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Come fare home food online in Italia?

di Gilberto Nava e Dario Morelli Bookalokal, Ceneromane, Gnammo, Le Cesarine e Peoplecooks sono soltanto alcune delle community online che – ciascuna secondo le proprie peculiari modalità – consentono agli utenti di incontrarsi a tavola, in ristoranti o, più spesso, in case private. Il fenomeno dell’home food (o pop-up/underground/closed-door restaurant), che nasce storicamente come un’alternativa allo stringente regime autorizzatorio che tutti i principali ordinamenti impongono alle imprese di ristorazione (sul tema, tra gli altri, si distingue la risalente ma approfondita inchiesta condotta da «The Guardian»), col tempo è andato evolvendosi di pari passo con il web 2.0, fino ad assumere e a valorizzare tutta la propria positiva potenzialità culturale e sociale. Proprio in considerazione dell’alto valore socio-gastronomico ormai vantato dal fenomeno, nel 2009 è stato depositato in Senato un apposito disegno di legge (DDL n. S.1612) recante “Disposizioni in materia di promozione e di svolgimento dell’attività di home food”, volto a regolamentare «le attività finalizzate all’erogazione del servizio di ristorazione esercitato da persone fisiche all’interno delle proprie strutture abitative». Il DDL prevedeva che le persone fisiche potessero esercitare, per un numero massimo di venti coperti al giorno, un servizio di ristorazione all’interno di strutture abitative aventi «i requisiti igienico-sanitari per l’uso abitativo previsti dalle leggi e dai regolamenti vigenti» (art. 2.2), senza necessità di iscrizione al Registro degli esercenti il commercio e previa una comunicazione d’inizio attività al comune competente, accompagnata da una relazione di asseveramento redatta da un tecnico abilitato. Tuttavia, il DDL n. S.1612 sull’home food non è mai stato nemmeno discusso dal Parlamento italiano. Di conseguenza, in Italia ogni ipotetica iniziativa di c.d. home food 2.0 deve tuttora confrontarsi con le norme giuridiche generali in tema di ristorazione e somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, tra cui la celebre – almeno tra i ristoratori – legge n. 287/1991, come modificata, da ultimo, dal decreto legislativo di recepimento della direttiva 2006/123/CE. La compliance con tale normativa implica criticità giuridiche e operative che vanno ben al di là di quelle di ogni altra forma di e-commerce. Infatti, la somministrazione anche occasionale di cibo e bevande – cioè «la vendita per il consumo sul posto, che comprende tutti i casi in cui gli acquirenti consumano i prodotti nei locali dell’esercizio o in una superficie aperta al pubblico, all’uopo attrezzati» – dietro corrispettivo è sottoposta a un articolato regime autorizzatorio, che conosce ben poche deroghe (tra cui non rientra alcuna forma di home restaurant aperto al pubblico). Si segnala a proposito che una delle rare normative di favore in questo settore è rappresentata dal procedimento autorizzatorio semplificato previsto dalla legge per i circoli privati, nel cui ambito, infatti, si inscrivono fenomeni associazionistici di home food no-profit come, ad esempio, Le Cesarine (www.homefood.it), da tempo patrocinato sia dal Ministero delle Politiche Agricole che da diverse regioni italiane. A complicare ulteriormente la situazione per l’home food 2.0 vi è anche la necessità di rispettare il composito quadro normativo e regolamentare in materia di sicurezza alimentare, che comprende, tra le tante, anche disposizioni come la legge n. 283/1962 recante disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e le disposizioni del codice penale in tema di frodi alimentari (artt. 440, 442, 444 c.p. etc.) Tuttavia, se si assume la diversa prospettiva dei nuovi players dell’home food 2.0, quello che cioè si pratica online attraverso piattaforme digitali, ci si accorge che la gestione delle suddette piattaforme non sembra qualificarsi, nella maggior parte dei casi, come una vera e propria somministrazione al pubblico di alimenti e bevande. Il più delle volte, infatti, si tratta di un’offerta di semplici servizi di memorizzazione di informazioni online (hosting), come quelli descritti dall’art. 16, D.Lgs. n. 70/2003 e dall’art. 14 della Direttiva 2000/31/CE. A norma di tali disposizioni, l’hosting provider non risponde degli illeciti commessi dai propri utenti mediante l’uso della piattaforma, a condizione che egli non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività dell’utente o l’informazione da lui memorizzata sia illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione; oppure, non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso. La normativa di settore, come è noto, esclude inoltre che in capo agli hosting provider possa configurarsi un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che essi trasmettono o memorizzano. Allo stesso modo, è escluso qualsiasi obbligo generale di ricercare attivamente sulle proprie piattaforme fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. Alla luce di ciò, i gestori di siti che consentono ai propri utenti di aprire al pubblico i propri tinelli e organizzare cene, eventualmente a pagamento, non dovrebbero essere responsabili di eventuali attività di ristorazione illecite condotte dai medesimi utenti con l’ausilio del sito. Ma la realtà, soprattutto in Italia, è sempre molto più complicata di come appare a prima vista. Da un lato, infatti, è necessario che le condizioni del servizio siano – e appaiano chiaramente – tali da non favorire di fatto la ristorazione abusiva, e da non mettere il gestore della piattaforma nella condizione di “non potere non sapere” dell’esistenza di condotte illecite degli utenti. Dall’altro lato è necessario implementare un sistema di gestione dei contenuti che consenta la piena compliance con tutte le norme che regolano l’esercizio di attività di hosting in Italia e in Europa. Inoltre, restano in ogni caso escluse dal regime di responsabilità civile e penale previsto per gli hosting provider tutte quelle condotte del gestore del sito che non siano qualificabili come mera gestione del servizio di memorizzazione di informazioni fornite dai destinatari dei servizi stessi (si pensi, ad esempio, a tutte le attività promozionali della piattaforma, svolte dal gestore direttamente o per tramite di agenti, che implichino una qualche somministrazione di cibo al pubblico). In conclusione, quindi, si può dire che le vie della compliance in questo settore del mercato digitale appaiono malagevoli, se non addirittura impervie. Le strettoie imposte dalla normativa sulla somministrazione di cibi e bevande richiedono, a chi volesse creare e gestire anche una mera piattaforma di incontro online, analisi giuridiche di ampio respiro, per evitare di incappare in conseguenze risarcitorie o sanzionatorie assai poco piacevoli. Non si può non osservare, quindi, come anche in questo campo risulti necessaria e urgente una modifica legislativa – auspicabilmente più ampia e incisiva rispetto a proposte di modifica puntuali e disorganiche come il già citato DDL n. S.1612 – per rispondere alla veloce evoluzione della moderna imprenditoria. In questo senso, la liberalizzazione, seppur controllata, dell’home food potrebbe infatti rappresentare un tassello importante di quella strategia che vede nella valorizzazione delle peculiarità enogastronomiche italiane un efficace volano di sviluppo per l’offerta di servizi turistici più rispondenti alle crescenti esigenze social della società dell’informazione. 26 settembre 2014

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