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Contrattazione a distanza e nuovi diritti dei consumatori: quale ruolo per il public enforcement?

di Anna Argentati Sommario: 1. Premessa. – 2. La cornice ordinamentale entro cui si inscrivono le nuove norme – 3. Il public enforcement: ratio e portata innovativa. – 3.1 Il contenuto della nozione di “violazioni delle norme di cui alle Sezioni I-IV” e il rapporto con il divieto di pratiche commerciali scorrette. – 3.2 Autorità amministrativa e giudice ordinario. – 3.3 Il rapporto con le altre autorità indipendenti: cenni. – 4 Osservazioni conclusive. 1.Premessa Il decreto legislativo 21 febbraio 2014, n. 21 costituisce l’ultimo tassello di un percorso legislativo che ha visto negli anni rafforzare sensibilmente le tutele per i consumatori ed ampliare le competenze dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, arricchendone il profilo istituzionale e le possibilità di intervento. L’origine dell’intervento è noto. Obiettivo della direttiva comunitaria cui esso dà recepimento era quello di semplificare e aggiornare le norme di cui alle precedenti direttive 85/577/CEE per la tutela dei consumatori in caso di contratti negoziati fuori dei locali commerciali, e 97/7/CE riguardante la protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza, rimuovendo le incoerenze, colmando le lacune e rimediando all’eccessiva frammentazione delle normative nazionali attuative delle previgenti direttive europee. Ciò nella consapevolezza che il potenziale transfrontaliero delle attività di vendita a distanza, e in particolare di quelle on-line, non risulta ad oggi pienamente sfruttato e occorre perciò migliorare il funzionamento del mercato interno, aumentando la fiducia dei consumatori, e consentendo alle imprese che operano a livello trans-frontaliero risparmi in termini di oneri amministrativi e spese di esercizio. In tale quadro, il d. lgs. n. 21/2014 interviene, da un lato, innovando in numerosi punti la disciplina dei contratti di consumo, con previsioni che riguardano soprattutto i contratti a distanza, stipulati via internet o telefonicamente, ma, in misura minore, anche i contratti di tipo tradizionale conclusi all’interno dei locali commerciali; dall’altro, detta alcune importanti previsioni in tema di tutela amministrativa, prevedendo la competenza unica dell’Autorità ad applicare le nuove norme e sancendo in via definitiva la scelta del principio di unitarietà nella tutela amministrativa dei consumatori. In particolare, il riconoscimento in capo all’AGCM del potere di accertare e sanzionare le violazioni delle nuove disposizioni segna un chiaro avanzamento della tutela pubblicistica affidata all’Autorità. Al contempo – ed è questa l’altra novità fondamentale – l’AGCM riconquista la piena competenza ad occuparsi di pratiche commerciali scorrette nei settori regolati, che era stata esclusa dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. A tali previsioni si accompagna, infine, un deciso inasprimento delle sanzioni amministrative, il cui tetto massimo sale da 500 mila a 5 milioni di euro. Scopo del presente scritto è approfondire il public enforcement delle nuove norme, terreno sul quale la disciplina non manca di destare interesse ed anzi – per usare le parole di un autorevole studioso – può persino suscitare una “qualche inquietudine”. A dispetto infatti del generale favor con cui è stata salutata la nuova competenza, e a fronte della ormai consolidata ricostruzione della tutela del consumatore in termini di complementarietà con il diritto antitrust, non si può non sottolineare come la nuova attribuzione, se in astratto presenta degli evidenti elementi di contiguità con quella in tema di pratiche commerciali scorrette, dall’altro si presta anche a sollevare taluni non secondari interrogativi in merito alla ratio del controllo amministrativo: e ciò essenzialmente per il fatto che le nuove norme sembrano, prima facie, rivolte a colpire soltanto comportamenti posti in essere nell’ambito di singoli rapporti contrattuali, nell’apprezzamento dei quali da parte dell’AGCM sfuma, anzi perde ogni rilievo il “mercato” quale orizzonte di valutazione e obiettivo ultimo dell’azione amministrativa. E’ lecito prevedere, dunque, che il nuovo assetto non potrà non offrire nuova linfa ad un dibattito che si protrae ormai da anni e che ruota intorno al ruolo dell’Autorità antitrust: in che misura cioè risulti desiderabile che tale Istituzione pubblica sia chiamata a farsi carico anche di conflitti propriamente interindividuali (a prescindere dall’impatto sul mercato) e se la soluzione prescelta non riproponga con forza il tema della progressiva “amministrativizzazione” della tutela giuridica nell’ordinamento, a cui da tempo una parte della dottrina commercialistica dedica le proprie riflessioni critiche. Se, in definitiva, il rischio non sia quello di una “ibridazione del ruolo dell’Autorità, di una sua trasformazione cioè in una sorta di giurisdizione speciale chiamata in causa per dare soddisfazione a istanze individuali di tutela Di seguito, dopo alcuni cenni alla cornice ordinamentale entro cui si iscrivono le previsioni, si approfondiranno alcuni aspetti di maggiore interesse della nuova competenza amministrativa. A conclusione, sarà così possibile svolgere alcune considerazioni sul ruolo dell’Autorità e sul valore aggiunto che la sua azione può portare nell’applicazione delle nuove norme in materia di contratti a distanza. 