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Il giudice nazionale può rideterminare il contenuto della clausola abusiva essenziale applicando una disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva

di Alessandro D’Adda [*] Con la pronuncia del 30 aprile 2014 nella causa C–26/13 Kásler/OTP Jelzálogbank Zrt  la Corte di giustizia dell’Unione europea interviene nuovamente, tra l’altro, sull’interpretazione dell’art. 6, paragrafo 1 della direttiva 93/13 in tema di clausole abusive nei contratti stipulati tra professionisti e consumatori – per cui la clausola non vincola i contraenti mentre il contratto “resta vincolante per le parti secondo i medesimi termini” – prendendo posizione sulla sorte del contratto depurato della clausola abusiva. Se è vero che la direttiva, e le legislazioni nazionali di recepimento (da noi oggi l’art. 36 cod. cons.), hanno previsto un congegno di nullità parziale necessaria che – in deroga alla disciplina comune della nullità parziale: da noi l’art. 1419 c.c. – impone in via “automatica” la conservazione per il resto del contratto, i problemi degli effetti della caducazione della clausola abusiva sono, ad un’indagine non di superficie, assai delicati. Ci si deve infatti chiedere che cosa significhi, operativamente, conservazione per il resto del contratto. Più in particolare, obliterata la clausola abusiva, resta da capire come deve essere regolata la materia che il patto nullo intendeva disciplinare; quando poi la clausola abusiva rappresenti un elemento essenziale del contratto – si tratta proprio della vicenda oggetto della sentenza Kásler in commento – il tema si fa ancor più delicato, perché il negozio, privato della clausola, non potrebbe conservarsi per ragioni di struttura, a meno di ricorrere a strumenti che consentano di colmare la lacuna. Del resto, a quest’ultimo riguardo, la stessa direttiva 93/13 non ignora affatto il problema, precisando con certo realismo, nella parte finale dell’art. 6, che il contratto, obliterata la clausola abusiva, “resta vincolante per le parti secondo i medesimi termini, sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive”. Ma vediamo più nel dettaglio come si possono configurare gli effetti della nullità parziale necessaria, tenendo conto che le soluzioni prospettabili variano in dipendenza della natura (o meglio della struttura) della clausola dichiarata abusiva. In primo luogo si può ipotizzare il caso in cui la clausola abusiva deroghi ad una disciplina dispositiva “di portata generale” che regola una certa materia. Qui la clausola inibisce la produzione degli effetti legali “naturali” e la sua caducazione comporta che la regola legale, “compressa” dalla pattuizione negoziale, automaticamente “si riespanda”. Così l’accertamento della invalidità della clausola abusiva che regola una penale eccessiva comporta l’applicazione dell’ordinario regime della responsabilità per inadempimento; e lo stesso accade quando ad essere reputata vessatoria sia una clausola di esonero o di limitazione della responsabilità (che, come noto, nel settore dei contratti con i consumatori è di regola invalida, perché vessatoria, oltre i limiti ordinari posti, nel nostro sistema, dall’art 1229 c.c.). Anche la Corte di Giustizia (sentenza Asbeek Brusse del 30 maggio 2013, causa C- 488/11) ha avuto modo,  proprio con riferimento ad un contratto di locazione contemplante una clausola penale reputata eccessiva, di accedere all’esito descritto: se l’art. 6 della direttiva impone la pura disapplicazione della clausola (perché nulla, inefficace, reputata non scritta a seconda dello strumento tecnico utilizzato nei diversi ordinamenti) in casi come quelli esaminati l’effetto che ne segue è l’operare delle regole ordinarie della responsabilità contrattuale. La decisione ha peraltro corollari certamente consumer oriented: nel caso deciso dalla pronuncia l’applicazione delle regole ordinarie di responsabilità è alternativa – e preferita – alla riduzione della clausola penale; tecnica quest’ultima legittima (si pensi al nostro art. 1384 c.c.) ma non nei contratti tra professionisti e consumatori. Perché, ci dice la Corte di giustizia, l’art. 6 della direttiva 93/13 prescrive la “conservazione secondo i medesimi termini” e con ciò non consentirebbe al giudice nazionale di limitarsi a ridurre la clausola penale; rimedio questo reputato troppo poco disincentivante l’apposizione della clausola abusiva. Nelle fattispecie evocate non si pongono allora dubbi circa l’operare della disciplina dispositiva quale effetto normale ed automatico della caducazione della clausola abusiva. Ma talora le caratteristiche “strutturali” della clausola abusiva caducata complicano le cose. Si pensi alla nullità della clausola con cui le parti pattuiscono interessi nulli perché reputati abusivi in ragione del loro ammontare  eccessivo. Qui diversi sono gli effetti della nullità parziale prospettabili: si può ipotizzare (i) che la caducazione della clausola comporti l’applicazione della disciplina dispositiva, e quindi l’applicazione degli interessi legali; (ii) che, caduto il patto, nulla sia più dovuto a titolo di interessi; (iii) che – ed è quel che talune discipline nazionali prevedono – il giudice sia autorizzato a rideterminare, nei limiti di una congruità “non abusiva” gli interessi (soluzione, questa, omogenea a quella scartata dalla menzionata pronuncia Asbeek Brusse con riferimento alla riduzione della penale). Ora, anche su tali alternative la Corte di Giustizia (sentenza 14 giugno 2012, Banco español de crédito/Calderón Camino, C – 618/10) ha avuto modo di dire la sua. La pronuncia era chiamata a valutare – la fattispecie sottoposta al giudice del rinvio aveva ad oggetto proprio gli effetti della caducazione del patto contemplante interessi in misura ritenuta abusiva – la compatibilità con l’art. 6 della direttiva della disciplina del “codice del consumo” spagnolo (art. 83 Real decreto legislativo 1/2007, Ley General para la Defensa de los Consumidores y Usuarios ) che – precisato che “la parte del contratto colpita da nullità è integrata conformemente all’articolo 1258 del codice civile e al principio di buona fede oggettiva” – attribuisce al giudice “poteri di moderazione rispetto ai diritti e obblighi delle parti, nel caso di sopravvivenza del contratto” così legittimandolo di fatto alla sostituzione della clausola invalida con la regola dispositiva ovvero con propria determinazione di riduzione “nei limiti della non abusività”. La posizione della Corte è anche in questo caso perplessa quanto alla riduzione giudiziale del patto, considerando che una simile soluzione non disincentiverebbe il professionista – che al massimo vedrebbe ricondotto il contratto entro limiti non abusivi – dall’imporre pattuizioni vesstaorie. Ma la soluzione della Banco español de credito va oltre: non solo, come per l’Asbeek Brusse, il diritto comunitario precluderebbe la riduzione giudiziale del patto abusivo; di più non sarebbe coerente con la direttiva 93/13 neppure l’applicazione della disciplina dispositiva, se esistono soluzioni ancora più favorevoli per il consumatore. Insomma, la direttiva, nel prevedere tout court la caducazione del patto, imporrebbe non l’applicazione della disciplina dispositiva derogata (gli interessi legali), ma, piuttosto, che nessun interesse sia dovuto. Una siffatta soluzione non persuade (per più ampie considerazioni critiche rinvio a D’Adda, Giurisprudenza comunitaria e massimo effetto utile per il consumatore: nullità (parziale) necessaria della clausola abusiva e integrazione del contratto, in I contratti, 2013, 16 e ss.; sulla questione di recente v. anche R. Alessi, Clausole vessatorie, nullità di protezione e poteri del giudice: alcuni punti fermi dopo le sentenze Jőrös e Asbeek Brusse, in www.juscivile.it, 2013; Pagliantini, La tutela del consumatore nell’interpretazione delle Corti, Torino, 2012, p. 192 e ss. D’Amico, L’integrazione cogente del contratto mediante diritto dispositivo, in D’Amico – Pagliantini (a cura di), Nullità per abuso ed integrazione del contratto, Torino, 2013, p. 230 e ss.). La trasformazione del mutuo da oneroso a gratuito, non è, infatti, l’ordinario effetto della “pura” nullità parziale bensì, al contrario, una soluzione sanzionatoria per il professionista che va ben oltre la tecnica, di obliterazione dell’abuso, cui pare ispirata la disciplina della direttiva 93/13. E che, a mio parere, è legittima solo se fondata su scelte del legislatore specifiche ed ulteriori rispetto a quelle che “si limitano” ad imporre la caducazione parziale con conservazione del contratto “secondo i medesimi termini” (una siffatta scelta sanzionatoria specifica, come noto, si rinviene in Italia all’art. 1815 c.c. – per come modificato nel 1996 – a tenore del quale il patto usurario è nullo “e non sono dovuti interessi”, nemmeno nella misura legale, come invece disponeva il testo previgente). Insomma, mi pare che l’applicazione della disciplina dispositiva abusivamente derogata costituisca la soluzione di gran lunga preferibile, sia sotto il profilo della sua giustificazione “tecnica” sia per l’equilibrio degli esiti operativi che assicura. Non solo quando la riespansione della disciplina dispositiva opera in via automatica (come nella