamente inferiori ai costi potrebbe essere considerata di già abusiva, ove trasparisse l’intento escludente dell’impresa. Fattori – Todino, La disciplina della concorrenza in Italia, cit. Si veda anche I. V. Bael – J. F. Bellis, Il Diritto comunitario della concorrenza, Torino, Giappichelli, 2009. [53] Non a caso, già nel 1981 Easterbrook (Easterbrook, Predatory Strategies and Counterstrategies) iniziava la trattazione del proprio articolo osservando ironicamente come “c’è un mercato altamente concorrenziale per le teorie sul predatory pricing”. [54] Altro discorso rileverebbe qualora i costi aziendali dell’impresa dominante, non fossero inferiori in virtù di maggiore efficienza, ma a causa del mancato rispetto delle normative concernenti l’attività d’impresa.
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