2. La cornice ordinamentale entro cui si inscrivono le nuove norme Se si vuole inquadrare sinteticamente le nuove previsioni, non si può fare a meno di rilevare come le stesse si inscrivano in un contesto normativo nel quale è andato via via assumendo crescente importanza il tema del rapporto tra tutela del mercato concorrenziale e rispetto di principi di correttezza, equilibrio ed equità nei rapporti economici, anche sotto il profilo, prettamente istituzionale, dell’actio finium regundorum tra le attribuzioni delle diverse Autorità amministrative di regolazione e di garanzia. In particolare, ciò a cui si è assistito in un’ottica evolutiva è stata la crescente attenzione prestata dal legislatore verso strumenti e rimedi giuridici idonei all’individuazione non solo dei requisiti dell’agire lecito negoziale rispetto a parametri estrinseci e formali, ma anche sotto il profilo sostanziale dell’equilibrio negoziale, dell’equo bilanciamento di diritti ed obblighi, della correttezza. Ciò è accaduto – come noto – innanzitutto per il consumatore finale, per il quale si è passati dalla tutela formale codicistica alla tutela sostanziale consumeristica, ma è altresì noto come ben presto il legislatore abbia esteso anche oltre il consumatore finale le tutele del contraente debole (si consideri la recente estensione della tutela contro le pratiche commerciali scorrette alle microimprese), arrivando a sfidare il principio di autonomia contrattuale nei rapporti tra imprese e inducendo una parte della dottrina a parlare di “terzo contratto”: è sufficiente porre mente ai rapporti inter-imprenditoriali, in cui il presidio dell’equilibrio del sinallagma contrattuale è affidato al divieto di abuso di dipendenza economica, ma anche all’art. 62 del d.l. n. 1/2012 che ha introdotto una disciplina speciale dei contratti e dei rapporti commerciali lungo la filiera agroalimentare.In estrema sintesi, dalla crisi del dogma della libertà contrattuale si è passati attraverso una serie variegata di interventi all’esigenza di conciliare il principio dell’autonomia privata nelle contrattazioni di mercato strutturalmente squilibrate. A livello più generale, tali interventi rappresentano tutti il chiaro indice di come all’interno dell’ordinamento sia stato accolto il principio che l’efficienza del mercato presuppone sempre (anche) un contesto sociale ordinato in termini di correttezza dei comportamenti. In altre parole, traspare un’impostazione di fondo secondo cui un sistema di economia sociale di mercato per funzionare in modo efficace ed efficiente, contribuendo al tempo stesso al benessere della collettività, debba essere governato anche da principi e paradigmi di vario tipo che assicurino equilibrio, correttezza ed equità negli scambi. A fronte di tale linea evolutiva sul piano del diritto sostanziale, si è assistito negli anni alla progressiva “dilatazione” delle competenze dell’AGCM, individuata di volta in volta dal legislatore come l’Istituzione meglio posizionata per far fronte alle nuove esigenze di tutela: una espansione per via orizzontale che ha, peraltro, impegnato non poco la dottrina più avvertita (e la stessa AGCM) nel tentativo di trovare una chiave di lettura “armonizzante” delle nuove attribuzioni, coerente con la missione istituzionale originaria. Sicché, per l’art. 9, comma 3bis, della l. n. 192/1998 in tema di abuso di dipendenza economica è nota la ricostruzione in chiave filo-concorrenziale che del divieto è stata offerta da una parte della dottrina, come pure è noto che la medesima operazione interpretativa è stata compiuta, più di recente, con l’art. 62 della legge L. 1/2012 in tema di rapporti commerciali lungo la filiera agro-alimentare. Analogo sforzo è stato compiuto altresì per le norme a tutela del consumatore: quanto alla disciplina delle pratiche commerciali scorrette, ci si è chiesti, tra l’altro, se fosse disciplina dell’atto o dell’attività d’impresa; si è fatto leva sulla nozione legislativa di “pratica”, si è sostenuto altresì che l’intervento repressivo dell’Autorità ha un senso in tanto in quanto il comportamento risulti “socialmente apprezzabile” e in grado di incidere sul mercato; quanto infine alla competenza di recente introdotta in tema di clausole vessatorie si è cercato di circoscrivere e valorizzare la funzionalità dell’intervento amministrativo rispetto alla tutela del mercato in generale. La questione della ratio e del ruolo dell’AGCM si ripropone ora, in termini forse ancora più netti, con la nuova competenza in materia di diritti dei consumatori nei contratti, imponendo all’interprete una riflessione sia in ordine all’inquadramento sistematico delle norme sia in ordine alla loro compatibilità funzionale con la promozione delle dinamiche competitive perseguita dall’AGCM, sia infine ai presupposti dell’intervento amministrativo. Non si tratta di stabilire se la nuova competenza sia in sé opportuna e necessaria quanto se il sistema istituzionale che ne risulta presenti caratteristiche di razionalità ed efficacia. In tale ottica, le maggiori difficoltà nascono dal fatto che, se si scorrono le nuove norme, il dato che colpisce – e che potrebbe apparire persino un paradosso – è che il buon funzionamento del mercato, la cui tutela è iscritta nel nomen e nel codice genetico dell’AGCM, sembra definitivamente sparire dall’orizzonte del suo giudizio. Dal punto di vista testuale, non vi è alcun riferimento in esse che possa indurre ad accogliere una soluzione interpretativa per cui la violazione dei diritti dei consumatori nei contratti, per poter essere colpita dall’Autorità, dovrebbe raggiungere la consistenza di un comportamento ripetuto e costante e neppure vi è un riferimento all’idoneità a falsare in modo rilevante il comportamento del “consumatore medio” o ad un impatto “rilevante” o “apprezzabile” o “non trascurabile”. Sembra invece che le violazioni che il legislatore ha inteso colpire nascono e si sviluppano in un ambito esclusivamente contrattuale e solo in via indiretta si prestano ad incidere sulle dinamiche di mercato; l’ambito di riferimento cioè nel quale l’Autorità dovrebbe valutare le condotte è costituito dal singolo rapporto negoziale, mentre nessun riferimento impone di apprezzare lo stesso in relazione al complesso delle relazioni economiche