fattispecie di clausola penale eccessiva presa in considerazione dalla sentenza Asbeek Brusse),  ma anche quando, come nella vicenda degli interessi abusivi, sia dato prospettare una pluralità di effetti della caducazione della clausola abusiva. Su queste premesse, si può allora affrontare in modo consapevole l’esame della recentissima sentenza Kásler/OTP Jelzálogbank Zrt del 30 aprile 2014 la quale, come si è accennato, si interroga su di un’ulteriore applicazione dell’integrazione del contratto depurato dalla clausola abusiva. Pronunciandosi sulla idoneità della disciplina dispositiva a colmare le lacune generate dalla caducazione  di una clausola del contratto essenziale, perché regolante le prestazioni dovute dalle parti (nel caso di specie la clausola determinava l’ammontare della rata mensile dovuta dal mutuatario al finanziatore, ed è reputata abusiva perché faceva dipendere l’ammontare di una rata in fiorini ungheresi, per la restituzione di  un finanziamento corrisposto in fiorini ungheresi, dal tasso di cambio, calcolato alla scadenza di ogni singola rata, tra fiorino e franco svizzero, pur in assenza di qualsivoglia prestazione di servizi di cambio; e ciò evidentemente al fine di assicurare alla banca – in un contesto di svalutazione del fiorino – un lucro ulteriore). Ora, in tali ipotesi, a differenza di quelle sin qui esaminate, l’obliterazione del patto non comporta “riespansioni” più o meno automatiche della disciplina dispositiva derogata. In via logica, al contrario, la caducazione della clausola – che regola il corrispettivo dovuto dal mutuatario – potrebbe determinare la nullità totale del contratto, travolto dalla perdita di un proprio elemento essenziale Un conto infatti, sotto il profilo insieme concettuale ed operativo, è la obliterazione di una clausola che non compromette la tenuta strutturale del negozio: il contratto, salvo per il resto, semplicemente si rimodulerà secondo la disciplina dispositiva abusivamente derogata. Ma quando a “venir meno” è una pattuizione essenziale,  allora il profilo degli effetti della caducazione si configura diversamente: e qui l’alternativa è tra nullità dell’intero contratto ed integrazione – che questa volta non è l’effetto dell’automatica riespansione della disciplina derogata – mediante misure che consentano di colmare la lacuna lasciata dalla caducazione (sulla distinzione tra queste fattispecie sia permesso rinviare a D’Adda, Nullità parziale del contratto e tecniche di adattamento, Padova, 2008, p. 272 e s.). Si tratta però di capire se un simile atteggiarsi della tecnica integrativa sia prospettabile in assenza di discipline legali che legittimino espressamente una simile integrazione cogente. Ovvero se, in tali casi, sia più coerente con la salvaguardia dell’autonomia privata la nullità totale del contratto. In prima battuta, l’inciso finale dell’art. 6 della direttiva 93/13, che come visto subordina la salvezza del contratto alla circostanza che il contratto “possa sussistere senza le clausole abusive”, potrebbe indurre a concludere nel senso della caducazione dell’intero contratto. Soluzione questa che potrebbe apparire coerente anche con le altre evocate pronunce della Corte di giustizia in tema di effetti della nullità parziale, che come si è visto ripudiano la correzione giudiziale (e nel caso della sentenza Banco español de credito fors’anche la correzione dispositiva). La sentenza Kásler perviene invece ad un esito diverso, ritenendo che alla caducazione del patto regolante il corrispettivo dovuto dal mutuatario debba seguire l’applicazione della disciplina suppletiva che consente di rideterminare detto corrispettivo in termini non abusivi (che nel caso di specie consentirebbe di non porre a carico del mutuatario le oscillazioni del cambio fiorino franco svizzero in assenza di qualsivoglia servizio di cambio). La presa di posizione della Corte è davvero importante. In primo luogo perché fornisce una risposta autorevole ad un interrogativo che da sempre la disciplina delle clausole vessatorie nei contratti con i consumatori solleva: quella della sorte del contratto nel caso di nullità di una clausola essenziale. In secondo luogo perché – confermando quel che già implicitamente si poteva inferire dalla sentenza Asbeek Brusse –   supera le segnalate ambiguità della pronuncia Banco español de credito (che riteneva la pura caducazione prevalere sull’integrazione dispositiva con interessi legali), i cui esiti avrebbero dovuto, a rigore, suggerire una soluzione (la nullità totale) diversa. Sotto il primo profilo da tempo si discute in dottrina, per le ipotesi di invalidità di protezione in