del mercato di riferimento o all’impatto sullo stesso. Se così fosse, sarebbe difficile negare che le nuove norme si prestano ad inaugurare un modello di tutela originale e fortemente innovativo con il quale – al di là di ogni giudizio che in merito voglia esprimersi – giungerebbe a compimento una lunga parabola legislativa: una parabola che, partendo dalla disciplina della pubblicità ingannevole, passando per quella delle pratiche commerciali scorrette e arrivando infine ai diritti dei consumatori nei contratti, perde definitivamente di vista l’obiettivo del buon funzionamento del mercato. Con la conseguenza che, in punto di tutela amministrativa, il punto di approdo sembrerebbe diventare quello della difesa incondizionata dei consumatori, difesa che invece incontrava sia nel caso della pubblicità ingannevole che in quello delle pratiche commerciali scorrette – entrambe affidate alla competenza dell’Autorità – alcuni significativi limiti in termini di massima tutela. Se teniamo conto di ciò, sembra di poter dire che, dal punto di vista sistematico, ci troviamo di fronte ad una disciplina che tende ad allontanarsi dal modello di un diritto delle imprese e del mercato, per avvicinarsi invece ad un modello di diritto privato dei consumatori. Il punto – è ovvio – meriterebbe ben più profonda trattazione; purtuttavia, il suo richiamo è già di per sé sufficiente a comprendere come esso ponga con forza all’interprete il problema del ruolo del public enforcement nella materia de qua. Vale dunque la pena di spendere qualche momento di riflessione ulteriore sulla questione indicata, la corretta soluzione della quale risulta necessaria sia per dare un senso al quadro normativo introdotto sia per orientare l’Autorità nell’applicazione della disciplina Occorre in particolare chiedersi se, nel delineare il possibile ruolo dell’AGCM, ci si debba fermare al dato testuale della norma (in virtù del quale l’Autorità sembrerebbe subire una vera e propria “mutazione genetica”, trasformata in una sorta di pubblico tutore di interessi privati o, se si vuole, in un organo giudicante di un conflitto intersoggettivo) o non occorra ragionare invece a livello sistematico. Il dubbio ha una sua precisa ragion d’essere perché l’impostazione sopra indicata, sebbene risulti quella più immediata e aderente al testo della norma, presenta degli elementi di eccentricità rispetto a tutta una serie di indici che stridono con il modello della tutela individuale che sarebbe stato affidato all’Autorità: tra questi, rilevano i) l’obiettivo perseguito dalla direttiva; ii) la natura amministrativa dell’AGCM, iii) il suo potere di agire d’ufficio (senza impulso di parte o addirittura contro la volontà dell’interessato), iv) la discrezionalità nel fissare le priorità d’intervento, v) il potere sanzionatorio, vi) la sovrapposizione con il giudice ordinario Tutti questi indici verranno variamente ripresi e argomentati in seguito. Dirò subito però che, a mio avviso, sebbene il dato testuale non suffraghi la tesi, in realtà, leggendo le norme in chiave sistematica e dando adeguato valore agli indici sopra richiamati, è possibile offrire una lettura diversa da quella suggerita in prima battuta, e ricondurre il controllo amministrativo dell’AGCM alla cura di un interesse generale qualificato, più precisamente al diritto del mercato e della concorrenza. 3. Il public enforcement: ratio e portata innovativa Volendo delineare i tratti essenziali del public enforcement, va osservato preliminarmente che la c.d. direttiva consumers rights non vincolava il legislatore nazionale, ma consentiva agli Stati la scelta tra un sistema di applicazione affidato ad organi giurisdizionali ed un sistema affidato ad organi amministrativi; il nostro sistema ha scartato la via del giudice ordinario ed ha individuato l’organo competente all’applicazione delle nuove norme l’AGCM: scelta apparsa probabilmente in qualche modo obbligata, visto che da anni l’AGCM è ormai l’Istituzione responsabile della tutela del consumatore n dell’ordinamento. In tale quadro, la previsione fondamentale è contenuta all’art. 66, co. 2 del d. lgs. n. 21/2014, ai sensi del quale “L’Autorità, d’ufficio o su istanza di ogni soggetto o organizzazione che ne abbia interesse, accerta le violazioni delle norme di cui alle sezioni da I a IV del presente Capo, ne inibisce la continuazione e ne elimina gli effetti”. Stabilisce inoltre, la stessa disposizione, al co. 3, che l’Autorità è chiamata ad esercitare la nuova competenza con poteri di accertamento, inibitori e sanzionatori ex art. 27 del Cod cons. (commi 2-15): dunque, con gli stessi di quelli previsti in materia di pratiche commerciali scorrette. L’individuazione dell’AGCM come autorità competente a sanzionare eventuali violazioni dei nuovi diritti dei consumatori è stata in generale accolta con favore, come già detto, perché troverebbe la sua ratio nella stretta connessione che la nuova competenza presenta con quella in tema di pratiche commerciali scorrette e di clausole vessatorie: si tratterebbe, infatti, di una competenza orizzontale e non settoriale, che si sostanzia nell’applicazione di una disciplina posta a tutela dei consumatori e che – insieme alla norma che ripristina la competenza piena in tema di pratiche scorrette nei settori regolati – fa dell’Autorità un’autorità a tutto tondo nella tutela del consumatore. La norma esprimerebbe, dunque, la preferenza del legislatore per una tutela amministrativa in materia di carattere collettivo e successivo che va ad affiancarsi agli altri due pilastri su cui poggia oggi il sistema istituzionale del consumatore. In verità, ad una lettura attenta e che vada oltre la mera constatazione di una comune finalità di protezione del consumatore, la disposizione richiamata sembra porre all’interprete diverse questioni interpretative, sia di vertice che di tenore applicativo, sulle quali vale la pena soffermarsi. In particolare, la prima domanda chiave che il nuovo quadro solleva attiene alla ratio di tale competenza. Ci troviamo di fronte a una tutela amministrativa dell’efficienza del mercato o a un nuovo e ulteriore strumento a tutela dei diritti individuali dei consumatori? Come già rilevato, se ci si ferma al dato testuale, l’interesse generale del mercato non emerge da nessuna parte, sicché, da questo punto di vista, si potrebbe sostenere che il modello di tutela amministrativa voluto dal legislatore ha un obiettivo affatto diverso da quello tradizionale. In realtà, sembra a chi scrive che, nel cercare di dare risposta ad un quesito foriero di possibili disarmonie nel sistema, da un dato non si possa prescindere, ovvero dalla stessa direttiva comunitaria oggetto di recepimento: assumendola come canone interpretativo di riferimento, si dischiudono infatti anche altri spazi, si aprono nuove prospettive rispetto alla lettura più immediata sopra riferita. In tale ottica, è noto che la direttiva detta in materia di contratti a distanza norme di armonizzazione massima, vietando agli Stati membri non solo di adottare e/o conservare, per la materia, norme che pongano regole diverse (o meno severe di quelle formulate dalla direttiva), ma anche di adottare e/o conservare norme che pongano regole più severe. Proprio questo divieto rende chiaro (ad onta delle dichiarazioni di principio) che l’obiettivo primario non è la tutela del consumatore: se così fosse stato, infatti, la direttiva avrebbe dovuto consentire agli Stati regole più severe, cioè regole capaci di dare al consumatore una protezione maggiore. In realtà, l’obiettivo primario della direttiva è la creazione di una disciplina che sia identica per tutto il territorio comunitario. L’identità di regole dovrebbe dare infatti un contributo decisivo alle attività transfrontaliere delle imprese; solo in seconda battuta, dovrebbe garantire una tutela adeguata ai consumatori. Questa lettura è confermata dall’articolo 1 della direttiva da cui emerge con chiarezza l’impostazione funzionale accolta. Se così è, l’obiettivo ultimo perseguito è da individuare allora in quello di approntare un sistema di tutela che, pur essendo incentrato sulla protezione dei consumatori, è rivolto in primis alla protezione di interessi della collettività che trascendono quelli specifici delle parti del contratto, afferendo alla realizzazione, quanto meno in prima istanza, dell’obiettivo attribuito all’Unione Europea di provvedere all’instaurazione e al libero funzionamento del mercato interno, in cui la concorrenza non sia falsata. Consegue da ciò che non è casuale la scelta di attribuire proprio all’AGCM – ovvero all’Istituzione pubblica incaricata di presidiare il corretto funzionamento del mercato – le competenze investigative e repressive in materia: la funzione di costruzione del mercato interno, che la direttiva assolve, proietta infatti la normativa de qua – oltre il campo di stretta applicazione dei presidi degli interessi del singolo consumatore – sul terreno dell’azione e delle finalità proprie dell’Autorità. Pare di poter dire cioè che l’obiettivo di policy perseguito dal legislatore interno non è stato tanto quello di approntare uno strumento ulteriore per la tutela degli interessi “individuali” dei consumatori (compito che rimane primariamente riservato all’autorità giudiziaria) quanto piuttosto quello di soddisfare in primis ed in via diretta l’interesse pubblico all’efficiente e corretto funzionamento dei mercati, attraverso la promozione di condizioni di correttezza e trasparenza informativa, a salvaguardia della libertà di scelta del consumatore. Le implicazioni di tale lettura paiono almeno due: per esigenze di buon funzionamento della p.a., segnatamente di efficienza dell’azione repressiva, “si impone di distinguere, in punto di enforcement, tra violazioni che incidono sul funzionamento del mercato in maniera tale da giustificare l’intervento di un’autorità nazionale con il suo apparato pubblicistico, e violazioni che una tale attitudine non hanno, e la cui sanzione può rimanere affidata all’azione privata davanti al giudice ordinario”. Prima ancora, se si condivide l’assunto che la ratio dell’intervento amministrativo è tutelare l’efficienza del mercato, allungando lo sguardo oltre il dato funzionale, si accede alla constatazione che questa dovrà giocoforza ispirare l’applicazione delle nuove norme da parte dell’AGCM. Emerge allora qui una delle questioni chiave sollevate dalla nuova disciplina: quale il contenuto degli illeciti che l’Autorità è chiamata a reprimere? 3.1 Il contenuto della nozione di “violazioni delle norme di cui alle Sezioni I-IV” e il rapporto con il divieto di pratiche commerciali scorrette Gli illeciti che l’Autorità è competente ad accertare sono, ai sensi dell’art. 66, co. 2, “Le violazioni delle norme di cui alle Sezioni I-IV”. Il dilemma concerne, in particolare, la questione se per “violazioni” debba intendersi un “comportamento, imputabile al professionista, ripetuto nel tempo oppure sia sufficiente, ai fini dell’applicazione della disciplina, anche un comportamento sporadico, al limite un singolo atto, di cui non possa escludersi (e non interessa comunque vagliare) il carattere di episodicità”. A chi scrive pare proprio che, se si scorrono le norme in questione, ci si trova di fronte a fattispecie che non prevedono, per il loro concretizzarsi, alcun requisito di sensibilità, diffusione o rilevanza. Neppure rileva l’idoneità ad alterare il comportamento economico del consumatore medio: si tratta in altri termini di violazioni che rilevano “per sé”, a prescindere dall’effetto in concreto e dalla loro abitualità e ripetizione nel tempo. Norme, dunque, caratterizzate da un approccio statico più che dinamico, le quali sembrerebbero aver di mira non tanto l’attività