cui il fine del legislatore è la conservazione del contratto per il resto,  circa la facoltà del giudice di applicare la disciplina legale dispositiva al fine di colmare la lacuna lasciata dalla caducazione del patto. Rilevando come una tale soluzione parrebbe preferibile alla perdita dell’intero contratto, attesa la ratio delle previsioni di nullità ed i caratteri della regola dispositiva che, lungi dallo stravolgere il contratto, delinea il normale ed ordinario assetto di interessi che, in assenza di deroghe, vincola le parti di una determinata operazione. Sì che la correzione dispositiva non incorrerebbe nei rischi dell’imprevedibilità (per le parti) e dello snaturamento delle scelte dell’autonomia privata che minano altre modalità correttive, come quelle integralmente demandate alla discrezionalità giudiziale (sul punto ancora D’Adda, Nullità parziale e tecniche di adattamento del contratto, cit., p. 261 e ss.; Id. Regole dispositive in funzione «conformativa» ovvero una nuova stagione per l’equità giudiziale? in Bellavista – Plaia (a cura di), Le invalidità del diritto privato, Milano, Giuffré, 2011, p. 385 e s.). Ora, con la sentenza Kásler la Corte di giustizia, per la prima volta in modo netto, afferma che il giudice nazionale può rideterminare il contenuto della clausola abusiva essenziale applicando “una disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva”. E ciò proprio considerando come la ratio a fondamento della nullità (o, a seconda degli ordinamenti, dell’inefficacia) della clausola vessatoria impone di attivare soluzioni che, per un verso, assicurano soluzioni prevedibili ed equilibrate e, per l’altro, consentono di evitare un esito, quello della nullità totale, che esporrebbe il consumatore “a conseguenze particolarmente dannose, talché il carattere dissuasivo risultante dell’annullamento del contratto rischierebbe di essere compromesso”. E’ proprio tale ultima considerazione della Corte di giustizia ad indurre ad una riflessione conclusiva, che consente di dare una (seppur minima) coerenza ai reiterati interventi dei giudici comunitari in tema di effetti della nullità parziale e di  integrazione dispositiva del negozio, succedutesi tra il giugno 2012 e l’aprile 2014 e che hanno sollecitano queste riflessioni. In prima battuta le soluzioni prospettate nelle tre pronunce esaminate, pur relative a clausole negoziali strutturalmente eterogenee, non paiono invero coerenti: in particolare, come visto, la Banco español de crédito sembra sbarrare il passo all’applicazione delle regole dispositive, per prediligere l’idea della pura caducazione; al contrario, la recentissima sentenza Kasler legittima la sostituzione (ad opera delle discipline legali) finanche di clausole essenziali. La corte sorvola su siffatte contraddizioni, e sulle ragioni concettuali – oltre che di equilibrio degli esiti operativi – che a mio parere dovrebbero indurre a prediligere in ogni caso – e quindi in ognuna delle fattispecie evocate – la “riespansione” della disciplina dispositiva abusivamente derogata. Ma i giudici comunitari rivendicano espressamente la coerenza delle proprie soluzioni, che troverebbero unità nell’assicurare il massimo effetto utile per il consumatore e, più in particolare, soluzioni “onerose” per il professionista che lo disincentivino ad imporre nel regolamento negoziale clausole abusive. Così la clausola penale non andrà ridotta ma obliterata (con applicazione di regola dispositiva); il patto sugli interessi abusivo non andrà ridotto né andranno applicati gli interessi legali, ma il mutuo da oneroso diverrà gratuito; infine, se caducata è una clausola essenziale, la nullità totale dovrà essere evitata, questa volta mediante applicazione della disciplina suppletiva (se sussistente). Con il che la finalità di tutela risulta assorbente di ogni ragione di coerenza tecnica, che tuttavia, anche nella prospettiva del diritto comunitario, non sembra poter essere del tutto obliterata. Sicché se la pronuncia Kásler merita adesione, il quadro complessivo delineato dalla Corte di giustizia in tema di effetti della caducazione parziale è solo in parte convincente: meglio sarebbe stato assicurare in ogni caso soluzioni (come nelle pronunce Asbeek Brusse e Kásler) che, per un verso, salvaguardano la ratio di tutela sottesa alla direttiva 93/13 disincentivando pattuizioni abusive; ma, nel contempo, assicurano soluzioni equilibrate sul piano empirico e fondate (nonché tra loro coerenti) sul piano logico sistematico. [*] Università Cattolica di Milano LEGGI la massima della sentenza 21 maggio 2014

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