dell’imprenditore, ma i singoli atti in cui tale attività si scompone e si articola, con una prospettiva che differisce profondamente da quella cui è ispirata la disciplina delle pratiche commerciali scorrette. E’ legittimo allora chiedersi, nuovamente, se un controllo amministrativo così disegnato non si presti a contrastare con la primaria funzione dell’AGCM, che resta quella di tutelare l’interesse generale alla fisionomia concorrenziale del mercato. In altri termini, se non rileva l’alterazione del processo decisionale del consumatore medio e neppure, dunque, l’eventuale interferenza della violazione con la dinamica competitiva del mercato, quale è la ratio dell’intervento repressivo dell’AGCM? Quale l’interesse pubblico tutelato? Emerge con chiarezza su tale terreno tutta la problematicità di un siffatto capillare controllo che le nuove norme sembrerebbero affidare all’Autorità. Come si supera tale discrasia? E come si recupera “l’aggancio” con l’interesse generale? Una possibile strada potrebbe essere quella di riflettere meglio sul rapporto delle norme introdotte con le norme in tema di pratiche commerciali scorrette, chiedendosi in particolare se ci si trovi di fronte a due illeciti amministrativi distinti o ad un unico illecito. In altri termini, quando nell’art. 66, co.2, il legislatore parla di “violazioni delle norme di cui alle sezioni da I a IV”, tali violazioni configurano un illecito amministrativo di per sé (e come tale, da sanzionarsi sempre), ovvero il legislatore ha inteso dire che, in questa materia, rinvia in toto alle norme sulle pratiche commerciali scorrette? Ad oggi, la norma, complice una certa ambiguità del dettato normativo, si presta ad essere interpretata in astratto e potenzialmente, in entrambi i modi. La differenza non è di poco conto: se si tratta di due illeciti, si rimane nel solco della tradizione: una cosa sono le pratiche commerciali scorrette, altra cosa è la violazione di singole previsioni: ad essere mutate, rispetto al passato, sono la competenza e l’entità delle sanzioni irrogabili. E’ questa la soluzione più spontanea ed aderente alla formulazione testuale della norma (il rinvio cioè riguarderebbe la sanzione). Sulla base di questa lettura, la differenza non sarebbe, dunque, solo quantitativa tra ciò che è pratica commerciale scorretta e ciò che non lo è, ma anche di tipo qualitativo. D’altra parte, si potrebbe interpretare la norma de qua anche nel senso che, affinché la violazione sia censurabile dall’Autorità, occorre che essa integri anche una pratica commerciale scorretta, della quale devono ricorrere tutti i presupposti, pena l’assenza di illecito amministrativo. Si tratta di una soluzione meno aderente al testo della norma, ma che avrebbe il pregio della semplicità e, soprattutto, della coerenza sistematica con l’attribuzione della relativa competenza applicativa all’Autorità. Si recupererebbe infatti, in questo modo, la prospettiva della rilevanza non della singola violazione, bensì della serie di atti o comportamenti omogenei: si recupererebbe, in definitiva, il sindacato sul comportamento dell’impresa nelle sue relazioni con i consumatori, consentendo al mercato di ricomparire nell’orizzonte valutativo dell’Autorità. Questa seconda interpretazione – va detto – è tutt’altro che pacifica. Da un lato, bisogna ricordare infatti che la direttiva non obbligava il legislatore a introdurre sanzioni specifiche, ma solo rimedi adeguati: in quest’ottica, quindi, l’art. 66. co 3, del d. lgs. n. 21/2014 potrebbe aver rinviato alle pratiche commerciali scorrette solo per la sanzione. D’altra parte, però, va anche considerato un dato finora trascurato, ovvero che lo stesso decreto ha previsto anche una modifica della norma in tema di multiproprietà, nella quale la vecchia sanzione amministrativa è stata conservata come sanzione distinta. In quest’ultimo caso, risulta molto più agevole per l’interprete sostenere l’autonomia dei due illeciti: essa è, per un certo verso, imposta dal dettato normativo. Diversamente, nel caso dell’art. 66 non c’è più la sanzione ad hoc, specifica per l’illecito in caso di contratti a distanza o negoziati fuori dai locali commerciali. Una possibile lettura della disposizione potrebbe essere allora: se il legislatore ha eliminato la sanzione prevista dalla normativa precedente, ciò vuol dire che la volontà era quella di far confluire tutto nella disciplina sulle pratiche commerciali scorrette. In quest’ottica, dunque, l’AGCM potrebbe sanzionare ex art. 27 Cod. cons. solo se la violazione integra anche gli estremi di una pratica commerciale scorretta. La scarsa chiarezza dell’art. 66 e la modifica della norma in tema di multiproprietà inducono a quest’ultima soluzione. Il difetto grave, secondo taluno, è che questa lettura lascerebbe sfornita di sanzione amministrativa tutta una serie di ipotesi che non hanno i caratteri di diffusione della pratica commerciale scorretta. A questo riguardo, però, è appena il caso di osservare che non si avrebbe alcun vuoto di tutela nell’ordinamento, posto che la violazione occasionale, pur sottraendosi all’intervento dell’AGCM, potrebbe sempre essere perseguita e sanzionata in sede di giurisdizione ordinaria. Si tratta, in definitiva, di una questione di grande rilievo dalla cui soluzione dipende il raggio di intervento dell’Autorità e che potrà essere sciolta soltanto con le prime applicazione in concreto. Va sottolineato al riguardo che i primi commenti alla nuova norma sembrano propendere per una lettura distinta dei due illeciti amministrativi. In quest’ottica, si sostiene che la valutazione di scorrettezza di una pratica commerciale richiederebbe sempre qualcosa “in più” rispetto alle ipotesi di violazioni introdotte dalla novella legislativa (il che significa che molti comportamenti pur integrando una violazione in materia di diritti dei consumatori non costituiscono pratiche commerciali scorrette). Inoltre, la disciplina delle pratiche coprirebbe qualcosa “in più” rispetto ai comportamenti coperti dalla novella legislativa. In altri termini, esistono molteplici comportamenti che, pur non violando la disciplina sui diritti dei consumatori, integrano pratiche commerciali scorrete. D’altra parte, seguendo tale lettura, non possono escludersi neppure casi di sovrapposizione tra i due ambiti normativi, con conseguente rischio di bis in idem. In questi casi, è ovvio che la nuova competenza dell’AGCM richiederebbe di essere raccordata con quella sulle pratiche commerciali scorrette al fine di evitare che il medesimo comportamento sia soggetto ad una duplice sanzione. Ad avviso di chi scrive l’ipotesi di considerarela violazioni delle due discipline come unico illecito in sede di public enforcement meriterebbe di essere attentamente considerata perché in grado di offrire una lettura più coerente e armonizzata della nuova competenza con la missione pubblicistica dell’AGCM. Senza considerare che una siffatta interpretazione avrebbe anche il pregio di evitare i problemi di bis in idem rispetto alle condotte pluri-offensive, risolvendo a monte il problema del concorso di molteplici norme di divieto, e riducendo, almeno in parte, le preoccupazioni di quanti intravvedono, per effetto della nuove norme, i rischi di un rafforzamento del ruolo “pretorio” dell’AGCM a scapito della sua missione tradizionale. A sostegno della lettura proposta (e a testimonianza anche di una certa confusione che ha condizionato la redazione del testo normativo), vale la pena sottolineare, infine, che nella Relazione illustrativa si leggono una serie nutrita di richiami alle pratiche commerciali scorrette tra imprese e consumatori al fine di giustificare la scelta compiuta in punto di competenza amministrativa: chiaro segno che quello è il modello di tutela cui si è ispirato il legislatore interno, il cui obiettivo non era certo introdurre un nuovo originale strumento di enforcement, ma piuttosto quello di eliminare la pregressa competenza delle Camere di Commercio in materia (al fine di eliminare ogni sovrapposizione) e di attribuire la competenza applicativa all’AGCM, mantenendone però fermi i presupposti di intervento. Non a caso, si ricorda con chiarezza, in apertura della citata Relazione, che l’AGCM “esercita già a legislazione vigente la vigilanza sul rispetto delle disposizioni di tutela del consumatore in materia di diritti dei consumatori nei contratti a distanza e in quelli negoziati fuori dai locali commerciali in forza dell’art. 22, comma 5, del Codice del consumo”; si aggiunge altresì che “Peraltro, in ragione del citato articolo 22, comma 5, del Codice del consumo, è opportuno che anche la violazione da parte del professionista di obblighi informativi non esplicitamente richiamati nell’Allegato II della Direttiva 2005/29/CE costituisca una pratica commerciale scorretta sanzionabile dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ai sensi dell’articolo 27 del Codice”. Da ultimo, si conclude “Pertanto, l’attribuzione all’Autorità dei poteri di accertamento e sanzione nelle materie disciplinate dalla direttiva 2011/83/UE risulta coerente con il diritto vigente e consentirebbe di accentrare in capo ad un’unica amministrazione il controllo degli obblighi informativi inerenti le pratiche commerciali tra imprese e consumatori con ricadute positive in termini di applicazione uniforme della legislazione, certezza del diritto per le imprese ed efficacia della tutela garantita ai consumatori”. Si coglie con evidenza nelle affermazioni riportate tutto lo sforzo compiuto dal legislatore per ricostruire il tessuto connettivo tra le isole regolamentari della disciplina e per risolvere, ove possibile, le disarmonie normative, migliorando l’organicità e la coerenza della normativa interna. E’ indubbio, tuttavia, che una più efficace messa a fuoco del rapporto tra i diversi corpus normativi avrebbe apprezzabilmente definito con maggiore chiarezza lestrutture portanti dell’architettura amministrativa e favorito il coordinamento interno delle diverse disposizioni. Ciò nondimeno, per le ragioni illustrate in precedenza, vi sono indizi sufficienti per ritenere che ci si trovi di fronte ad una formulazione infelice delle norme e che, anche in questa materia, elemento imprescindibile perché l’Autorità possa accertare e sanzionare l’illecito sia la sua attitudine ad alterare e influenzare in maniera apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio. 3.2 Autorità amministrativa e giudice ordinario Certamente, e a fortiori se si sostiene la tesi dei due illeciti amministrativi distinti, andrà attentamente analizzato il problema del rapporto tra l’autorità amministrativa e il giudice ordinario, posto che l’art. 66 del d. lgs. n. 21/2014 prevede un sistema binario di enforcement e che la nuova competenza dell’AGCM non fa venir meno – come è ovvio – la possibilità per i consumatori di agire direttamente davanti al giudice per la tutela delle proprie ragioni. Non rientra tra le finalità del presente scritto affrontare le tante questioni che si aprono su tale versante. Al fine di evitare rischi di sovrapposizione, ci si limita qui ad osservare che l’attribuzione della nuova competenza all’autorità amministrativa risulta razionalmente giustificabile se l’intervento dell’Autorità viene concepito alla stregua di un intervento che ha di mira la protezione di interessi generali e/o collettivi senza trasmodare, e risolversi in uno strumento di soluzione di conflitti interindividuali. Funzione, questa, che – come noto – compete e dovrebbe restare al giudice ordinario. Come autorevolmente osservato, il controllo sulle modalità con cui le imprese si rapportano ai consumatori ha senso che venga attribuita alla cognizione di un’autorità amministrativa, competente a salvaguardare interessi generali, solo se le condotte si presentino “socialmente apprezzabili”, se risultino cioè sufficientemente diffuse e/o possano pregiudicare un qualche interesse generale. Ciò che dovrebbe evitarsi è che l’intervento amministrativo sia concepito anziché come funzionale alla tutela di un interesse generale, come strumento di soluzione di conflitti intra-individuali, in una potenziale sovrapposizione con il ruolo del giudice ordinario: con l’Autorità obbligata a trasformarsi in una sorta di pubblico tutore di interessi privati ovvero in un organo sostanzialmente giudicante di un conflitto intersoggettivo – in luogo del giudice ordinario e anzi in una sorta di competizione con esso. Su questo terreno, come visto, le nuove norme presentano una formulazione insoddisfacente, poiché non puntualizzano i presupposti dell’intervento dell’Autorità, ancorandolo al perseguimento di un chiaro interesse di portata generale e/o collettiva. Un siffatto problema può essere, tuttavia, in parte superato, facendo leva sulla considerazione che, nell’ordinamento interno, solo per l’attività giurisdizionale la tutela su domanda di parte non può essere mai negata, mentre nel potere dell’Autorità di agire d’ufficio è racchiuso il potere di stabilire anche delle priorità d’intervento: ciò dovrebbe consentire ad essa di applicare le nuove norme fondamentalmente nell’interesse generale e di selezionare quindi le infrazioni da perseguire in funzione della loro rilevanza e del loro impatto sul mercato. In quest’ottica si muove, peraltro, il nuovo Regolamento sulle procedure istruttorie che attribuisce all’Autorità il potere di fissare delle priorità d’intervento ed anche un ampio potere di archiviazione. Ne deriva che l’AGCM non dovrebbe mai attivarsi per la definizione di controversie meramente intersoggettive “potendo e dovendo attivarsi (su denuncia o d’ufficio) per raggiungere risultati di interesse pubblico significativi per il buon funzionamento dei mercati”.  3.3 Il rapporto con le altre autorità indipendenti: cenni Una delle maggiori novità introdotte dal d. lgs. 21/2014 è certamente la previsione in tema di competenza ad applicare la normativa in tema di pratiche commerciali scorrette. L’art. 67 del decreto introduce, infatti, un nuovo comma 1-bis all’art. 27, compiendo una scelta di chiarezza che dovrebbe contribuire a far superare, almeno in parte, le difficoltà insorte in passato. Non è il caso di ripercorrere qui una storia che viene di lontano. E’ sufficiente ricordare che, a seguito delle note Adunanze plenarie del Consiglio di Stato del 2012, che avevano escluso l’applicazione del Codice del consumo per taluni settori regolati, si era venuta a creare una situazione di incertezza che aveva indotto la stessa Commissione Europea a sollecitare un intervento chiarificatore da parte delle autorità italiane. La novella legislativa individua, diversamente dal passato, un criterio generale di ripartizione preventiva tra la competenza dell’AGCM e quella delle altre Autorità di settore, con la previsione di una fase consultiva (parere obbligatorio) che coinvolge l’autorità di regolazione settoriale in caso di avvio di un procedimento per pratiche commerciali scorrette. In particolare, viene stabilita la competenza dell’AGCM nell’ipotesi in cui il comportamento del professionista, contrario alla regolazione di settore, costituisca una pratica commerciale scorretta, e la competenza residuale dell’Autorità di settore, la quale è chiamata ad accertare la violazione della regolazione di settore solo nell’ipotesi in cui il comportamento non costituisca una pratica commerciale scorretta. Ne deriva che l’art. 27, co 1bis configura i due interventi come alternativi, accordando prevalenza all’accertamento delle pratiche commerciali scorrette da parte dell’AGCM rispetto all’accertamento di violazioni settoriali da parte dell’Autorità di regolazione, in modo da garantire che un medesimo comportamento, pur integrando una doppia violazione, non riceva una doppia sanzione. Anche in tema di diritti dei consumatori nei contratti, uno dei nodi più delicati, sulla scorta dell’esperienza maturata in tema di pratiche commerciali scorrette, attiene al rapporto con le autorità di settore. In proposito, va subito osservato che la questione non ha ragion d’essere per la materia dei servizi finanziari e dei trasporti, in quanto tali settori sono espressamente esclusi dall’ambito di applicazione della direttiva. Si pone invece per l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni e per l’Autorità per l’Energia Elettrica ed il gas. Essa può essere affrontata, distinguendo, come ovvio, due livelli del problema, ovvero la disciplina sostanziale e la competenza. Sul piano del diritto sostanziale, quale rapporto esiste tra le nuove regole e quelle speciali esistenti a livello regolamentare? La direttiva detta una regola identica a quella in tema di pratiche commerciali scorrette (art. 3, co. 2). Tale regola, riprodotta all’art. 46, co. 2, stabilisce che “In caso di conflitto tra le disposizioni delle Sezioni da I a IV del presente Capo e una disposizione di un atto dell’Unione europea che disciplina settori specifici, quest’ultima e le relative norme nazionali di recepimento prevalgono e si applicano a tali settori specifici”. L’indicazione che può desumersi dalla previsione è che le nuove regole sui diritti dei consumatori sono regole generali e soccombono di fronte a regole speciali, ma a due condizioni: i) ci deve essere conflitto, cioè antinomia, contrasto insuperabile a livello interpretativo; ii) le regole speciali devono essere attuative di norme comunitarie. Dunque, in linea di principio, le norme emanate da autorità di settore prevalgono solo se attuative di precetti europei. L’analisi è comunque delicata e, nonostante la formulazione della regola generale, richiede all’interprete di affrontare le questioni caso per caso, operando un confronto tra le singole disposizioni settoriali e le nuove disposizioni introdotte nel Codice del consumo. Se si rivolge l’attenzione alle direttive vigenti nei settori regolati, dei contrasti potrebbero darsi nel settore delle comunicazioni elettroniche, dell’energia e dell’agro-alimentare. In particolare, nel settore delle comunicazioni elettroniche, l’AGCOM ha introdotto regole specifiche sulle modalità di conclusione dei contratti a distanza (e sui rimedi in caso di fornitura non richiesta). Ci si riferisce alla delibera AGCOM n. 664/06/CONS del 23 novembre 2006 “Regolamento recante disposizioni a tutela dell’utenza in materia di fornitura di servizi di comunicazione elettronica mediante contratti a distanza”, la quale contiene una serie di regole concernenti il tipo di info precontrattuali che il professionista è tenuto a veicolare al consumatore prima della conclusione di un contratto a distanza, le conseguenze sulle obbligazioni contrattuali in caso di fornitura non richiesta e l’esercizio del diritto di recesso. Il confronto delle previsioni contenute nel regolamento AGCOM con le disposizioni del Codice del consumo novellate fa emergere la sussistenza di molteplici disarmonie che riguardano non solo il contenuto delle informazioni che il professionista è obbligato a fornire nella fase precontrattuale e la disciplina del diritto di recesso, ma anche i requisiti di forma che il professionista è tenuto a rispettare nella conclusione del contratto e la disciplina della fornitura non richiesta.  Nel settore dell’energia, l’AEEG ha adottato la deliberazione 153/2012 del 19 aprile 2012 recante “Adozione di misure preventive e ripristinatorie nei casi di contratti e attivazioni non richiesti di forniture di energia elettrica e/o di gas naturale”. Senza scendere troppo nei dettagli, deve osservarsi che anche in questo caso la regolamentazione contiene norme divergenti rispetto a quanto previsto dalla nuova normativa sia in tema di requisiti formali nei contratti a distanza e negoziati fuori dai locali commerciali sia rispetto a quanto previsto in materia di fornitura non richiesta. Nel settore agro-alimentare, infine, il recente regolamento comunitario sui prodotti alimentari contiene obblighi informativi che dovranno essere attentamente coordinati con le nuove norme. Si può osservare, in definitiva, che se la modifica dell’art. 27 del Cod. cons. sulle competenze ha prima facie dato risposta al problema della competenza per le pratiche commerciali scorrette, sussiste invece ancora qualche incertezza in alcuni settori regolati per l’applicazione delle nuove norme sui diritti dei consumatori nei contratti. 4.Osservazioni conclusive.  L’esigenza che la rivoluzione digitale e le opportunità che ne derivano non si traducano in un ostacolo all’accesso a nuovi servizi per un’ampia categoria di consumatori è particolarmente avvertita dall’AGCM. La casistica degli ultimi anni ha evidenziato, non a caso, la necessità di ovviare alla complessità delle operazioni oggi richieste per numerose tipologie di acquisti on line, così come alla prassi sempre più diffusa di fornire una molteplicità di informazioni che spesso non costituisce quella necessaria per compiere scelte consapevoli. Si tratta di problematiche che, stante la natura transnazionale di internet, non possono che essere affrontate a livello sovranazionale e a cui, perlomeno in parte, si è rimediato con il recepimento della direttiva. Dall’analisi svolta emerge chiaramente che le norme di recepimento hanno tipizzato come illeciti consumeristicitalune condotte che almeno in parte la prassi applicativa dell’Autorità in materia di tutela del consumatore già da tempo aveva enucleato e sanzionato come pratiche commerciali scorrette: tra i casi più noti, si pensi alle forme di ingannevolezza per omissione (in materia di prezzi), al filone delle attivazioni non richieste (o non consapevoli) e a talune condotte in tema di recesso. Ciò dimostra la continuità delle nuove norme sui diritti dei consumatori a quelle sulle pratiche commerciali scorrette e di conseguenza la funzionalità dell’attribuzione all’AGCM della competenza ad applicare entrambi i plessi normativi. Per altro verso, è anche emerso che, con specifico riferimento alla ratio ed ai presupposti dell’intervento amministrativo, le nuove norme si prestano ad una duplice lettura: ove interpretate in modo letterale, potrebbero dar luogo ad esiti tutt’altro che soddisfacenti, prefigurando un’Autorità chiamata a perseguire anche violazioni di nessun rilievo dal punto di vista dell’interesse pubblico e con una portata circoscritta alla singola controversia, in potenziale concorrenza con il giudice. Di qui l’importanza di privilegiare un’interpretazione sistematica delle nuove norme che consenta di ricondurre la competenza riconosciuta in capo all’AGCM alla tutela di un interesse generale qualificato, al diritto della concorrenza e del mercato. Se riguardato in questi termini, si può concludere che il d. lgs. 21/2014 tutela un interesse pubblico assimilabile a quello già presidiato dall’Autorità nell’esercizio delle proprie attribuzioni istituzionali. Nella propria valutazione in ordine alla violazione contestata, l’Autorità avrà presumibilmente riguardo non solo all’impatto della stessa sugli interessi individuali direttamente incisi, ma anche alle sue ricadute dirette in termini di corretto funzionamento del mercato. Nella possibilità, in definitiva, di sviluppare prassi applicative che coniughino la protezione del consumatore con la promozione dell’efficienza economica risiede il valore aggiunto che l’Autorità potrà fornire in questa materia. Un compito impegnativo, ma anche necessario per rafforzare la fiducia dei consumatori e sostenere così il pieno decollo dell’e.commerce. 29 ottobre 2014

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